La musica è fondamentalmente tempo, ma troppo spesso non teniamo conto che è anche spazio. Spazio non solo esteriore, quello in cui fisicamente la musica si propaga fino a giungere al nostro udito, ma soprattutto interiore, quello in cui si realizza nel pensiero e nell’immanente la creazione e la costruzione stessa del messaggio sonoro. Un pensiero che nel compositore, nella dimensione storica in cui si viene a trovare, si materializza attraverso le sonorità, le consuetudini acustiche che il suo tempo e gli strumenti di quell’epoca gli permettono di evocare e immaginare interiormente prima ancora di riprodurli nella realtà fisica delle cose.

Ecco, allora, che se realizziamo il processo creativo sotto questa particolare, ma innegabile, luce, dobbiamo anche prendere atto di come questa spazialità interiore che sorge dalla creazione musicale ci può aiutare a considerare e a fissare meglio il suono prodotto e veicolato da quella determinata opera. Se non ci abituiamo a considerare “storicamente” l’evoluzione dell’arte dei suoni, non saremo mai pronti ad accettare e ad assimilare la reale fisicità che li ha contraddistinti nel momento stesso della loro nascita, altrimenti si genera un malinteso non solo musicale, ma anche storico, attraverso i quali non possiamo cogliere né la veritiera dimensione sonora di quel dato evento artistico, né la sua germinazione interiore che appartiene al vissuto creativo del compositore stesso.

Uno di questi malintesi, tra i più importanti e frequenti, che solcano i canali dell’apprendimento e dell’ascolto musicali, è quello che riguarda la suprema stagione romantica della cosiddetta musica “pianistica”, in quanto fisicamente, acusticamente, timbricamente di “pianistico” (se consideriamo il periodo che va dal primissimo Ottocento fino al suo ottavo decennio) c’è invero ben poco rispetto alle proiezioni e alle conquiste organologiche che portano a livello di meccanica il pianoforte per come lo intendiamo adesso nella nostra attualità storica. Questo perché, da un punto di vista squisitamente “pianistico”, nel senso letterale del termine, ossia di come possiamo considerare tale strumento a tastiera nella sua concezione moderna e attuale, è possibile parlare “storicamente” di pianoforte solo in coincidenza con gli ultimissimi decenni dell’Ottocento, quindi con un suono non solo fisico, ma anche immanente che corrisponde a quello che sentiva in sé colui che creava musica, come accade con il Brahms che compose nel 1878 gli Acht Klavierstücke Op. 76, in quanto il pianoforte che il sommo musicista di Amburgo utilizzò vantava le medesime sonorità fisiche (e quindi spazialmente interiori) che appartengono alla nostra idea attuale per ciò che riguarda questo strumento e la sua evoluzione meccanica.

La cover del CD Dynamic, con gli Intermezzi e la Sonata op. 11 di Schumann interpretati da Tullia Melandri.

In tal senso, la presente registrazione della Dynamic, che vede la pianista faentina Tullia Melandri eseguire due pagine giovanili di Robert Schumann, ossia i sei Intermezzi Op. 4 e la fantasmagorica Sonata in fa diesis minore Op. 11, è a dir poco sintomatica rispetto a quanto si è scritto finora. Questo perché l’artista romagnola, che da tempo si è trasferita in Olanda, ha voluto interpretare queste due opere non al pianoforte, ma su un fortepiano Joseph Simon del 1830 circa, restaurato a Firenze nel Laboratorio di Restauro del Fortepiano, vale a dire su uno strumento simile a quelli usati sia da Schumann, sia dalla consorte Clara Wieck nella prima metà dell’Ottocento.

Partiamo dalle due pagine in questione, la cui scelta ha una sua precisa ragione, a cominciare dall’anno della loro composizione, per l’esattezza il 1832 (almeno per ciò che riguarda l’Op. 4, mentre per ciò che concerne la Sonata in quell’anno Schumann scrisse il primo tempo, l’Allegro quasi maestoso), che rappresenta nella vita del musicista di Zwickau un ineluttabile spartiacque, quando decise di abbandonare il progetto di diventare un pianista virtuoso per via del danno subito al terzo dito della mano destra (ufficialmente causato da scriteriati esercizi di divaricazione, ma che probabilmente è da addebitare alle dosi di mercurio che Schumann assunse in quel periodo per debellare la sifilide di cui era affetto) per abbracciare la carriera compositiva.

Un esemplare di fortepiano Joseph Simon risalente alla prima metà dell’Ottocento.

Quindi, tra le prime opere che Schumann volle comporre per il suo strumento ci furono proprio l’Op. 4 e la Sonata Op. 11, di cui la prima rappresenta una sorta di work in progress per stile, per materiale immesso, per concezione estetica che porterà poi alla realizzazione della seconda, anche se a dire il vero gli Intermezzi vengono proposti in concerto e registrati assai più raramente rispetto all’Op. 11, che assurge già a una sua nettezza e ad una profondità esplorativa che la fanno rientrare in un contesto di “maturità” stilistica. La peculiarità dell’Op. 4 è che dev’essere considerata ed affrontata più come suite, quindi proposta integralmente. Questo perché fu lo stesso Schumann a specificarlo in un certo senso nello spartito, visto che si indica chiaramente un attacco tra il secondo e il terzo pezzo, così come tra il terzo e il quarto, senza contare la presenza delle corone su pausa alla fine del primo e del quinto pezzo e la legatura “a vuoto” alla fine del terzo, che fanno capire come questi sei Intermezzi non debbano essere estrapolati per essere eseguiti autonomamente. C’è anche un altro aspetto che esalta la loro concatenazione formale ed esecutiva, quello che riguarda il loro schema che in linea di massima si fissa in una struttura A-B-A, in cui il segmento centrale è costituito da un cosiddetto “Alternativo” che ha la funzione di alternare, per l’appunto, l’andamento espressivo della tessitura musicale e che corrisponde grossomodo al Trio del Minuetto o dello Scherzo (anche se il quarto intermezzo, data la sua brevità, non presenta il segmento “Alternativo”). Da ultimo, c’è da notare come la parte centrale del terzo Intermezzo sia basata su una melodia che presenta l’espressione «Meine Ruh’ ist hin» (“La mia pace è scomparsa”), vale a dire le stesse parole che appartengono al celeberrimo Lied Gretchen am Spinnrad di Schubert e di cui ricalcano quasi similmente lo stesso incipit melodico.

Da un punto di vista concettuale, l’Op. 4, considerata anche in proiezione rispetto alle opere future, a cominciare proprio dalla Sonata Op. 11, rappresenta un distacco inevitabile dalla visione pianistica beethoveniana e dalla sua visione legata allo sviluppo formale ed espressivo di una o più idee; al contrario, il giovane Schumann non concretizza la sua attenzione nei confronti di un’“idea” da sviluppare (il parallelo filosofico non può che essere Hegel e la sua “pianificazione dialettica”), ma cerca di evidenziare un possibile sorgere, con relativa fissazione formale-espressiva, di “flussi di coscienza”, ponendo da vero romantico l’irrazionale sulla stessa linea del razionale, facendo sì che la sua estetica musicale sia più prossima a posizioni filosofiche che appartengono maggiormente all’arcipelago schopenhaueriano-nietzschiano, dando se non un inizio quantomeno a un segnale anticipatore di quello che sarà lo sviluppo della dimensione musicale verso una dilatazione formale-temporale votata al non-finito, della quale si approprierà definitivamente il côté tardoromantico formato dall’asse Bruckner-Mahler.

Da questo punto di vista, la Sonata Op. 11 è già un’enunciazione che a livello formale-temporale non solo si dilata, i due tempi opposti sfiorano globalmente i venticinque minuti, ma che già presenta e porta a compimento, almeno sui presupposti del “flusso di coscienza” quanto anticipato e indicato a suo tempo da Schubert, ossia sconfinare il concetto del tempo incanalandolo in una dimensione ciclica, come mostrano chiaramente le sue ultime tre grandi Sonate. Con l’Op. 11, Schumann non solo dilata la forma, ma fa in modo di strutturarla su piani sonori che devono richiamare quel “flusso di coscienza” di cui si è detto, rinnegando l’“idea” organica e sistematica beethoveniana per mostrare l’avvicendarsi di moti interiori in cui si affastellano senza soluzione di continuità masse aggreganti di ricordi/sensazioni (l’influsso letterario dato dalle opere visionarie di Jean Paul lasciarono indubbiamente il segno sul ventenne Schumann!). E tutto ciò cercando, con un parziale successo, di incapsulare questi ininterrotti moti pulsionali sorti dalla continua scissione tra Florestano ed Eusebio all’interno di una struttura formale che soprattutto nel primo e nel quarto tempo viene costruita attraverso un tema che ha anche il compito di essere una sorta di rappel à l’ordre, di elemento di richiamo nel quale alla fine tutto il flusso emotivo/immanente viene risucchiato come in un buco nero che assorbe in sé ogni forma di materia.

D’altronde, se teniamo a mente la nascita e lo sviluppo creativo dell’Op. 11 non possiamo fare a meno di notare come la fase compositiva schumanniana, almeno in questo periodo iniziale, si basi su un continuo parallelismo di materiale che è allo stesso tempo derivazione di ambito musicale già espresso in forma larvale, così come di afflati di natura letteraria, per i quali la dimensione figurativa delle immagini e delle sensazioni che vengono immesse ed espresse attraverso il binomio Florestano/Eusebio trovano un naturale sbocco tra parola e suono e viceversa. Ecco, allora, che nella Sonata Op. 11 abbiamo il primo tempo, l’Allegro vivace, il quale in realtà era già stato scritto in precedenza da Schumann come Fandango: Rhapsodie pour le Pianoforte, mentre il secondo tempo, Aria, deriva quasi interamente da un Lied del 1827-29, An Anna (su testo del poeta Justinus Kerner) e senza contare che questo stesso Lied fornisce a Schumann il materiale per dare vita all’Introduzione del primo tempo. Tutto ciò per trovare un fissante capace di bloccare e unificare le peculiarità della funzione espressiva, formata da un flusso di frangenti (i quali possono essere sia pensieri, sia ricordi, sia immagini) dell’universo schumanniano che si riversano nel dispiegarsi temporale della composizione. Ormai, il musicista di Zwickau si è lasciato alle spalle l’“oggetto” preso in considerazione e plasmato da Beethoven per aderire al “soggetto” stesso, il compositore, che viene oggettivizzato musicalmente.

La pianista faentina Tullia Melandri, protagonista della registrazione della Dynamic.

Si può ben comprendere come il sentiero intrapreso pianisticamente da Schumann sia costantemente punteggiato da una sistematica ricerca e conseguente espressività di un innere Klang, di un “suono interiore” che dev’essere riproposto storicamente e acusticamente attraverso strumenti che siano a livello timbrico fedeli depositari di tale ricerca espressiva. Per questo motivo, la scelta operata da Tullia Melandri è oltremodo intrigante, in quanto, come si è già accennato, l’artista faentina ha optato su un modello Joseph Simon risalente alla prima metà dell’Ottocento per eseguire queste due opere che risalgono per l’appunto al 1832 (Op. 4) e al 1832-35 (Op. 11), senza tenere conto che all’epoca sia Robert Schumann, sia Clara Wieck (la quale eseguì spesso tra le mura domestiche a beneficio di amici e pochi fortunati queste due pagine che amava moltissimo) trovarono nei fortepiani del viennese Conrad Graf gli strumenti ideali con i quali proporre le loro opere, per via del timbro che questi fortepiani riuscivano a dare, contraddistinti da un suono caldo, più scuro (quindi, meno “clavicembalistico” rispetto agli Érard che Clara non poteva sopportare), maggiormente trasparente, in grado di restituire quindi quelle sfumature che il “suono interiore” schumanniano necessita per essere reso al meglio.

Simon, che di Graf fu dapprima collaboratore e allievo, quando si mise in proprio dando vita al suo laboratorio a Vienna, riprese la meccanica utilizzata dal suo maestro e la implementò nei suoi fortepiani, facendo sì che i suoi modelli non si discostassero da quelli del più famoso Graf. Ed è ciò che si evince, ascoltando attentamente questa registrazione. Al di là della scelta basata su un’intenzione esecutiva storicamente informata quale può darla un’interpretazione filologica, resta il fatto che Tullia Melandri, con questa incisione, ha posto in debito risalto l’importanza, l’ineluttabilità di quell’innere Klang schumanniano, fissandolo attraverso un processo timbrico ed esecutivo che presenta delle interessanti peculiarità. Optando sulle sonorità (e sul meccanismo) di un fortepiano, la pianista romagnola ha dovuto privilegiare (ma questa non è una costrizione, bensì una precisa scelta) un modello di fraseggio che potesse mettere in risalto quei piani sonori di cui si è già detto, ossia di presentare un flusso musicale che desse modo di avvertire chiaramente l’affastellarsi, il sovrapporsi di immagini, pensieri, emozioni, ricordi che si annidano in queste due composizioni, con un legato che si presenta quasi a “scatti”, nervoso, irrequieto, frutto di continue pulsioni che faticano ad essere disciplinate, quindi ad essere musicalmente espresse.

E ciò permette di rendere meglio, a mio avviso, un aspetto fondamentale del pianismo schumanniano: il primo è la fase di passaggio dall’“oggetto” sonoro, quello dell’idea beethoveniana, tanto per intenderci, al “soggetto oggettivizzato” che fluisce nella dimensione espressiva del compositore di Zwickau; se l’idea ha un suo procedere razionale, che determina di conseguenza un suono in cui il legato ha una sua priorità espositiva, il flusso di coscienza espresso da Schumann non può essere rappresentato allo stesso modo, ma ha bisogno di un suono in cui il legato tende a “frantumarsi”, quantomeno a disunirsi, a raggrumarsi in grappoli di suoni che tendono a manifestare una data pulsione, un ricordo, un’immagine che si presenta in quel dato istante. Tullia Melandri, quindi, scava nell’interiorità di Schumann e porta a far affiorare con un suono, mi si perdoni l’ardito accostamento, che è diseguale, “singhiozzante” nella sua unità soggettiva.

È ovvio che tale tipo di lettura, decisamente affascinante e pregnante, ha un indiretto difetto e presta il fianco a un’inevitabile manchevolezza, quello di poter apprezzare e comprendere questa scelta interpretativa, frutto non solo di una sua innegabile “storicità”, ma anche di una sensibilità interpretativa spinta a livelli quasi insostenibili, solo dopo aver ascoltato altre esecuzioni, più “classiche”, più “informali”, più “romantiche” nel senso degenerato del termine di queste due opere. Per questo motivo bisogna ammirare il coraggio e l’onestà intellettuale, prima ancora che artistica, che l’interprete faentina ha voluto e saputo dimostrare in questo progetto discografico.

La presa del suono, fortunatamente, ha saputo preservare e riproporre adeguatamente la fisicità dello strumento, della sua meccanica (che si nota chiaramente nella fase di rilascio) e del suo timbro. Il fortepiano Joseph Simon, come appunto il Conrad Graf, tende ad avere un registro acuto e un registro grave che risultano essere meno esuberanti rispetto ai fortepiani francesi così come ai Broadwood, quindi votati ad essere più prossimi al registro medio (su cui si fissa, nella sua esplorazione timbrico-espressiva, proprio il pianismo schumanniano) e la registrazione è in grado di esaltare tali peculiarità, con un registro acuto cristallino, ma che non scade nel “metallico”, e con un registro basso che risulta essere straordinariamente rotondo e “musicale”, senza ledere sul piano dell’equilibrio tonale le sonorità medie e acute. Ottimo anche il palcoscenico sonoro, che scolpisce al centro dei diffusori lo spazio fisico in cui è calato lo strumento, mentre il dettaglio è oltremodo buono, con una generosa dose di nero intorno al fortepiano da renderlo piacevolmente e correttamente materico.

Andrea Bedetti

 

Robert Schumann – Intermezzi Op. 4-Piano Sonata in F Sharp minor Op. 11

Tullia Melandri (fortepiano)

CD Dynamic CDS7842

 

Giudizio artistico 5/5

Giudizio tecnico 4/5