«La soluzione che appare più di ogni altra in grado di raccogliere l’invito a una musica fino in fondo epica e monumentale, ma anche capace di uniformare la liturgia paziente di una scrittura ancora e sempre artigianale - la Handwerklichkeit della quale Heidegger tesse l’elogio - alle esigenze di un ascolto nuovamente partecipe e commosso, è quella che induce il compositore a ideare, concepire e realizzare i suoi capolavori senza soluzione di continuità, durchkomponiert o through-composed (in quanto la natura abhorret vacuum, teme e rifiuta il vuoto). Al loro interno non trovano posto neppure un battito di ciglia, un breve sospiro, la pausa che ci permette di grattarci il mento o di inforcare gli occhiali: la delizia è tutta qui, nell’ondata di suono di una musica “piena” e pienamente realizzata, di una musica concepita all’insegna della grandezza o, se si preferisce, della grandiosità».
Questo breve passaggio estrapolato dal saggio programmatico Musica monumentale: 12 punti a favore, scritto da Carlo Alessandro Landini e pubblicato sul numero 650 di Studi Cattolici, ha l’indiscutibile merito di condensare mirabilmente lo scopo del compositore milanese che lo ha portato a scrivere quella che è destinata ad essere considerata la Sonata per pianoforte più monumentale della storia della musica, tenuto conto che la versione integrale dell’opera arriva a durare non meno di sette ore e che quella condensata, registrata dal pianista genovese Massimiliano Damerini per l’etichetta Da Vinci Classics su due CD, dura circa la metà. Bastano questi dati per comprendere la portata veramente monumentale di quest’opera (e lascio volentieri agli stupidi la solita, becera affermazione secondo la quale una composizione del genere “rientra di diritto nel Guinness dei primati”…), la cui partitura raggiunge le 653 pagine, come se Die Meistersinger von Nürnberg fossero stati trasposti in una sorta di versione per pianoforte.
Ma tutto ciò, lo ripeto, rappresenta esclusivamente l’involucro esteriore, l’apporto formale di un’opera che rischiano di sviare dalle reali intenzioni creative e critiche che ammantano la Sonata n. 5 del compositore milanese. Dietro la facciata della “monumentalità”, di un’apparente esasperante lunghezza, difatti, si celano i veri scopi di questa Sonata, che risulta essere squisitamente “programmatica”, nel senso che la sua creazione, avvenuta nel corso di un decennio, è stata concomitante alla stesura di un libro di oltre duecentocinquanta pagine che lo stesso Carlo Alessandro Landini ha scritto per far capire e “accettare” la sua composizione pianistica, intitolato emblematicamente Misura e dismisura - Una Sonata monumentale, al di là del più recente saggio già citato apparso su Studi Cattolici. E ciò che potrebbe apparire come manifestazione di ostentazione sapienziale, di erudizione interdisciplinare (nel libro vengono citati più di 1.300 autori tra musicisti, filosofi, letterati, scrittori, scienziati, oltre ad affrontare nel corso dei novantatré capitoli argomenti che spaziano dalla musicologia alla filosofia, dall’acustica alla letteratura, dall’arte alla matematica e geometria), non è altro che la debita introduzione, i necessari propilei per potersi impossessare, come dev’essere d’altronde un libro siffatto, degli strumenti necessari atti ad affrontare l’ascolto di un’opera che è drammaticamente antitetica e splendidamente à rebours rispetto alle mode imperanti del “non-ascolto” odierno.
Sì, perché la Sonata n. 5 non ha solo un valore eminentemente estetico nella sua complessità e vastità, ma intende essere anche uno spietato atto di j’accuse che il compositore e letterato milanese lancia contro l’insipienza, l’analfabetismo, la grossolanità di ascolto di cui è artefice e vittima l’uomo contemporaneo. L’accusa parte dal principio che se la musica è la forma suprema di rappresentazione del tempo (Zeit), il processo di ascolto nell’uomo contemporaneo, e questo non solo per ciò che riguarda i prodotti della cosiddetta musica di consumo, ma coinvolgendo anche generi più alti e formativi, è un atto che si compie attraverso le leggi effimere che governano la temporalità (Zeitlichkeit), termine che Alfredo Marini, filosofo e studioso di Heidegger, traduce con l’affascinante neologismo di “chronicità”. E basandoci sulla differenziazione tra Zeit e Zeitlichkeit che il filosofo di Meßkirch effettua nelle pagine di Sein und Zeit, precisamente quando scrive «La temporalità non “è” affatto un ente. Essa non è, ma si temporizza. […] La temporalità temporizza, e precisamente temporizza maniere possibili di se stessa. Queste rendono possibile la molteplicità dei modi d’essere dell’esserci, soprattutto la possibilità fondamentale dell’esistenza autentica e inautentica», abbiamo la certezza che il binomio tempo/temporalità-chronicità si può adattare idealmente anche all’abissale differenza che esiste tra un ascolto in cui viene esaltato il concetto del tempo ed uno che è invece schiavo della temporalità.
In un mondo abituato a vomitare suoni, rumori, musiche (?) in ogni luogo (basta entrare in un supermercato, in una stazione ferroviaria, in uno studio dentistico, perfino quando siamo messi in attesa durante una chiamata telefonica), la stessa propagazione sonora, qualunque essa sia, diviene fonte e veleno di quel processo di temporizzazione del tempo cui fa riferimento Martin Heidegger, che porta il tempo ad essere svilito nel momento stesso in cui un ascolto musicale soggiace all’atto della chronicità, in quanto ciò che si sta ascoltando è già assenza conclamata dell’ente, poiché solo ciò che soggiace alla manifestazione dell’ente si può definire opera artistica, la sola a richiamare durante la “sacralità” dell’ascolto l’ente temporale. Non per nulla, l’uomo contemporaneo, come aveva già argutamente e saggiamente spiegato il compianto Giuseppe Sinopoli, ha perso la capacità di ascoltare in modo sacro il flusso organizzato dei suoni, dove per sacro non dev’essere inteso come l’irruzione del divino in una struttura o in una comunità che antropologicamente riconosce e accetta il divino stesso, quanto la percezione di un andare oltre all’antropologicamente accertato e condiviso, facendo sì che possa realizzarsi con l’ascolto la comparsa, la manifestazione di ciò che possiamo definire mistero, con il quale diamo forma e tangibilità a tutto ciò che risulta essere ir-risolto.
Anche Carlo Alessandro Landini, calcando le medesime orme di Giuseppe Sinopoli, richiama con le sue opere (questo non vale infatti solo per la Sonata n. 5) l’idea di un’arte musicale che sia palpabilmente prossima al concetto di mistero, in quanto laddove noi identifichiamo il mistero, possiamo anche avvertire un’altra indissolubile ed ineluttabile presenza, fondamentale per l’acquisizione di un ascolto “temporale”, quella della tragicità (un concetto, questo, che porta inevitabilmente ad affrontare la rappresentazione del “mistero musicale” attraverso la follemente lucida visione elargita da Friedrich Nietzsche).
Tempo-Mistero-Tragedia, dunque, rappresentano esemplarmente la “trimurti” che si irradia attraverso la monumentalità della Sonata n. 5, una monumentalità che d’acchito pone problemi non indifferenti all’ascoltatore per via della sua «sconfinata e divina» lunghezza (tanto per citare Schumann che scopre e si entusiasma all’ascolto della Sinfonia La grande di Schubert), problemi che sono causati nell’uomo contemporaneo dalla sua impossibilità di approcciare una forma di rapporto con la musica se non attraverso il già citato processo di temporizzazione del tempo sonoro che lo scinde dal suo manifestarsi in senso temporale. E se l’uomo di oggi non sa più ascoltare poiché non sa più rapportarsi al tempo come ente, con il quale arginare l’azione corrosiva dell’esserci, «la molteplicità dei modi d’essere dell’esserci» obbliga, costringe l’uomo a fare suo un ascolto nel quale la temporalità-chronicità, manifestazione diretta del non ente insita nell’esserci, ripudia irrimediabilmente la capacità di cogliere l’elemento monumentale che è proiezione diretta dell’ente riconosciuto come arte. Sia ben chiaro, l’accezione dell’aggettivo “monumentale”, come giustamente lo stesso Landini ricorda nel suo saggio pubblicato su Studi cattolici, va considerato nel suo concretizzarsi etimologico, ossia derivante dal verbo latino monere, il cui significato di ammonire equivale a quello di educare, così caro alla mousikè technè di platoniana memoria, la cui essenza è fonte vitale nell’evolversi e nel proiettarsi della tragedia greca come evidenziato da Nietzsche nel suo Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik.
Quindi, monumentalità che non dev’essere confusa con “iperdimensionalità” della forma che la contiene, ma affrontata e decodificata riconoscendo e riattribuendo al tempo il suo flusso temporale nel quale si evidenzia a sua volta il costrutto organizzato dei suoni. Così, le sette ore della versione integrale della Sonata n. 5 e le tre ore e mezza della sua versione registrata sono le due facce di una medesima medaglia in cui la loro proiezione si basa sull’affioramento del tempo vergine da ogni tentativo di temporizzazione o, parafrasando il neologismo di Alfredo Marini, di “chronocizzazione”, vale a dire restituendo al tempo la sua funzione di ente con il quale sganciare colui che ascolta dall’“ospite inquietante” che in questo caso non è dato dal nichilismo di nietzschiana memoria, bensì dal temporizzarsi dato dall’azione corrosiva e traditrice dell’esserci.
Da qui, inevitabilmente, quando si ascolta per la prima volta la Sonata n. 5, si avverte un senso di ribellione, di negazione, di ripudio per l’opera stessa non solo per via della sua “monumentalità [formale]”, ma soprattutto per l’incapacità di colui che ascolta in modo temporizzato di cogliere d’acchito gli ambiti decodificatori che permettono l’instaurarsi ontologico del mistero sacrale insito nell’opera. Ciò significa che l’ascoltatore temporizzato, a differenza dell’ascoltatore temporale, viene implacabilmente respinto dalla struttura armonica della Sonata, nello stesso modo in cui un oggetto spaziale viene respinto dall’atmosfera terrestre se non adotta una congrua penetrazione seguendo una precisa angolazione d’ingresso. Allo stesso modo, anche la Sonata n. 5 di Landini per essere ascoltata/accettata dev’essere affrontata con una precisa angolazione d’ascolto; tale “angolazione” deve basarsi su spunti, argomentazioni, delucidazioni che Landini ha per l’appunto presentato nel suo libro. Certo, in un’epoca “mordi & fuggi” come quella attuale (ciò non è forse l’effetto della svilente temporizzazione?), deve a dir poco risultare bizzarro, anacronistico, anticonformistico, il fatto che un ascolto debba essere persino mutuato da una lettura (sempre che non si voglia ascoltare facendo affidamento sulle proprie capacità di intesa con l’ente temporale del tempo), ma questo accade in quanto l’uomo di oggi ha ormai dimenticato che ascoltare (e non solo la musica) significa fondamentalmente leggere con le orecchie, ossia capire che un’aggregazione di suoni non deve esistere con il compito di dare semplicemente forma a un passatempo (appannaggio della cosiddetta musica di consumo), bensì di permettere all’ascoltatore, capace di “leggere” i suoni, di riconoscere in quella determinata aggregazione musicale la sconfinata bellezza del tempo, atta a sprigionare il senso estetico dell’opera.
Ora, il senso estetico della Sonata n. 5 (e da qui la sua iniziale e disarmante difficoltà all’ascolto) risiede nella sua estraniante neutralità tonale, che trasforma l’opera in una superficie scivolosa sulla quale l’ascoltatore non riesce a stare in equilibrio; se dovessimo individuare i padri putativi di questa Sonata, considerando l’opera in questione un edificio monumentale, potremmo considerare Aleksandr Skrjabin il custode del palazzo e Olivier Messiaen il suo amministratore, con il primo che affigge sulla guardiola un cartello con la scritta “Il portinaio si trova sul piano dell’accordo mistico” e con il secondo che gestisce il tutto con la sua scala ottotonica, la quale (e qui cominciano i dolori per chi ascolta in modo emotivo) porta, come scrive lo stesso Landini in Misura e dismisura, a fornire un quadro sonoro dominato dall’astrazione anaffettiva, aggiungendo a mo’ di esempio che la scala ottotonica agisce come la candeggina, capace di eliminare da un tessuto le macchie, ma allo stesso tempo, se non si fa attenzione nel dosaggio, oltre a far scomparire le macchie, il tessuto risulterà essere scolorito, corroso e sfilacciato. Parallelamente, un costrutto musicale dominato dalla scala ottotonica (oltre a Messiaen, altri aficionados di questo sistema nella prima metà del Novecento furono soprattutto Prokof’ev e Stravinskij) tende a uniformare drammaticamente la sua espressività, in quanto qualsiasi tema, accenno melodico, tentativo di sviluppo vengono atomizzati sul loro nascere, lasciando così a chi non è preparato a questo tipo di ascolto una sola via di fuga, quella di restare invischiato in una struttura armonica che non lascia respiro, non permettendo di conseguenza una rappresentazione interiore di ciò che sta ascoltando (un tipico comportamento, questo, che alberga in coloro che ascoltano per l’appunto emotivamente), con il risultato di generare una sorta di repellenza auditiva, in quanto, come asserisce giustamente Landini, la musica viene assassinata dalla scala ottotonica.
E allora perché dare vita a un’opera pianistica della durata di tre ore e mezza se va bene, sette ore se va male, in nome di una struttura armonica che uccide la melodia come il DDT sui parassiti e che annulla ogni capacità di ascolto “immediato”? Proprio per i motivi che sono stati addotti in precedenza, ossia permettere di tornare a un modo di comporre la cui conseguente fase di ascolto non debba sottostare alle leggi odierne volte a massificare tale esperienza, depauperandola da ogni significato profondo e radicale, senza cedere all’apparente concretizzarsi, nel caso della Sonata n. 5, della materia musicale quale espressione quantificante, vale a dire concentrando esclusivamente l’attenzione sulla sua lunghezza compositiva senza considerare la dimensione qualificante che è insita in essa. Una dimensione qualificante che, dopo alcuni ascolti dell’opera, permette all’ascoltatore non-emotivo di cogliere determinate chiavi di volta che gli consentono di “aprire” la composizione, come se si trattasse di un meccanismo che si attiva solo se si riesce a trovare il congegno che lo sblocca. E “aprire” all’ascolto consapevole, il quale non si riferisce alla comprensione della Sonata in sé, ma nella capacità di farsi sedurre e “trasportare” da essa, così come avviene in certe opere della maturità di Morton Feldman, significa entrare in stretto rapporto con la fitta tessitura contrappuntistica con la quale Landini ha vestito la sua creazione pianistica. È il contrappunto che fa respirare la Sonata n. 5 e l’ascolto deve seguirne tale respiro, creando un ritmo interiore al quale l’ascoltatore si deve abbandonare, lasciandosi andare a questo flusso ininterrotto capace di continuare, quasi fosse una sorta di mantra biologico, anche dopo che il processo dell’ascolto ha avuto fine.
E una volta che tale azione avrà avuto luogo, l’ascoltatore si renderà conto di come la Sonata n. 5 del compositore milanese rappresenti fondamentalmente un tracciato sottostante le leggi bioritmiche del suono/esistenza, con un andamento simile a un’onda sinusoidale, in cui l’apporto costruttivo del contrappunto fissa mirabilmente la sua struttura. In fondo, alla luce di quanto si è scritto finora, la Sonata n. 5 di Carlo Alessandro Landini è un commosso tributo al passato, rappresentato dai vertici del contrappunto fiammingo del Quattrocento, ossia la più grande conquista artistica dell’uomo occidentale, e un inno all’idea di una certa musica contemporanea, la quale senza cedere il passo ad estremismi formali e timbrici di sorta, è capace ancora di tras-mettere una concezione estetica senza rompere in modo traumatico con l’immensa tradizione e lezione del linguaggio tonale.
Da qui si può quindi ben comprendere che cosa deve provare un interprete quando si siede davanti alla tastiera del pianoforte con le 653 pagine che formano la partitura della Sonata n. 5 che si appresta ad eseguire; un compito sovrumano, come quello che Massimiliano Damerini è riuscito a portare a compimento in modo ammirevole, se non addirittura eroico. Qui la bravura dell’interprete, di fronte a una simile opera, non sta tanto nel saper resistere fisicamente e psicologicamente nel corso dell’esecuzione, quanto piuttosto nel saper restituire incessantemente, senza cedimenti di sorta, un suono che dev’essere sempre implacabilmente oggettivo, scevro da tentazioni e sovradimensionamenti di ordine soggettivo, dovendo unicamente fornire un’immagine perfetta della forma, restituendola in ogni minima sfumatura timbrica, senza lasciare traccia di una sua visione pianistica dell’opera. E la tentazione di cedere a impulsi in cui il soggetto cerca di assoggettare l’oggetto è sempre in agguato in un’opera come la Sonata n. 5, in cui la forma in sé, splendidamente hanslickiana, si offre all’ascolto attraverso le dieci parti, distribuite nei due CD, le quali, in ottemperanza all’oggettività di cui si è scritto, non portano titoli, né indicazioni di tempo, ma sono contrassegnate esclusivamente da numeri romani, con le due parti terze presentate con caratteri minuscoli, come a dire che in quei momenti si raggiungono gli elementi costitutivi, le chiavi di volta, la Kehre heideggeriana, gli apici abissali su cui si fonda il tessuto bioritmico della composizione.
Ecco per quali ragioni ogni interprete che intende affrontare quest’opera “per tutti e per nessuno” deve sapersi estraniare, annullare, rendersi oggetto nell’oggetto, onde restituire pienamente, totalmente l’enigmatica proiezione sonora che la governa. E Damerini ci riesce appieno, fornendo una meta-interpretazione (solo così si può cercare di far capire che cosa deve saper offrire l’esecutore, ossia proponendo una lettura capace di andare oltre alle fisiologiche tentazioni interpretative che portano inevitabilmente l’interprete a proporsi come soggetto che decodifica l’oggetto) che risulta essere speculativa, nel pieno significato etimologico del termine, alla dimensione cristallizzata dell’opera, come se fosse un prisma capace di ri-proporre i sette colori fondamentali proposti dal fascio di luce bianca emanata dalla partitura/prisma.
La presa del suono dal vivo è stata effettuata da Marco Alpi presso il Teatro Giuseppe Verdi di Fiorenzuola d’Arda e restituisce assai bene la dinamica, con quest’ultima ottimamente naturale e veloce nei transienti; la riproduzione spaziale del pianoforte nel palcoscenico sonoro è anch’essa buona, con lo strumento scolpito al centro tra i diffusori in una posizione leggermente avanzata, ma non innaturale. L’equilibrio tonale è ideale per poter apprezzare timbricamente il registro acuto e quello grave senza ingerenze o sovrapposizioni indebite; infine, il dettaglio ricostruisce matericamente la fisicità del suono e del pianoforte, con generose dosi di nero che lo circondano, restituendogli un’ottima fisicità.
Andrea Bedetti
Carlo Alessandro Landini – Piano Sonata No. 5 (2015)
Massimiliano Damerini (pianoforte)
2CD Da Vinci Classics C00258
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4/5