Ancora oggi, a più di sessant’anni dalla sua morte, avvenuta a Rio de Janeiro nel novembre del 1959, l’opera di Heitor Villa-Lobos è in buona parte misconosciuta, nel senso che se viene indubbiamente proposta e ascoltata, è anche vero che non viene ancora recepita sufficientemente per la sua importanza. Potenza, si fa per dire, della visione accentratrice che la musica occidentale colta ha ancora di sé stessa, visto che le capita di considerare e assimilare le acquisizioni dell’arte dei suoni extraeuropea mediante una lente per così dire “colonialistica”.
A dire il vero, Villa-Lobos, quando giunse in Europa, più precisamente a Parigi nel 1923, dopo essersi aggiudicato una borsa di studio, ci mise del suo in ciò, poiché, avendo già acquisito una certa fama nei circoli della musica colta, cercò di fare colpo sull’establishment culturale della capitale francese proponendo composizioni che, invece di fare leva sulla tradizione musicale del suo Paese (cosa che tutti si attendevano), ribadiva in modo quasi pedissequo stilemi, strutture, melodie che appartenevano maggiormente a una visione tardoromantica, attingendo soprattutto dall’ampio bacino melodico di Čajkovskij, ossia un autore che era stato ormai superato, oltrepassato dalle nuove esigenze musicali dell’epoca. Come a dire, che il suo modo di presentarsi, di offrirsi, di essere accettato sarebbe dovuto passare attraverso un processo di “sdoganamento” squisitamente “occidentale”, sebbene il suo nome (a quel tempo Villa-Lobos aveva trentasei anni) fosse maggiormente legato non solo alla sua capacità di suonare il violoncello, ma soprattutto ricordato per i viaggi e gli studi fatti negli anni precedenti nel cuore del vasto territorio brasiliano, soprattutto nell’area nord-occidentale del Paese sudamericano, alla ricerca di canti, suoni, armonie della tradizione popolare, facendo di lui una sorta di Béla Bartók carioca.
Peccati veniali di un ancora giovane compositore oltremodo orgoglioso, desideroso di ottenere un successo, un tributo che scaturiva anche dal fatto che, da autodidatta qual era, temeva di non poter essere accettato dal mondo accademico occidentale. Buon per lui che Arthur Rubinstein prima e Andreas Segovia poi (anche se con il secondo alcuni screzi non mancarono) compresero come dietro questa ricerca di un “lasciapassare artistico” in realtà ci fosse la stoffa di un compositore di razza, capace di proporre un linguaggio nuovo condito da un modo originale di utilizzare quello classico, acquisito nel tempo, a cominciare da quello, irrinunciabile e ineludibile, dato da Johann Sebastian Bach. Fu lo stesso Villa-Lobos ad affermare, con parole semplici e dirette, spiegando che cosa fossero le sue Bachianas Brasileiras, il tipo di rapporto, di sintesi, di mediazione ottenuta tra la musica popolare del suo Paese e l’incommensurabile lezione del Kantor: «È un tipo speciale di composizione musicale che poggia da un lato su una profonda conoscenza delle opere di Bach, dall’altro sul rapporto dell’autore con l’atmosfera armonica, contrappuntistica e melodica della musica folklorica della regione nord-occidentale del Brasile. L’autore vede in Bach una vasta e ricca forma di folklore, profondamente radicata nella musica popolare di tutti i Paesi del mondo: in tal modo Bach diventa un mediatore tra le etnie» (un’affermazione che il musicologo Claudio Marcello Capriolo ha giustamente ricordato nelle note di accompagnamento della registrazione di cui sto per parlare).
È questa la lezione che Villa-Lobos comprese, una volta che realizzò l’importanza della sua missione di compositore, incentrata nell’essere un “mediatore” (più o meno come farà in seguito l’altro grande compositore sudamericano, l’argentino Alberto Ginastera attraverso lo sviluppo di due distinte fasi del suo modo di comporre, ossia il Nazionalismo Oggettivo e il Nazionalismo Soggettivo) capace di coniugare, di saldare, di rendere perfettamente omogeneo, a livello armonico e melodico, il linguaggio autoctono con quello universale. Una mediazione, questa, che si presenta anche nella produzione del musicista brasiliano nel repertorio pianistico, il quale ammonta a circa una trentina di composizioni, che prende avvio con la Valsa romantica del 1908 e si esaurisce con l’Homenagem a Chopin del 1949.
Ora, la pianista milanese Miriam Baumann, da sempre interessata alla musica colta sudamericana, ha registrato recentemente per l’etichetta discografica Urania Records un’interessante silloge di questo corpus compositivo di Villa-Lobos, presentando sotto il titolo di Piano works nove brani, per l’esattezza la Bachiana Brasileira No. 4, il Chôro No. 5-Alma brasileira, New York Skyline Melody, Tristorosa, Valsa da dor, Saudades das selvas brasileiras, Ibericarabe, il Ciclo brasileiro e il quinto dei Dez Momentos, quello dedicato a Camargo Guarnieri.
Il fatto che la Bachiana Brasileira No. 4 (uno dei suoi brani più famosi) sia stata trascritta dallo stesso Villa-Lobos in una versione orchestrale nel 1942, dopo che per un decennio si era dannato per darne una forma definitiva per pianoforte, ci fa comprendere come la sua sostanza e la sua struttura siano così articolate da permetterne anche uno sfruttamento, pienamente convincente, anche sotto forma di orchestra (siamo così abituati a considerare l’artista carioca sotto le vesti del compositore, del didatta, del violoncellista, che sovente dimentichiamo la sua portata e la sua importanza anche come direttore d’orchestra, da considerare non solo nella sua accezione di guida, ma soprattutto come sapiente e avveduto “miscelatore di suoni”, ossia di chi è capace non solo di dirigere il suono orchestrale, ma di saperlo immaginare a priori). Ritengo non casuale la scelta di questo brano per il presente programma pianistico di Villa-Lobos, in quanto la quarta Bachiana brasileira può essere presa a modello, come canone distintivo di tutta la concezione compositiva dell’artista, in quanto ci fa comprendere come la sua costruzione, basata su un corale, utilizzi la grande lezione bachiana (la visione universale) come elemento di decodificazione e di assimilazione rispetto all’innesto squisitamente autoctono dato dalla presenza martellante, quasi disturbante, del canto dell’araponga, uccello tipico sudamericano, simboleggiato qui da un si bemolle, che va a fratturare la dimensione architettonica di tutto il brano. In fondo, questa Bachiana brasileira è una lente d’ingrandimento privilegiata per entrare in affinità con la poetica di Villa-Lobos.
E la metafora della lente d’ingrandimento, riferita al musicista carioca, non è scelta a caso, poiché quasi tutta la produzione musicale di Villa-Lobos è basata sul principio di un’attenta e minuziosa osservazione, che viene fatta attraverso un uso raffinato, edulcorato, filtrato dell’immenso bagaglio di musica popolare e indigena di cui si ciba il popolo brasiliano. Si è detto degli studi etnomusicologici che il nostro fece in alcune aree del suo Paese prima di approdare in Europa e di come si possa quindi fare un parallelo con quanto fece, più o meno nella stessa epoca, Béla Bartók; ma il parallelismo in questione finisce qui, poiché se il sommo musicista magiaro plasmò un nuovo linguaggio usando la tradizione folklorica dell’Est come un muratore fa con il calcestruzzo per costruire muri e pareti, Villa-Lobos non usò la musica popolare del suo Paese come uno strumento, sebbene privilegiato e inneggiato, ma lo esaltò come elemento costituente in sé, ossia come un muratore pensa alla propria casa da costruire con le sue mani, in quanto il suo usare è prima di tutto un atto d’amore, la cui accessibilità, soprattutto a favore di quanti non conoscevano il Brasile, la sua musica, i suoi costumi, le sue contraddizioni, dovevano essere decodificati mediante un processo creativo in cui l’universalismo (Bach e la grande tradizione colta occidentale) rappresentava il calcestruzzo della situazione.
Calcestruzzo che si annacqua, si sedimenta, s’innerva poi in altre forme e costrutti per connaturare al meglio altri generi tipici del Brasile, come il chôro, altra “lente d’ingrandimento” privilegiata da Villa-Lobos, che rappresenta l’elemento portante, il DNA di tutta la musica popolare brasiliana, un altro modello decodificante usato, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, dai suonatori ambulanti di Rio de Janeiro, per diffondere (mutuato su armonie maggiormente congeniali alla sensibilità della popolazione carioca) le tipiche danze d’impronta europea, come il valzer e la polka. Anche qui, dunque, vi è un’opera di mediazione, di alterazione e adattamento semantici, che viene ripresa magistralmente da Villa-Lobos, come appunto accade nello splendido Chôro No. 5-Alma brasileira, vero e proprio manifesto della musica colta europea vista attraverso la lente d’ingrandimento brasiliana. L’inizio e la fine di questo mirabile brano sembrano uscire dalle dita di un Ravel o di un Debussy, ma nello sviluppo centrale Villa-Lobos fa irrompere (addirittura con l’uso di un simulacro di cluster) sincopi e ritmi del suo Paese, tali da mutare drammaticamente la dimensione sospesa, fluttuante iniziale e finale.
C’è poi da affrontare la dimensione prettamente moderna, se non addirittura d’avanguardia, escogitata dal compositore carioca, quando sulla spinta, sullo stimolo provocato dalla frequentazione di quegli ambienti musicali votati alla frantumazione del lessico tonale, che lo portano ad elaborare un modo di scrivere la musica utilizzando la carta millimetrata, un espediente già utilizzato dal russo naturalizzato americano Joseph Schillinger, che consiste nel ricavare l’altezza e la durata dei suoni applicando per l’appunto un foglio di carta millimetrata trasparente sopra un’immagine oppure nel trasformare in musica la casualità (un’alea d’antan!) data da una serie di linee orizzontali e verticali. Un procedimento che diede modo a Villa-Lobos, dopo aver visto in alcune foto i grattacieli di New York, di creare New York Skyline Melody, brano che risale al 1939, la cui modernità d’immagine si edulcora musicalmente in una dimensione prodigiosamente nostalgica, malinconica.
Lo stesso tema della malinconia, dello struggimento (il termine saudade vi dice forse qualcosa?) il musicista di Rio de Janeiro lo fissa lucidamente, quasi scolpendolo su una tastiera colma di sospiri, in un pezzo come Tristorosa, che appartiene agli inizi del suo percorso pianistico, tipico esempio di un valzer dal succo brasiliano, così come in Valsa da dor (1932) e nel dittico di Saudades das Selvas Brasileiras (1927), nei quali Villa-Lobos riesce a incastonare, nella sua disarmante essenza, una delle peculiarità dell’anima brasiliana, quella di provare passione con gli occhi velati di lacrime (si faccia attenzione, a tale proposito, allo sfruttamento del registro grave del pianoforte). Da questa visione intimista a quella di una musica prettamente borghese, quella denominata Salonmusik, in cui traspare un languido sentimentalismo sapientemente decodificato attraverso determinati clichés sociali, il passo è breve ed è testimoniato da Ibericarabe, un brano concepito originariamente per orchestra e che venne trascritto per pianoforte dalla prima moglie di Villa-Lobos, Lucilia Guimarães, la cui struttura imprigiona a fatica moti continui dell’anima (anche qui sprazzi, richiami fuggevoli della musica pianistica francese non mancano, ma sempre debitamente “cariocatizzati”), una tavolozza di sbalzi timbrici, di pennellate a volta furiose, altre sfumate e arrotondate.
A proposito del Villa-Lobos “pittorico”, immancabile è il Ciclo Brasileiro, autentico trattato antropologico del popolo brasiliano reso in suoni: qui la tavolozza armonica raggiunge uno dei vertici di tutta la produzione del nostro autore, in cui squisitezze melodiche si alternano ad audaci dissonanze che però non restano mai fenomeno a sé stante, ma sempre perfettamente distillate e inserite nell’organicità della struttura espositiva (un esempio perfetto in ciò è dato dal primo segmento, Plantio do caboclo), dando vita a un caleidoscopio variegato e articolato, sebbene fissato in poco più di venti minuti di durata. Qui, il pianismo è un continuo esporre un timbro che alterna irrigidimento e distensione, orizzontalità e verticalità, passione e dolore, attraverso un uso dell’armonia i cui richiami popolari sono la rappresentazione della “casa-da-costruire” più che il semplice calcestruzzo di cui è fatta.
Infine, per chiudere, una sorta di cameo, dato dal Momento No. 5 dedicato a Camargo Guarnieri, altro nume tutelare della musica brasiliana, colui che idealmente prese il testimone dalle mani dello stesso Villa-Lobos nel continuare l’opera di piena identità della musica del vasto Paese sudamericano. Si tratta quasi di un reverente commiato, un uncinetto sonoro fatto di lievità nostalgica, un album dei ricordi sfogliato lentamente, una delicatezza vaporosa, con il quale Miriam Baumann e Villa-Lobos prendono, purtroppo, commiato.
La prima cosa da ricordare, per chi non conosce la musica pianistica del compositore brasiliano, è che la sua esecuzione è di una difficoltà non indifferente; questo perché è una musica che per essere resa al meglio, bisogna rispettarne i suoi molteplici respiri, che sovente si presentano contemporaneamente, come lo è appunto l’anima brasileira. Qualche esempio per capire meglio: l’incipit della Bachiana Brasileira No. 4 è dato da un corale la cui lettura non dev’essere mutuata sulle tipiche strutture che sono presenti in quelli del Kantor, ma diluita, innervata da una sottile e struggente malinconia che però non deve mai eccedere, in quanto le due componenti stilistiche devono essere eseguite con lo stesso grado di intensità, ponendole su un piano paritario. Lo stesso avviene nel Chôro dove la presenza del tema iniziale e finale pone dei problemi timbrici quando lo si abbandona e lo si riprende, visto che progressivamente da un sentore impressionista si deve passare con la massima gradualità a un ritmo carioca prima della frattura sincopatica, un passaggio che non deve lasciare scorie e la cui diteggiatura dev’essere sempre calibrata perfettamente.
E poi l’anima squisitamente brasiliana, un mix sempre sfuggente, impalpabile, continuamente mutevole nella sua essenza antropologica, come quella incarnata da Tristorosa, Valsa da dor e da Saudades des selvas brasileiras, musica che solo chi ha sangue brasiliano può comprendere appieno, in quanto necessita di una sorta di “scissione della personalità” che impone una medesima scissione nell’atto interpretativo. Ma queste problematiche non si avvertono minimamente nella lettura fatta da Miriam Baumann, la quale, sebbene sia milanese di nascita, riesce sempre ad essere stupendamente brasiliana (è pur vero che la pianista in questione ha vissuto in quel Paese sudamericano e conosce la lingua portoghese, impregnandosi della sua cultura e non solo di quella musicale). Con la sua interpretazione, l’artista dimostra di essere tecnicamente lucida e, allo stesso tempo, portatrice di emozioni, di spostamenti d’anima, di trascinamenti emotivi, poiché riesce sempre a calarsi in quella “scissione” di cui si è detto. Villa-Lobos, a livello pianistico, impone l’entrata di un labirinto dal quale se si vuole trovare l’uscita bisogna sempre avere un filo che non si deve mai abbandonare, e Miriam Baumann questo filo lo tiene sempre serrato tra le dita, ne fa la sua sapiente guida, la necessaria consigliatrice. Come sarebbe bello e utile, se mai le venisse voglia di proporre discograficamente tutto il repertorio pianistico del compositore brasiliano: ne uscirebbe, ne sono certo, un’integrale di riferimento. Folgorazione.
Anche la presa del suono fatta da Simone Sciumbata permette di cogliere al meglio le molteplici sfaccettature che la pianista tira fuori dallo strumento; la dinamica è molto naturale ed energica allo stesso tempo (e lo stesso si può affermare per il parametro della microdinamica, in quanto le sfumature timbriche si chiudono sempre con un corretto decadimento degli armonici, facendo così apprezzare meglio il gesto pianistico). La ricostruzione del palcoscenico sonoro permette di individuare fisicamente il pianoforte al centro dei diffusori a una discreta profondità e a una più che plausibile ampiezza, senza apparire snaturato all’interno dello spazio fisico. L’equilibrio tonale non è da meno, con una riproposizione dei registri della tastiera che non mostra sbavature o mancanza di messa a fuoco (altro parametro fondamentale, questo, per via dell’uso armonico che fa Villa-Lobos) e, infine, il dettaglio è ottimamente materico, con una notevole presenza di nero intorno allo strumento.
Andrea Bedetti
Heitor Villa-Lobos – Piano Works
Miriam Baumann (pianoforte)
CD Urania Records LDV 14085
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4/5