La crisi politica, sociale, economica che soffiò sull’Europa tra gli ultimissimi decenni del XVIII secolo e i primi di quello successivo portarono inevitabilmente a delle ripercussioni anche nel mondo delle arti, compresa quella musicale. Quest’ultima, tra il 1780 e il 1820 fu al centro di un cambiamento a dir poco epocale (a titolo di esempio, provate ad ascoltare prima la Sinfonia n. 73 in re maggiore La Chasse di Franz Joseph Haydn, composta intorno al 1781, e poi la Sinfonia n. 9 in re minore Corale di Ludwig van Beethoven scritta poco più di quarant’anni dopo, per avere un termine di paragone), un lasso di tempo inferiore al mezzo secolo, ma sufficiente a rivoluzionare non solo il linguaggio musicale, ma anche l’evoluzione degli strumenti, il rapporto tra artista e pubblico, la diffusione sempre più capillare della stampa musicale, l’irruzione definitiva della classe borghese che permise così all’arte dei suoni di penetrare in altri ambiti del tessuto sociale dell’epoca.
Ecco, un esempio di questa rivoluzione è dato dalla registrazione, effettuata per l’etichetta Ramée, la quale rientra nell’arcipelago discografico della Outhere Music, dalla flautista israeliana Tami Krausz e dalla pianista sino-americana Shuann Chai con un programma cameristico per flauto a otto chiavi e fortepiano incentrato sulla Serenata in re maggiore op. 41 di Ludwig Beethoven e sul Capriccio in re minore op. 10b n. 9 per flauto solo e sulla Grande Sonata Concertante in la minore per pianoforte e flauto op. 85 di Friedrich Kuhlau, oltre a una brevissima pagina finale, scritta sempre da Beethoven, il Canone Kühl, nicht lau WoO 191 per tre voci maschili, trascritta, con l’aggiunta del fortepiano e del flauto, nel 2019 dal matematico e pianista olandese Joris Weimar.
Questo per il fatto che sia il flauto fornito di chiavi, sia il fortepiano, evoluzione diretta del clavicembalo, furono due strumenti la cui tecnica di progettazione e di costruzione ebbe un decisivo impulso, permettendo di conseguenza ai compositori dell’epoca di aggiungere in sede di scrittura articolazioni, scelte armoniche e timbriche puramente impensabili solo pochissimi decenni prima.
Ciò può valere in parte anche per una pagina come la Serenata beethoveniana, la quale è da considerarsi come una composizione da eseguirsi all’aria aperta in occasione di una ricorrenza o di un festeggiamento, come dimostrano la semplicità di scrittura e l’elegante e immediata melodia dei sette movimenti dei quali è composta. Scritto nel 1803, questo pezzo rappresenta la trascrizione dalla Serenata op. 25 per flauto, violino e viola, e può essere eseguita sia con il flauto, sia con il violino con l’accompagnamento pianistico. Anche se comunemente il pezzo cameristico in questione viene considerato farina del sacco di Beethoven, negli ultimi anni ha preso forza la tesi che questa pagina non sia un lavoro originale redatto dal genio di Bonn, anche se poi la trascrizione fu effettivamente revisionata da lui, una tipica consuetudine del modo di lavorare di Beethoven, spesso costretto dagli editori ad approntare trascrizioni di sue opere precedenti che, pur avendo ricevuto successo di pubblico, venivano poi arrangiate con strumenti più consoni allo spirito della Hausmusik, come nel caso dell’opus successivo, il 42, ossia il Notturno per viola e pianoforte, rielaborato dalla Serenata n. 2 per trio d’archi.
Sia ben chiaro, la Serenata per flauto e pianoforte non è ancora toccata dalla futura genialità dimostrata poi da Beethoven in ben altre opere, ma anche se è contraddistinto da un carattere d’intrattenimento e di consumo, non mancano i momenti felici, come nell’Entrata Allegro, brano denso di una fantasiosa e spigliata varietà inventiva, con un ritmo elaborato come se si trattasse del cinguettio di un uccello dal flauto, il carattere generale dell’opera, più vicina ai divertissement haydniani, non merita di certo l’appellativo che le fu dato in seguito, ossia di essere una sorta di “Eine kleine Nachtmusik” beethoveniana.
Sicuramente più curioso, anche se estremamente breve, è il Canone Kühl, nicht lau WoO 191, composto in una situazione assai particolare dal genio di Bonn; questa paginetta virtuosistica nacque durante una particolare circostanza nell’estate del 1825, quando il musicista tedesco naturalizzato danese Friedrich Kuhlau, alla fine di una tournée in Austria, volle conoscere Beethoven del quale era un fervente ammiratore. Così, i due musicisti si incontrarono a Baden, luogo di villeggiatura frequentato a quel tempo dal genio di Bonn, insieme con altri amici comuni tra cui Sellner, professore al conservatorio di Vienna, e Conrad Graf, il celebre costruttore di pianoforti. Alla fine di un abbondante pranzo, durante il quale il vino scorse a fiumi, Kuhlau diede prova delle sue doti di fine contrappuntista scrivendo di getto un canone sul nome di Bach, mentre Beethoven, per dimostrare di non essere da meno, compose in pochi minuti il canone Kühl, nicht lau giocando sul cognome Kuhlau (in tedesco Kühl, nicht lau significa “Freddo non è caldo”). In questa paginetta ironica, Joris Weimar, alle tre voci maschili, il tenore João Moreira, il baritono Mattjis van de Woerd e il basso-baritono Marc Pantus, ha voluto aggiungere anche l’accompagnamento del fortepiano e del flauto, confezionando in poco meno di due minuti di durata un delizioso schizzo al carboncino, in cui le voci si coniugano idealmente all’esplorazione più che al semplice accompagnamento dei due strumenti.
A proposito di Kuhlau, gli altri due pezzi che compongono questo CD sono proprio del musicista danese, il quale dev’essere ricordato (nato nel 1786 a Uelzen e morto a Copenhagen nel 1832) soprattutto per l’apporto dato nel genere dalla musica cameristica, in questo caso sempre dal duo flauto e pianoforte, tenuto conto che il musicista naturalizzato danese conobbe molto bene il flauto, pur non scrivendo diverse opere dedicate ad esso; la più importante è sicuramente la Grande Sonate Concertante in la minore op. 85, qui registrata con il Capriccio per flauto solo in re minore op. 10b n. 9.
Se quest’ultimo pezzo, pubblicato ad Amburgo nel 1810 e facente parte di una raccolta di dodici variazioni per solo flauto, si basa su arie folcloristiche tedesche e francesi, denotando la capacità in Kuhlau di saper sfruttare le conquiste tecniche dello strumento dotato di otto chiavi, la Grande Sonate, che risale al 1827, anche per via della durata che supera i trentacinque minuti, rappresenta una pagina di grande impatto emotivo, scaturita sulla falsariga drammatica di due opere-cardine del primo Romanticismo tedesco, il Sogno di una notte d’estate di Felix Mendelssohn e l’opera lirica Oberon di Carl Maria von Weber. Suddivisa in quattro tempi, questa notevolissima pagina sfrutta ampiamente le innovazioni portate sia allo strumento a fiato, sia a quello a tastiera, con la possibilità di farli incessantemente dialogare anche nei momenti di massima espressione lirica. Si avverte chiaramente da una parte l’influsso di uno stile classico nell’uso del flauto di chiara matrice händeliana e dall’altra l’apporto delle nuove idee armoniche date dalla lezione di Beethoven e di Mendelssohn che vanno a bilanciare il contrappunto barocco del primo, senza dimenticare, come si può constatare dall’ascolto dell’Adagio, la presenza di linee melodiche che rimandano al bel canto italiano del primo Ottocento.
Indubbiamente, Tami Krausz e Shuann Chai sono autrici di un’interpretazione a dir poco notevole, capaci non solo di padroneggiare perfettamente i loro strumenti, esaltandone le peculiarità espressive, ma soprattutto dimostrando un affiatamento che nella Grande Sonate di Kuhlau raggiunge punti (penso all’Allegro con passione iniziale e all’Adagio) veramente entusiasmanti. Se la Serenata beethoveniana dà loro modo di allontanare gli spettri della consuetudine e dell’ovvietà dato dal contesto di una musica d’occasione grazie a una sapiente uso timbrico e facendo dell’ironia l’arma con la quale catturare l’attenzione e il coinvolgimento dell’ascoltatore, è proprio con la pagina cameristica di Kuhlau che il dialogo, frutto di un sapiente e mirato fraseggio, permette loro di sfoderare una lettura che diviene ora, soprattutto in chiave filologica, di assoluto riferimento. A proposito dell’approccio filologico, se la flautista israeliana può fare affidamento su un flauto traverso a otto chiavi di Rudolf Tutz, copia dello strumento costruito da Heinrich Grenser a Dresda intorno al 1810, Shuann Chai si destreggia benissimo dapprima con un fortepiano Johann Zahler del 1805 e poi, nella Grande Sonate, su un magnifico esemplare di Michael Rosenberger del 1820 circa, dotato di “turcherie”, come voleva la prassi dell’epoca, nel caso specifico con la presenza del meccanismo detto “giannizzero”, da utilizzare con un pedale, che permette al fortepiano di battere su un tamburo e di suonare dei campanelli posti nella cassa armonica.
La presa del suono, effettuata da Rainer Arndt, rientra di diritto nel campo dell’audiofilia; la velocità dei transienti nella dinamica è davvero notevole, così come la ricostruzione dei due strumenti all’interno del palcoscenico sonoro, con il flauto posto leggermente più avanti del fortepiano. E se l’equilibrio tonale permette di cogliere sempre distintamente i registri dello strumento a fiato e di quello a tastiera, il dettaglio è un prodigio di matericità e di nero che scontorna benissimo il flauto e il fortepiano.
Andrea Bedetti
Ludwig van Beethoven-Friedrich Kuhlau – Kühl, nicht lau
Tami Krausz (flauto traverso) – Shuann Chai (fortepiano)
CD Ramée RAM 1903
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 5/5