L’irruzione delle avanguardie artistiche all'inizio del Novecento non provocò soltanto un’irrimediabile frattura creativa e comunicativa tra il prima e il dopo, ma causò anche una sorta di “spaccatura” geomusicale nel mondo occidentale, soprattutto in ambito europeo. La nascita e la progressiva diffusione del linguaggio atonale attuata dalla musica seriale di Schönberg prima e degli altri componenti della Seconda scuola di Vienna poi, generò un’interessante differenziazione non solo a livello individuale, ossia tra quei musicisti e compositori che aderirono o rifiutarono la concezione dodecafonica, ma principalmente anche a livello geografico, al punto da proporre una particolare attuazione, vista in chiave artistica, della famosa “teoria dei climi” di Montesquieu.
E così come accade nella teoria del filosofo illuminista, secondo la quale più aumenta la temperatura climatica di un luogo, scendendo verso il Sud, più la natura umana è portata ad essere maggiormente pigra e meno reattiva rispetto agli stimoli che la circonda, forgiando in tal senso il comportamento e il carattere dei popoli interessati da tale fenomeno, allo stesso modo si può notare come l’avvento e l’accettazione della musica atonale abbia interessato quasi esclusivamente, a livello generale, solo i Paesi di lingua tedesca, coinvolgendo in parte quelli Scandinavi e dell’Est, mentre i Paesi mediterranei, maggiormente legati per motivi di tradizione culturale e antropologica alla melodia, sono rimasti ancorati a una concezione prettamente tonale.
Basti solo considerare l’impatto che la dodecafonia ebbe nel nostro Paese, nei primi decenni del secolo scorso, con un’indubbia scarsa considerazione non imputabile tanto alle politiche restrittive del fascismo (contrariamente a quanto avvenne in Germania e poi in Austria a causa del regime hitleriano, che diede vita al fenomeno dell’Entartete Musik), quanto piuttosto alla mancanza di interesse da parte di un settore, quello musicale, maggiormente vincolato al teatro operistico a scapito di quella strumentale, e con quest’ultima dominata dalle figure della “generazione dell’Ottanta”, con compositori come Respighi, Pizzetti, Malipiero, Casella, fedeli sostenitori della melodia, della tonalità e di una certa tradizione musicale che non doveva essere scalfita, sebbene fosse indubbiamente pronta a confrontarsi con le innovazioni e le idee rivoluzionarie provenienti da oltralpe. Solo alcuni singoli musicisti, Dallapiccola e Petrassi su tutti, furono dapprima tentati e poi affascinati dal nuovo linguaggio proclamato ed esaltato da Schönberg e allievi, divenendone degli assertori, sebbene con delle dovute distinzioni che portarono alla formulazione di una cosiddetta “dodecafonia mediterranea”.
Una “dodecafonia mediterranea” della quale fu evidentemente immune anche un compositore e pianista spagnolo, il valenciano Vicente Asencio, nato nel 1908 e morto nel 1979, del quale il giovane chitarrista veneto Alberto Mesirca ha registrato tutte le composizioni per chitarra, incise recentemente dall’etichetta Brilliant Classics. Fu lo stesso Asencio, come riportato nelle note d’accompagnamento del disco, a scrivere in un articolo del 1962 (ossia all'epoca in cui in Spagna il linguaggio seriale cercava di fare breccia presso le nuove generazioni di musicisti) che la musica dodecafonica non apparteneva, non era nel sangue della tradizione spagnola, in quanto, come scrisse testualmente il musicista spagnolo «io credo che la sua estetica [dodecafonica] non si addica a noi mediterranei, con il nostro carattere, poiché la dodecafonia è un linguaggio squisitamente cerebrale, mentre noi siamo prevalentemente intuitivi».
Ecco, se c’è una definizione che si può attagliare idealmente alla musica di questo compositore iberico, rigorosamente votata a una dimensione tonale, è proprio quella di una specifica “intuitività”, dove l’intuitivo si connatura, come si ha modo di ascoltare in queste composizioni dedicate alla chitarra (strumento cardine, simbolo della concezione comunicativa della musica iberica), a una sua indubbia fluidità, a un sentire lo scorrere sonoro (e questo non vale solo per Vicente Asencio all'interno della musica spagnola del Novecento storico) come un flusso in cui la linea melodica assume una valenza introspettiva, dando vita a una sorta di “ritmo interiore” (e ciò è particolarmente presente nella musica della tradizione valenciana) che diviene respiro, pulsione vitalistica. Ecco, dunque, la grande differenza e diffidenza da parte della musica iberica nei confronti del “cerebralismo” dodecafonico.
Ascoltando soprattutto pagine come i Collectici Íntim, formati da sei brani risalenti al 1965, la Suite de Homenajes del 1950, con tre “omaggi” dedicati a Domenico Scarlatti, a Manuel de Falla e a Federico García Lorca, la Suite Valenciana del 1970 e quella “riflessione teologica” che è il trittico della Suite Mística (1971), titolo voluto da Andreas Segovia rispetto a Evangeliques, scelto originariamente da Asencio, si resta sorpresi nel venire a sapere che in fondo il compositore valenciano nella sua formazione musicale non aveva contemplato la presenza espressiva della chitarra, concentrando invece la propria attenzione al pianoforte, sulla scia di una tradizione che risaliva inevitabilmente fino a Enrique Granados. Ma se Asencio entrò in rotta creativa con lo strumento a corde fu per merito di un giovane chitarrista, destinato a diventare uno dei più grandi dello scorso secolo, Narciso Yepes, che decise di approfondire lo studio dell’armonia proprio con Vicente Asencio. la loro collaborazione portò all'incontro/scontro di due mondi musicalmente e strumentalmente diversi: da una parte Asencio e il pianoforte, dall'altra Yepes e la chitarra, con il primo che impose al secondo di pensare pianisticamente la chitarra e il secondo che fece capire musicalmente lo strumento a corde al compositore-pianista, oltre che notevole direttore d’orchestra.
In effetti, a un attento ascolto, l’opera chitarristica di Asencio, nella sua espressione di fraseggio, in alcune sue sospensioni timbriche, nel respiro che pervade alcuni brani (mi riferisco soprattutto alla rarefazione di Dipsô, il secondo brano del trittico Suite Mística) si accorda a una dimensione che risente della metodologia pianistica, in cui sembra quasi che le dita non pizzichino le corde, ma le tocchino, le premano, così come si fa sui tasti di un pianoforte. Si viene così a creare un sottilissimo, ineludibile equilibrio tra la sfera propriamente chitarristica e la sua emanazione timbrica, in cui quel “ritmo interiore”, di cui ho fatto precedente accenno (si pensi a come “respira” la Suite Valenciana), si avverte distintamente nel procedere interpretativo.
Ed è qui che subentra l’attenta e appassionata lettura che ha fatto di queste opere il chitarrista veneto Alberto Mesirca, il quale evidentemente si trova a proprio agio con le penombre assolate evocate da Asencio, senza mai però farsi perniciosamente coinvolgere in un gioco esecutivo che altrimenti porterebbe a perdere i contorni riflessivi, le linee inderogabili di assunti musicali in cui la percezione del tutto viene sempre osservata e mai vissuta durante l’atto interpretativo. Mesirca, infatti, usa la chitarra non per vivere in prima persona, ma calando se stesso nella parte di un quiete osservatore, come fanno i vecchi nei paesini spagnoli nelle primissime ore dei pomeriggi estivi, raccolti in zone d’ombra, dalle quali osservano placidamente ciò che li circonda. Ci vuole passione, ma anche distacco, dunque, nel calarsi nel ruolo di un osservatore privilegiato, che usa le corde dello strumento per guardare, annusare, ascoltare ciò che vi è oltre a se stesso. E, soprattutto, ci vuole una sensibilità che mai dev’essere disgiunta da una maturazione d’intenti esecutivi che prima devono scorrere nell'interprete, cosa che Mesirca dimostra di aver pienamente raggiunto, per poi essere riversati e circoscritti con l’atto chitarristico, esaltato dal magnifico strumento costruito dal siciliano Giuseppe Guagliardo, che infonde nelle sue creazioni l’anima di quella mediterraneità così bramata e inseguita dal compositore valenciano.
La caratura di un artista, il suo modus interpretandi, può essere stabilito anche dal rapporto che ha con la musica del suo tempo, dal rapporto che può avere, a livello di collaborazione, di transfert con quei compositori che si affidano a lui per realizzare l’atto esecutivo delle loro opere, ossia quel necessario passaggio di consegne che avviene tra l’idea creativa e la sua attuazione. Il che implica, necessariamente, un totale atto di fiducia, di immedesimazione tra l’uno e l’altro, tra chi crea e chi deve testimoniare tale creazione. Il tal senso, l’altra recentissima registrazione discografica di Alberto Mesirca, incisa con l’etichetta Da Vinci Classics, dal titolo Free Guitar on Earth - Contemporary Italian Music for Guitar, risulta essere di grandissimo interesse, visto che il chitarrista veneto affronta diciassette brani per chitarra di altrettanti compositori italiani ancora viventi (il più anziano è Ennio Morricone e il più giovane è Edoardo Dadone) e di cui gli ultimi cinque sono disponibili esclusivamente a livello digitale sul sito stesso della casa discografica, tutti pezzi straordinariamente autonomi e peculiari nella loro portata creativa ed espressiva e di cui nove espressamente dedicati proprio al chitarrista in questione.
Un tipo di registrazione come quello affrontato da Alberto Mesirca rappresenta una sorta di sguardo in cui l’elemento collettivo, dato dalle molteplici visioni estetiche che lo riassumono, viene diluito, estrapolato, sceverato, esplorato in un unicum che equivale a una vera e propria sfida interpretativa, quella di essere un pluri-testimone di un modus essendi che si manifesta nell'atto creativo stesso; un atto che è l’espressione da parte di chi pensa la chitarra in sé, ossia di chi ne conosce compositivamente le innate e potenziali capacità espressive, così come da parte di chi, invece, deve fare affidamento sui suggerimenti e sulle indicazioni dell’interprete, in quanto non possiede tale techné. Così facendo, l’interprete diviene uno spartiacque tra l’esprimere e il perfezionare, tra l’essere pontifex e l’essere arte-fice. Un ruolo, questo, destinato solo ai più grandi.
Tralascio le difficoltà, a volte estreme, tecniche che Mesirca ha dovuto affrontare in questa crestomazia sonora, in quanto a questi livelli esecutivi è il minimo sindacabile, quanto piuttosto delineare come l’artista veneto abbia saputo plasmare tali difficoltà per rendere alfine la materia che è intrinseca nelle opere stesse. È qui che alberga il modus interpretandi dell’interprete, la sua capacità di rendere visibile/udibile ciò che si cela nell'opera d’arte. Ed è qui che Alberto Mesirca ha saputo magistralmente far comprendere che cosa significa per un compositore scrivere musica affidandosi a uno strumento inteso nel suo manifestarsi semantico/etimologico, vale a dire da ciò viene appositamente “costruito” (dal latino instruĕre che significa costruire, apprestare), rispetto a ciò che viene com-posto come diretta esemplificazione del porre stesso, ossia il mettere insieme senza dover ricorrere all’apprestarsi, al considerare l’oggetto che “costruisce” il manifestarsi dell’idea creativa che dà forma all’opera artistica, il che avviene quando l’interprete subentra nel ruolo di arte-fice. Nel primo caso, dunque, abbiamo il risultato artistico di un compositore che si affida all'interprete per dare forma all'interpretato, mentre nel secondo il compositore dà vita all'interpretato attraverso l’apporto dell’interprete, il quale alberga strumentalmente nello strumento che dà atto al suo essere fenomeno.
Da ciò si evince come in questi casi la figura dell’artista sia, per così dire, double face; nel caso specifico, il fluire della tensione espressiva che si manifesta, per esempio, nella Sonata in tre parti Lettere a Fryderyk di Angelo Gilardino, che viene resa strumentalmente in modo mirabile dal chitarrista veneto in quanto il compositore vercellese è egli stesso valente chitarrista, ossia vede risiedere già in sé l’interpretato dello strumento che dev’essere reso poi oggettivamente da altri da sé. Al contrario, la lettura di quel meraviglioso brano che è Minuta di Filippo Perocco è la splendida realizzazione di una techné che smette i panni della forma per assumere i contorni di un segno timbrico che si ribella alla sua origine; è un qualcosa che si staglia nello spazio, lo celebra, lo conchiude nella sua rappresentazione fisica, contrariamente a quanto accade invece con L’addio a Trachis II di Salvatore Sciarrino (nella traduzione, più che nella trascrizione, effettuata da Maurizio Pisati dall'originale per arpa) la cui manifestazione nello spazio (nel compositore siciliano lo strumento è sempre strumento dello strumento) è il sondare il suono stesso, far sì che la sua dimensione timbrica voglia affermarsi sull’estensione spaziale, creando così un rapporto, un afflato dialettico in cui l’uno ha bisogno dell’altro.
E poi, ancora a livello di esemplificazione, il brano dal quale è desunto il titolo della raccolta, Free Life on Earth di Giovanni Sollima (si tratta del quinto movimento della sonata per flauto e chitarra, dove è presente solo lo strumento a corde) in cui il suono sembra attingere dalle mammelle compositive di Morton Friedman, instillando un’irradiazione ipnotizzante, con le corde della chitarra di Alberto Mesirca che si tramutano nell'atto del drip painting di Jackson Pollock, un ininterrotto, tenue gocciolio che si rapprende staticamente e si fissa instancabilmente nel tempo. E ancora lo strumento che si esalta nella sua fisicità, nel suo esplorarsi in una tensione fisica capace di trasfigurarlo su nuovi livelli propositivi, come accade nei brani di Claudio Ambrosini Notturno (Tombeau per Jimi H.) e di Marco De Biasi Kcor, in cui l’eco sonoro reso mutua una dimensione imitativa nel senso squisitamente barocco del termine. Tutto ciò fa sì che questo disco debba essere considerato, senza esagerazioni, come una pietra miliare interpretativa per ciò che riguarda la musica contemporanea per chitarra, un riferimento tra il prima e il dopo. Ineludibile.
Anche le prese del suono dei due dischi sono altrettanto valide e degne di nota, soprattutto la seconda, che si avvale (e si sente) dell’apporto di Matteo Costa al mastering. Il suono della chitarra risulta così sempre materico nel dettaglio e convincente nella dinamica e nella microdinamica. Lo stesso vale per il parametro del palcoscenico sonoro in cui lo strumento, sebbene risulti essere un po’ avanzato (più nell'incisione della Brilliant Classics che in quella della Da Vinci Classics), non manifesta incongruità nella sua ricostruzione fisica.
Andrea Bedetti
Vicente Asencio - Complete Guitar Music
Alberto Mesirca (chitarra)
CD Brilliant Classics 95806
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4/5
AA.VV. - Free Guitar on Earth - Contemporary Italian Music for Guitar
Alberto Mesirca (chitarra)
CD Da Vinci Classics C00247
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4/5