Fino al momento dell’irruzione di quella che Walter Benjamin ha definito la riproducibilità dell’opera d’arte, l’espressione e la producibilità musicale è avvenuta quasi sempre a beneficio di un gruppo limitato di persone, che fosse la corte di un sovrano o il salotto di un aristocratico o di un prelato, così come una sala da concerto o una chiesa, oppure il cortile di una cascina o una semplice strada o piazza cittadine, investendo nella fase dell’ascolto esclusivamente coloro che vi erano presenti in quel momento. Ciò significa che l’atto musicale, prima dell’avvento della riproducibilità tecnica data dal grammofono in poi, ha coinvolto nel rito dell’ascolto un numero più o meno ristretto di persone, le quali in quel preciso momento formavano, per dirla con un termine caro a Francesco Alberoni, un “movimento collettivo”, vale a dire una comunità costituitasi sotto la propulsione dell’atto producibile musicale.
Da qui si può ben comprendere come l’esecuzione musicale, paragonabile per portata e importanza solo con la tradizione letterario-poetica orale stabilitasi da Omero fino all’avvento dell’invenzione della stampa, abbia fondamentalmente rappresentato un elemento sociale di coesione, di identificazione e di rappresentazione nei confronti di chi veniva coinvolto durante la sua produzione in quel dato lasso di tempo e di spazio. Quindi, la musica come esaltazione di una “comunità”, prima che la riproducibilità dell’atto musicale attraverso gli apparati tecnologici portasse a investire in tale atto elementi di una “società”. E prima ancora che a esserne interessata fosse la cosiddetta musica colta, appannaggio della nobiltà e dell’alto clero dal Medioevo fino all’espansione e all’affermazione della classe borghese nel secondo Ottocento, fu la musica popolare a incarnare il concetto veicolante della comunità, della Gemeinschaft, un lemma-categoria sulla quale hanno dibattuto genialmente pensatori come Werner Sombart e Georg Simmel, in contrapposizione al processo di massificazione dato dalla società/Gesellschaft.
La musica popolare ha rappresentato dunque un elemento di riconoscimento, di ri-specchiamento, di autoaffermazione sociale e culturale nelle classi meno abbienti, soprattutto quelle che appartenevano alla categoria dei contadini e dei centri rurali nel vecchio continente. Musica popolare che attraverso il genere della danza ha portato poi a contaminare ineluttabilmente la musica colta, rappresentando di fatto, a metà Ottocento (senza dimenticare alcuni influssi durante l’età barocca) il collante, l’elemento cementante che portò alla nascita delle cosiddette scuole musicali nazionali in campo europeo, frutto di quel recupero, di quella rivalutazione di temi musicali e culturali che avevano rinsaldato l’idea di Gemeinschaft, di appartenenza a un nucleo specifico negli strati più poveri e delegittimati nel corso dei secoli precedenti.
Non c’è quindi da meravigliarsi se uno degli assi più affascinanti e coinvolgenti in ambito musicale sia quello che lega l’ambito popolare con quello colto, tra l’orizzontalità dato dalla terra (squisitamente rappresentato dal termine latino di humus, non ancora imbarbarito dall’indebita appropriazione semantica data dal cristianesimo) e dalla verticalità, fornita dall’elemento spirituale-elitario. Un fascino che ho potuto appurare ascoltando una registrazione pubblicata dalla casa discografica Felmay Records di Torino, specializzata nel presentare tesori e riscoperte del patrimonio musicale popolare, dal titolo Bellanöva, contenente dodici brani che appartengono alla tradizione sonora rurale di quattro province, quelle di Alessandria, Genova, Piacenza e Pavia, collegate idealmente e culturalmente dalle splendide nervature geografiche dell’Appennino. A eseguire questi dodici brani sono stati quattro musicisti, due specialisti del repertorio popolare, Stefano Valla, virtuoso del piffero (o oboe popolare) e Daniele Scurati alla fisarmonica, e due provenienti dal repertorio colto della cosiddetta musica classica, Marcello Fera, violinista e compositore, e Nicola Segatta al violoncello, che hanno saputo dare vita, per così dire, musicalmente a una “comunità della comunità”, a un incontro orizzontale-verticale, in quanto lo stesso Fera ha pensato ad instillare nell’oralità sonora di questi brani un substrato trascrittivo-filtrante dato dall’apporto dei due strumenti ad arco, rivisitando e focalizzando l’impianto armonico-melodico non tanto per diluire il concentrato popolare insito in essi, quanto per poterlo sapientemente esaltare, per portare meglio in superficie la “nobiltà” di quell’humus, di quella aderenza alla vera e genuina “umiltà” delle quali sono intrise queste dodici testimonianze.
Di fronte alla vastità, al dedalo di canzoni, brani, esempi che appartengono al variegato arcipelago musicale di queste quattro province, perpetuato spesso e volentieri a livello puramente “orale”, non dev’essere stato facile per i quattro interpreti fornire una traccia, una crestomazia dal sapore leopardiano a coloro che sono digiuni, a cominciare dal sottoscritto, di tali tesori, ma il blend che ne è venuto fuori è, a dir poco, accattivante. Questo perché Fera, Scurati, Segatta e Valla hanno saputo tirare fuori dal vaso di Pandora della Gemeinschaft popolare in questione dodici brani che vanno a fissare, a incarnare lo spirito di una cultura rurale capace di estrapolare dal vissuto storico e sociale tutte quelle connotazioni, tutti quegli ambiti che rappresentano il pane esistenziale di chi ha simboleggiato una vita borderline, di chi è stato ritagliato nell’immagine del “cafone” di siloniana memoria, ma che poi è stato riscoperto nella prima metà del Novecento da uomini di cultura, tanto per fare due nomi, come Ernesto De Martino e Piero Camporesi, senza dimenticare, ancora in pieno magma positivista di fine Ottocento, Paolo Mantegazza.
Quindi, il titolo stesso del disco, con il termine dialettale di “Bellanöva”, ossia “Buona notizia”, riecheggia il merito di questa registrazione che rappresenta per molti (persino per un musicista come Marcello Fera, il quale nelle note di accompagnamento ammette che per lui la scoperta di questo tipo di musica è equivalsa ad una vera e propria “epifania”) un’autentica e piacevolissima scoperta, mediata dall’intreccio timbricamente riuscito tra i due strumenti ad ancia e i due ad arco, sostenuti anche dalla linea del canto (la musica popolare si regge anche sulla figura dei cantastorie, equivalente a quella del bardo in chiave rurale e contadina). Da qui, un ventaglio di situazioni, di emozioni, di trasmissioni sonore nei brani proposti che scandagliano varie dimensioni dell’esistere quotidiano dei “vinti” della storia e della società. E se pezzi come l’Alessandrina in re, l’Alessandrina in la, la Mazurca D’Doro e la Polca di Ernesto rimandano alla piacevolezza di danze che stemperavano la fatica e la pena quotidiane (ascoltandoli mi è tornata alla mente la scena dei suonatori girovaghi invitati ad esibirsi nella stazione di posta per allietare gli avventori in cui si svolge buona parte dell’intreccio di Ossessione di Luchino Visconti, film che ha dato avvio al neorealismo cinematografico), un brano come Angiolina fa affiorare il trauma del distacco, dell’allontanamento dalla propria terra, da quell’humus nel quale si è cresciuti per andare a servire la patria in un reggimento, visto come corpo estraneo, “straniero”, nel quale le tradizioni, lo svolgersi delle stagioni, i frutti del raccolto e del lavoro vanno a morire. E, a proposito del dramma della guerra, l’amaro e per certi versi ironico Valzer dei disertori è una pagina sonora che riporta alla mente la narrazione di Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu e delle debite e conseguenti immagini di Uomini contro di Francesco Rosi, in cui l’ignoranza del “buon selvaggio” rurale, lo straniamento, la debolezza umana devono fare ineluttabilmente i conti con la retorica delle azioni e dei gesti concentrati in quella malabolgia che fu il primo conflitto mondiale.
Ascoltando questo disco, anche i cultori di musica colta avranno modo di ridere e di piangere, di sorridere e pensare, di aprirsi a squarci di vita lontani e passati (eppure sotto certi aspetti ancora presenti), annuseranno l’odore di sudore e di vino di cui erano sature le osterie di quel tempo, ossia i teatri e le sale di concerto riservati ai “cafoni”, lasciandosi coinvolgere dalla gioia di fare musica insieme che i quattro interpreti hanno impresso in ogni nota di questi brani. Sì, perché anche nei pezzi più amari e tristi, Fera, Scurati, Segatta e Valla hanno saputo trasmettere la gioia di fare musica insieme, che è la prima regola che deve manifestarsi in chi affronta il repertorio della musica popolare, poiché anche cantando e suonando il proprio dolore o quello altrui vi è una patina di felicità, quella di essere consci di esprimere le proprie emozioni, il sentimento di quella comunità alla quale si appartiene.
Sia ben chiaro, qui ci troviamo di fronte non a quattro cantastorie, ma ad altrettanti fior di musicisti; Stefano Valla con il piffero fa quello che vuole, trasformando questo oboe popolare in un sovrastarsi di corde vocali, Daniele Scurati non è da meno con la fisarmonica, sempre capace di sostenere, soccorrere, alimentare la tessitura apparentemente banale del costrutto musicale, e se Nicola Segatta con il violoncello tratteggia un “basso continuo” che è un rassicurante mantice armonico, Marcello Fera con il violino riempie sempre il bicchiere vuoto di Bonarda scuro come la notte e sincero come un uomo di fronte alla morte.
Simon Lanz si è occupato della presa del suono, riuscendo nella non facile impresa di restituire un equilibrio tonale nel quale ognuno dei quattro strumenti si rispetta timbricamente a vicenda con gli altri; non è da meno la dinamica, agile e veloce, esente dalla trappola di enfasi e colori artificiosi. Anche il palcoscenico sonoro nel quale sono riprodotti i quattro interpreti è corretto, così come il dettaglio, ricco di nero e di matericità.
Andrea Bedetti
AA.VV. – Bellanöva
Marcello Fera (violino e voce) - Daniele Scurati (fisarmonica e voce) - Nicola Segatta (violoncello e voce) - Stefano Valla (piffero e voce)
CD Felmay Records fy8274
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5