Abituati a considerare la trimurti Debussy-Ravel-Skrjabin quale depositaria di una svolta pianistica (e non solo) radicale, improntata a percorrere nuovi sentieri musicali, per dirla con Webern, nei primissimi decenni del Ventesimo secolo, dimentichiamo o non consideriamo con la dovuta importanza invece l’apporto che il pianismo spagnolo di quella stessa epoca seppe dare alla causa della tastiera. E se noi valorizziamo gli influssi tematici, ritmici, popolari della musica spagnola plasmata da Debussy e Ravel, non facciamo lo stesso con gli stessi compositori iberici quando si tratta di valutare l’uso da loro fatto nelle loro opere, le quali indubbiamente hanno un peso specifico nel progressivo sviluppo del linguaggio pianistico del primo Novecento.
E, in certo senso, in ciò il giovane pianista laziale Axel Trolese ha messo il dito nella piaga con la sua nuova registrazione discografica fatta per la Da Vinci Classics, visto che il suo programma riguarda tre opere di altrettanti autori spagnoli, vale a dire i primi due dei quattro quaderni che compongono Iberia di Isaac Albéniz, tre brani dalle tredici Cançons i Danzas di Federico Mompou e la Fantasia Bætica di Manuel de Falla, che rappresentano altrettanti momenti iconici di un pianismo votato ormai a una conclamata modernità d’espressione. Fissando temporalmente questi pezzi, vediamo che i due quaderni di Albéniz risalgono rispettivamente al 1905 e al 1906, l’opera di de Falla al 1919 e i brani di Mompou, esattamente il primo, il terzo, il sesto e il quattordicesimo, che vanno dagli anni Venti ai Sessanta.
Che vi sia una precisa intenzione da parte di Axel Trolese di far comprendere l’evoluzione stilistica e armonica del linguaggio pianistico spagnolo del primo Novecento viene certificato dal fatto di presentare i primi due quaderni di Iberia; se il primo quaderno, infatti, composto da Evocación, El Puerto ed El Corpus en Sevilla, tranne il virtuosismo insito nel terzo brano, non presenta difficoltà tecniche di rilevante importanza, ciò non può essere affermato invece per ciò che riguarda il secondo quaderno, i cui brani Rondeña, Almeria e Triana rappresentano una progressiva acquisizione di approfondimento delle potenzialità del pianoforte, con i primi due pezzi che fanno quasi da work in progress rispetto al terzo, in quanto Triana è oltremodo visionaria nella sua essenza espressiva, anche se tale visionarietà è stata per così dire fraintesa in ambito interpretativo (si può concordare con quanto afferma Piero Rattalino quando scrive che questo pezzo è stato musicalmente più raffigurato come un disegno più che come una macchia, ossia andando a focalizzarlo in un modo “realistico”, usando un’analogia pittorica, e non in senso “impressionistico”, tenuto conto che sovente a livello esecutivo la parsimonia evidenziata nell’uso del pedale di risonanza, contrariamente alle indicazioni fornite dallo stesso Albéniz, tende a eliminare quella “modernità” che è insita proprio nello sfumare, nel “macchiare” timbricamente la sua portata stilistica, cosa che invece il suo primo interprete, preso a modello dallo stesso compositore, Joaquín Malats, evidenziò debitamente attraverso la sua lettura).
Una sorta di incomprensione circonda poi la Fantasia Bætica di Manuel de Falla, incomprensione causata dal committente dell’opera, Arthur Rubinstein, il quale, dopo averla eseguita in prima assoluta e in altre pochissime occasioni, decise di abbandonarla, fraintendendone la caratura di capolavoro “modernista”. Questo perché la pagina di de Falla anche se è per pianoforte, dev’essere idealmente pensata come se fosse eseguita per clavicembalo; difatti, il compositore di Cadice a quell’epoca era impegnato a rendere a livello musicale una sorta di compendio della storia della civiltà spagnola, esplorandone il cuore attraverso i due strumenti più didascalici che l’avevano contraddistinta, la chitarra e il clavicembalo, entrambi pizzicati quando vengono suonati. E anche la Fantasia Bætica, sotto questo aspetto, dev’essere interpretativamente immaginato come una sorta di clavicembalo reso in chiave pianistica, cosa che sia Rubinstein, dall’alto della sua visione “romantica”, sia buona parte di quei pochi che poi ebbero modo di suonarla, non hanno saputo intendere. Solo una scansione “clavicembalistica”, quindi eminentemente “ritmata”, può rendere i colori, i rimandi di quest’opera nella quale vengono evocati i suoni, i timbri delle chitarre, così come di quelli a percussione, come il tamburello, oltre al battito dei piedi e delle mani fatto dai danzatori andalusi.
Mompou, autore che dev’essere ancora “sistematizzato” compiutamente sia a livello storico, sia a livello di acquisizione di ascolto rispetto all’importanza che ha avuto in ambito pianistico, rivela nelle tredici pagine pianistiche che fanno parte delle Cançons i Danzas (la quattordicesima è per chitarra e pianoforte e la quindicesima per organo) una dimensione schiettamente intimistica, più simile a quella chopiniana, la quale rifuggiva le sale concertistiche, a differenza di quella lisztiana, per essere al contrario resa nei salotti mondani. Intimismo necessario per dipanare meglio la dimensione evocativa, immaginifica, emotiva della musica che incarnano (non per nulla, la prima e la sesta di queste pagine pianistiche sono state rese immortali sotto le dita di Arturo Benedetti Michelangeli), la cui rarefazione viene esemplificata anche dalla loro durata individuale (raramente superano i quattro minuti), una rarefazione che però non dev’essere scambiata per “condensazione”, vale a dire che al loro interno le immagini non devono essere né fuggevoli, né affastellate, sommate le une sulle altre. Così, la materia sonora che imprime e raffigura le emozioni evocate da Mompou è rappresa in linee essenziali, quasi sempre esposte nel registro centrale della tastiera, “trasognate” nella loro larvale compiutezza.
Se ho voluto fornire queste indicazioni relative alle opere prese in esame nella registrazione discografica di Axel Trolese, è per far comprendere meglio la caratura della sua lettura. Il giovane artista laziale dimostra una piena consapevolezza di ciò che è andato ad interpretare, a rendere, con una lucidità esecutiva che rappresenta solo l’ultimo anello di una catena che comprende la facoltà immedesimativa di ciò che dev’essere enunciato dalla lettura della partitura alla realizzazione sonora del segno. Trolese ha ben chiara la portata del “modernismo” di questi brani, ma non ne esaspera mai la portata, in quanto riesce a modulare sempre il progressivo messaggio che si cela in queste pagine senza dimenticarne l’afflato classico, la dimensione di una tradizione che è sempre presente. Lettura perigliosa, la sua, perennemente in bilico su una lama affilata, ma dalla quale non esce mai sanguinante, ferito, amputato.
La lucidità del gesto pensato non lo abbandona mai, a cominciare da come tratteggia il capolavoro di de Falla, in cui l’afflato “clavicembalistico” è presente, anche se non ostentato, con il risultato di dipanare la complessità della scrittura attraverso una continua decodificazione timbrica, saldo nelle intenzioni e nella resa; e lo stesso avviene nei due quaderni di Iberia, in cui quando viene a mancare l’asperità tecnica, come nei due primi brani del primo quaderno, la timida loquacità del gesto viene espressa con tonalità giustamente “impressionistiche” (termine questo abusato e usato sovente a sproposito, ma che in questo caso calza a dovere), raggiungendo livelli di assoluta rarefazione (si ascoltino le ultimissime battute di Evocación in cui il timbro sfiora addirittura il rado respiro reso in seguito da Syl’vestrov con il suo pianismo). E se le Cançons i Danzas n. 1 e n. 6 non raggiungono la perfezione stilistica di Benedetti Michelangeli (ma tutto ciò che è stato espresso dal sommo artista bresciano è un capitolo a sé e tale dev’essere considerato), è altrettanto vero che l’approccio che Axel Trolese adotta, accomunando anche la n. 3 e la n. 14, permette di distillare compiutamente il loro afflato, la tessitura immanente che le contraddistingue, dando luogo a quell’ineludibile rarefazione timbrica senza quale tutto inesorabilmente si sgonfia, si dematerializza.
La presa del suono è stata effettuata da quel genio visionario che è Michael Seberich, il quale con le sue alchimie microfoniche è riuscito a restituire magnificamente il sontuoso timbro del Bechstein Grand-Coda appartenente alla collezione del leggendario Angelo Fabbrini. La dinamica, sebbene rocciosa, energica, è allo stesso tempo liquida e rende idealmente la fluidità del tocco, con una decadenza esemplare degli armonici; il palcoscenico sonoro permette allo strumento di essere ricostruito al centro dei diffusori a una discreta (e corretta, soprattutto) profondità, dando modo allo spazio sonoro in cui viene a trovarsi di essere piacevolmente “visualizzato”. Allo stesso modo, l’equilibrio tonale è un sapiente distillato di registri che non risultano mai essere invadenti gli uni con gli altri, mentre il dettaglio rappresenta un esempio di matericità in cui il Bechstein risulta essere fisicamente granitico.
Andrea Bedetti
Isaac Albéniz – Mompou-de Falla – Iberia, Book I & II
Axel Trolese (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00375