Ricordo ancora che da bambino lessi in un testo “edificante”, com’erano all’epoca i sussidiari delle elementari, che un giorno un amico di Mozart lo andò a trovare nella sua casa viennese in pieno inverno. Entrato, rimase allibito nel vedere il compositore e la moglie Constance ballare senza che nessuno stesse suonando. Al che Mozart spiegò all’amico esterrefatto che non avendo i soldi per acquistare la legna con la quale accendere il camino, lui e la moglie per scaldarsi erano stati costretti a ballare per resistere al gelo. Questo aneddoto che sia apocrifo (molto probabilmente) o meno, è comunque indicativo di un dato di fatto che non dobbiamo mai mettere da parte quando si affronta la disamina delle opere di Mozart, ossia che una parte di esse furono composte per venire incontro ai desideri e al piacere altrui, più che essere un’espressione della sua volontà compositiva in quanto autore. Facendo un paragone ardito è come se un grande compositore di oggi, trovandosi in un momento di difficoltà, fosse costretto a scrivere una canzone per un cantante che deve esibirsi magari al Festival di Sanremo o per lanciarla come tormentone estivo, con la differenza che ai tempi di Mozart c’era solo un linguaggio musicale, quello tonale, con il quale si scrivevano allo stesso tempo alte composizioni o canzoncine popolari, mentre oggi, come ben sappiamo, si è infestati (è il caso di affermarlo) da una pletora di linguaggi, la maggior parte dei quali non ascrivibili alla dimensione musicologica, ma tutt’al più all’indagine sociologica in quanto rientrano nel novero dei fenomeni di stampo sociale e nulla più.

Quindi, Mozart, come Haydn, come lo stesso Bach, come Beethoven, Brahms, Schubert e altri grandi, ha scritto musica “commerciale” per venire incontro al gusto, a volte semplice ed elementare, di coloro che avrebbero potuto comprare gli spartiti, permettendo così al sommo salisburghese di superare momenti economicamente difficili e che furono diversi, come la storia della sua vita ci ha insegnato.

Ma, sia ben chiaro, affermare che, data la loro “commerciabilità”, queste opere mozartiane siano da porre su un piano inferiore o, peggio, da relegare in un contesto minore rispetto ai tanti capolavori scritti dal divino Amadé sarebbe del tutto errato e non corrispondente al concetto di “commercializzazione” del prodotto musicale che abbiamo noi oggi. Sì, perché anche quando Mozart componeva per gli altri e non per esprimere se stesso, la sua genialità non veniva mai a mancare e veniva accettata di buon grado dal pubblico dell’epoca, mentre se oggi, mettiamo caso, se Salvatore Sciarrino dovesse o volesse scrivere una canzone per il Festival di Sanremo, per venire incontro ai gusti di coloro che concepiscono esclusivamente la musica leggera, dovrebbe rinnegare del tutto la propria genialità in quanto il linguaggio musicale da lui adottato è semplicemente altro e improponibile rispetto a quello o a quelli consueti che vengono eseguiti sul palcoscenico del Teatro Ariston in occasione del festival in questione e non solo.

Ma tornando a Mozart, per farsi un’idea della “Commercialità” (con la a maiuscola) della sua musica capita a proposito una novità discografica che vede alcuni suoi pezzi per pianoforte a quattro mani eseguiti dal duo Enrico Padovani e Alessandra Mauro per l’etichetta Da Vinci Classics. Questa registrazione, pur non presentando l’integrale, vanta ad ogni modo tre delle ultime composizioni che Mozart dedicò a questo genere (la Sonata in fa maggiore K.497, l’Andante e Variazioni in sol maggiore K.501 e soprattutto la Sonata in do maggiore K.521), oltre alla versione a quattro mani dell’Adagio e Allegro in fa minore per organo meccanico K.594, ossia brani composti tra il 1786 e il dicembre del 1790, un periodo che vede il progressivo peggioramento dei guadagni che si fanno sempre più rari e che sono di conseguenza delle drammatiche testimonianze dello stato di miseria in cui sprofondò il sommo salisburghese, sempre più solo ed emarginato dalla Vienna aristocratica detentrice del potere. Per dirla tutta, oberato di debiti e in mezzo a difficoltà economiche di ogni genere, al punto da vendere nell’ottobre del 1790 tutta l’argenteria che gli era rimasta in casa, Mozart due mesi dopo accettò l’incarico da parte di un nobile, il conte Deym, collezionista di oggetti preziosi e rari, di scrivere una serie di pezzi per organo meccanico, detto anche ad orologeria e il salisburghese, pur di garantirsi una minima entrata, soddisfò questa bizzarra commessa con un’opera, che non supera i dieci minuti, basata su un tempo in tre quarti di stile severo che, attraverso un gioco di armonie e di modulazioni, trasforma lo sviluppo in modo sempre più audace. L’Allegro che segue, sempre sulla stessa tonalità, ha il sapore di un fugato dal ritmo nervoso e spigliato, di impianto sonatistico, che nello sviluppo ritorna al clima espressivo già ascoltato all’inizio. E se la Sonata K.497 rappresenta un altro brano che Mozart dovette comporre in brevissimo tempo per venire incontro ai gusti altrui per rimpolpare le magre finanze, il suo impianto quasi “sinfonico” testimonia la necessità di apparire accattivante fin dal primo ascolto, quella in do maggiore K.521 vanta una tonalità che non deve trarre in inganno. Sebbene l’atmosfera che si respira può invitare a un’opera fondamentalmente lieve e ottimista, in realtà, come testimoniano i tre passaggi centrali negli altrettanti tempi, si cela dietro a tale solarità (do maggiore) un velo di tristezza e un sentore di disperazione (si è affermato che tale destabilizzazione umorale dipendesse dal fatto che Mozart, all’indomani della morte del padre Leopold, avvenuta alla fine del maggio 1787, cercò di reagire a una possibile depressione trovando rifugio nella composizione, lasciandosi andare a tonalità che invitassero a un’agognata felicità). Le Variazioni in sol maggiore su un tema originale risalgono invece a un anno prima, esattamente al novembre 1786, e rappresentano anch’esse un espediente per Mozart per ottenere consensi e possibili compensi, tenendo conto che sia a Vienna, sia a Praga nel corso degli anni si era fatto una fama di brillante ed arguto improvvisatore. Si tratta di un’opera decisamente ricca di ornamenti, in cui il tema iniziale torna di continuo trasfigurato in figurazioni sempre più fitte, esaltato allo stesso tempo dalla capacità concertante data dai due esecutori.

Si è detto che, rispetto al resto di buona parte del catalogo mozartiano, questi brani appartengono a un filone per così dire “utilitaristico”, necessario alla sopravvivenza, ma questo non significa, quando dietro vi è la figura di un genio, come si è già accennato, che la loro “commerciabilità” le faccia rientrare in un contesto inferiore nella scala dei valori musicali. E questo succede soprattutto per un motivo: ascoltando le opere in questione, e questo vale soprattutto per le Sonate, ci si rende conto che anche in questa occasione Mozart immette un elemento che è imprescindibile dal suo DNA compositivo, l’elemento della “teatralità”. Nessuno, come il sommo salisburghese, ha saputo incastonare nei canoni della musica strumentale il concetto della “teatralità”, ossia di rendere il discorso musicale discorsivo/antagonistico, imbastendo un costante e geniale rapporto dialogico tra le parti, ricorrendo, per così dire, agli elementi costitutivi della musica operistica. La musica di Mozart è l’incontro/scontro degli opposti, come avviene per l’appunto nei ritmi interiori e nascosti del teatro musicale.

E qui, con la presenza di due interpreti che si “disputano” una sola tastiera, questo elemento di “teatralità” permette a Mozart di rivestire e immettere nella semplicità (apparente) del loro interpretare una scansione che, di volta in volta, si manifesta drammaticamente, gioiosamente, melanconicamente. Se si riflette con attenzione, tutta la musica di Mozart è un meraviglioso e prodigioso “gioco delle parti” (e non credo di esagerare o peggio se affermo che in ciò Mozart è straordinariamente “pirandelliano”) e queste opere per pianoforte a quattro mani rappresentano per l’appunto una “teatralità” che si mette al servizio della “necessità”, lasciando ancora una volta il suo indelebile marchio della genialità. Ascoltate, quindi, questi brani come se i due interpreti fossero i personaggi teatrali di una storia che raccontano, discutono, affrontandosi e si riconciliandosi, amandosi e odiandosi all’interno di una sorta di Kammerspiel sapientemente liofilizzato.

E qui, per far sì che il tutto possa essere riproposto ed esaltato al meglio, entra in gioco la sagacia esecutiva, ed è indubbio che il duo Padovani-Mauro ci sia riuscito perfettamente. Perché per sapere rendere queste pagine, la cui elementare dimensione tecnica (Mozart le concepì affinché potessero essere eseguite anche da musicisti dilettanti o amatoriali) viene compensata per l’appunto dalla sotterranea presenza del “gioco delle parti”, i due interpreti devono essere oltremodo affiatati, oserei dire anche non solo in senso professionale, ma esistenziale. Come avviene appunto per il duo in questione che lo è nella vita oltre che nel lavoro. Ed è indubbio che Enrico Padovani ed Alessandra Mauro immettano in queste pagine così drammaticamente commoventi, se ascoltate sotto il piano biografico dell’autore, un impianto squisitamente “teatrale” di questa musica, per la quale offre per l’appunto il meglio e come tale dev’essere resa, nel gioco degli scambi e degli effetti timbrici dati dal registro medio-basso e da quello medio-alto, esaltando quel mirabile impasto di pesi e contrappesi su cui si regge l’eloquio e la dimensione melodica mozartiani. Ascoltando queste pagine, quindi, per come sono state rese dal duo in questione, si ride e si piange. Come se fossimo in teatro.

La presa del suono è abbastanza buona anche se a livello di dinamica, che si riflette sul dettaglio e sull’equilibrio tonale, il timbro è secco, soprattutto sul registro acuto, provocando un sentore “metallico” sui tasti più estremi del registro in questione. Questo perché non vi è quasi riverbero, probabilmente una soluzione adottata tecnicamente per non andare a compromettere gli armonici e le risonanze dati dalle quattro mani. Più che buona la riproposizione del palcoscenico sonoro, con lo strumento scolpito al centro tra i diffusori, leggermente avanzato ma non in maniera scorretta.

Andrea Bedetti

 

Wolfgang Amadeus Mozart – Works for Piano Four Hands K.497, K.501, K.521, K.594

Enrico Padovani – Alessandra Mauro (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00042

Giudizio artistico 5/5

Giudizio tecnico 3/5