Fino al 10 maggio 2020 al Museo Eremitani di Padova è allestita la mostra ’900 Italiano. Un secolo di arte, che attraverso novanta opere intende offrire una possibile traccia per comprendere la complessità e il fascino di cento anni nei quali sono racchiusi corsi e ricorsi creativi, cambi di generazioni e plurime mentalità pittoriche

 

Vi è un innegabile e affascinante parallelo tra lo sviluppo dell’arte dei colori e delle linee con quello dell’arte dei suoni nell’ambito temporale del Novecento, “secolo breve” per alcuni tratti e sconfinato per altri. Un secolo, almeno per quello che riguarda la sfera dell’arte pittorica e scultorea, che è stato sagacemente riassunto in una mostra allestita al Museo Eremitani di Padova, dal titolo evocativo di ’900 Italiano. Un secolo di arte, organizzata dall’Assessorato alla Cultura del Comune della città veneta in collaborazione con C.O.R, Creare Organizzare Realizzare di Alessandro Nicosia, esposizione iniziata il 1° febbraio e che sarà possibile visitare fino al 10 maggio 2020.

Giorgio de Chirico, La partenza del cavaliere. 1923, olio su cartone. Collezione privata.

Raccontare un secolo artistico spazialmente e temporalmente all’interno di una rassegna è opera titanica e irraggiungibile, come ben sanno le curatrici della mostra padovana, Maria Teresa Benedetti e Francesca Villanti, le quali invece hanno voluto offrire al visitatore una delle tante storie che si possono raccontare del Novecento italiano; una storia che si dipana attraverso novanta opere, senza avere o vantare pretese di esaustività, ma evidenziando una traccia capace di far affiorare quei corsi e ricorsi artistici, nei repentini cambi di generazioni e mentalità pittoriche che scandiscono il Novecento artistico italiano. Da questo punto di vista e di prospettiva, l’allestimento padovano immerge il visitatore nella temperie e nelle atmosfere estetiche ed emotive di un secolo contrassegnato da aspetti rivoluzionari che hanno reso il Novecento squisitamente fecondo e inquieto, serbatoio effervescente e dilaniante di una parabola artistica che si snoda tra salti e continuità, fasi di crisi e progresso, alla ricerca di forme, strutture, squarci che mostrano una bellezza che non ha più nulla di salvifico, poiché l’arte che nasce in un’epoca che partorisce due guerre mondiali non può manifestare speranze redentive.

Giorgio Morandi, Natura Morta. 1921, olio su tela. Collezione Giorgio Pulazza.

Seguendo questo canovaccio, ’900 Italiano ricostruisce cronologicamente un secolo d’arte attraverso una selezione di opere dall’alto valore emblematico, con l’intento di fornire indubbi spunti di riflessione per poter comprendere il flusso di istanze creative che si sono evidenziate nel mito della forma o nella sua negazione, nell’idea più astratta o nella materia più umile, facendo sì che l’arte italiana del Novecento fosse il ritratto e l’incarnazione della folgorazione della modernità e delle tragiche (dis)illusioni del cosiddetto “secolo breve” in cui vanno a inserirsi, come i tasselli di un puzzle in progress, le opere di artisti che l’hanno vissuto, amato e odiato, oltre a immaginarlo e a rinnegarlo.

Francesco Trombadori, Fanciulla nuda che legge. 1929, olio su tela. Collezione privata.

Il percorso della mostra non poteva che prendere avvio da quella miccia esplosiva che è stata l’irruzione del movimento futurista, illuminata da una parte dalle scintille divisioniste di Giacomo Balla e dei suoi giovani allievi e dall’altra dalla violenta accelerazione verso la deflagrazione della linea chiusa, esemplificata dalla forma umana fissata nelle Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni. Il proseguo ideale del Futurismo confluisce inesorabilmente nelle trincee e nelle carneficine della Prima guerra mondiale, le quali sacrificano sull’altare della distruzione i sogni di progresso delle Avanguardie, correggendo di conseguenza il tiro dell’arte italiana che all’inizio degli anni Venti rientra nel rappel à l’ordre lanciato da quel Grande Sacerdote della Metafisica artistica che è stato Giorgio De Chirico, il quale nelle sue opere rievoca le suggestioni atemporali della classicità in un tempo magicamente circoscritto e sospeso. Anche suo fratello, lo straordinario “poliartista” Alberto Savinio, partecipa a questa visione in cui l’elemento classico, dal sapore così struggente, intende esorcizzare la tragedia di quel tempo smaterializzandolo in visioni ludiche al limite di un surrealismo che non cede ai richiami del dadaismo “infantile”, mentre nei fugaci paesaggi di Filippo De Pisis si annidano colori, riverberi e bagliori impressionisti.

Giuseppe Capogrossi, Natura morta. 1948, olio su tela. Collezione privata.

Proprio la lezione di De Chirico e degli Italiens de Paris, capeggiati da Savinio, fissa la traccia evidenziata dalle due curatrici, la quale deve necessariamente dicotomizzare il Novecento italiano tra modernità ed eredità del passato attraverso il passaggio e il fluire di scuole, movimenti, manifesti, gruppi e singole individualità. Ecco, allora, il Realismo magico di Giorgio Morandi e Carlo Carrà, capace di approdare a un silenzio contemplativo sui segni nascosti dell’ordinario, congiuntamente al nitore simbolico di Felice Casorati; e poi il Primordialismo plastico che assume la forma austera di un mito moderno legato al cordone ombelicale dato da quel momento irripetibile che è stato il Quattrocento italiano, in nome di una sperimentazione, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, che si alterna agli stravolgimenti visionari ed espressionisti della cosiddetta Scuola di Via Cavour (nella felice espressione data da Roberto Longhi) di Scipione, di Renato Marino Mazzacurati e di Corrado Cagli e alla dimensione monumentale presente nell’opera di Gino Severini e, soprattutto, di Mario Sironi.

Alberto Biasi, Visione Dinamica. 1960, estroflessioni di fili di cotone e chiodi. Collezione Giacomo Nurra e Maria Stefania Biondo dalla Casapiccola.

Invece, non vi è nulla di “magico” nel realismo di Renato Guttuso che fa in un certo senso da spartiacque, da colonne d’Ercole della figuratività, con il presentarsi della non figuratività del secondo Dopoguerra, annunciata da quell’“onirista” di razza che è stato Osvaldo Licini. Da qui prende avvio la seconda parte della mostra, che si focalizza sull’indagine spaziale di tre pietre miliari del secondo Novecento italiano, vale a dire Giuseppe Capogrossi, la cui opera segna il punto di transizione nella celebrazione del segno, seguito da Alberto Burri, la cui arte, sublimata nei suoi sacchi laceri, racconta la storia “dostoevskiana” della miseria umana e, infine, da Lucio Fontana, i cui celeberrimi tagli evirano la rassicurante bidimensionalità della tela. Il disagio, l’atto mancante, la privazione, l’annullamento proseguono poi con l’opera di Emilio Isgrò, il cui segno mette in rilievo l’esaltazione data dall’assenza del logos, della parola in sé, di cui si sente disperatamente la necessità proprio quando viene costretta al silenzio.

Lucio Fontana, Concetto spaziale. Attese. 1967, idropittura su tela. Collezione privata.

Infine, la costrizione e il bisogno di dare voce ad altro, così come il sorgere di nuove forme di linguaggio artistico, sono alla base della presenza, nel Novecento italiano, di una realtà quale è stata il gruppo Forma, sorto dall’omonima rivista, di cui hanno fatto parte Carla Accardi, Ugo Attardi, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo e Giulio Turcato, vessillifero di una stagione astrattista, e della Pop Art italiana, così come delle sperimentazioni di azzeramento dell’Arte Concettuale e dell’etica ricercata dalla cosiddetta Arte Povera, fino alle stimolanti provocazioni del padovano Gruppo N, composto da Alberto Biasi, Ennio Chiggio, Toni Costa, Edoardo Landi e Manfredo Massironi. Giungiamo così alla fine degli anni Settanta, quando la Transavanguardia, con il suo deus ex machina Achille Bonita Oliva, decide di rompere le fila al grido di “libera tutti”, frantumando schemi, collettivismi, ideologismi di sorta, permettendo così all’artista di tornare a parlare in prima persona, con l’intento, sperato ma mai definitivamente attuato, di andare oltre il contrasto dicotomico tra astratto e figurativo.

Andrea Bedetti

 

Per maggiori informazioni:

Museo Eremitani

Padova, Piazza Eremitani 8 – Tel. 049.2010010