Ci si può arrogare il diritto di scrivere l’autobiografia (non la biografia) di un sommo come Johann Sebastian Bach sostituendosi sostanzialmente a lui? Si può farlo, addirittura, facendo sì che tale “autobiografia” venga “arbitrariamente” scritta prendendo spunto da un momento delicatissimo nella vita del Kantor, ossia facendo finta che Bach abbia vergato pagine di una sorta di “diario” che vanno dall’11 febbraio fino al 27 marzo 1750, vale a dire a pochi giorni dalle sciagurate operazioni (la prima effettuata il 28 marzo e la seconda il 7 aprile) alle quali il grande musicista si sottopose agli occhi ed effettuata dall’oculista (e ciarlatano) inglese John Taylor? Sì, si può farlo, se colui che si arroga tale diritto porta il nome di Sergio Vartolo, ossia un musicista che ha consacrato buona parte della propria vita e della propria attività artistica allo studio e all’esecuzione delle opere del Kantor, oltre a possedere rare qualità di scrittura e di divulgazione.

Il risultato di ciò è racchiuso in un libro di oltre cinquecentocinquanta pagine edito dalla Zecchini e che porta il titolo di Memorie della vita di Giovanni Bastiano Bach scritte da lui medesimo; un testo nel quale Vartolo riesce a far viaggiare nel tempo il lettore, proponendo e ricalcando il modello del suo sforzo erudito su quanto già fatto in passato da Giacomo Casanova, ossia con le sue Mémoires de J. Casanova de Seingalt, écrits par lui-même. Così, attraverso l’elaborazione di trentatré capitoli (il lettore colto avrà già compreso l’importanza che il musicista bolognese riserva “gematricamente” a questo numero) o Stazioni (come sottolinea lo stesso autore), si narra la Via Crucis di Bach che dalla perdita progressiva della vista lo porterà poi alla completa cecità (causata dall’incauto intervento chirurgico) fino alla morte, avvenuta la sera del 28 luglio 1750.

La copertina del libro di Sergio Vartolo.

Al di là della scrittura, del modo di rendere incisivamente narrativa questa Via Crucis, quasi ci fosse da parte di Bach il desiderio, il sogno di considerare quel preciso momento della sua vita come una salita sul Golgota, ripercorrendo idealmente le sofferenze terrene del Cristo attraverso le sue e accettandole come un’espiazione con la quale pagare il fio della sua arroganza terrena (non dimentichiamo l’essenza del “Dio forte” irradiata dal credo luterano), questi capitoli/Stazioni rappresentano un mirabile viaggio nel sondare l’animo, la coscienza di Bach, il suo approcciarsi a dimensioni escatologiche attraverso disamine che vanno oltre la sua arte musicale, da vero Homo Universalis, come spiega lo stesso Vartolo nella Prefazione del libro. E questo mediante, per l’appunto, l’artificio delle “Memorie”, ossia nel far affiorare dalle profondità del proprio Io una resa dei conti che lo lega sempre più alla sfera della morte più che a quella della vita.

Chi avrà letto il Notturno di D’Annunzio, che il Vate scrisse a Venezia nel 1916, nel periodo in cui rimase momentaneamente cieco dopo essere rimasto gravemente ferito in un incidente aereo, ricorrendo a circa diecimila strisce di carta e a un pennino scorrevole, non faticherà a notare delle similitudini, delle analogie nelle quali si viene a trovare un uomo che ha perso o che sta perdendo il bene della vista, come se la perdita di tale senso venisse ricompensato da una maggiore propensione alla riflessione, a una “lucidità” interiore con la quale prendere atto di una mutata realtà, che può essere colta solo grazie a una “vista immanente”. Ed è proprio quanto riesce a fare Sergio Vartolo, che conduce il lettore al calvario bachiano attraverso il modo nuovo di vedere le cose che la progressiva cecità impone al Kantor, frutto di una commovente saggezza che si rende arte e, allo stesso tempo, come dirà più di un secolo dopo Franz Liszt al termine della sua vita, anche religione, capace di allontanare l’uomo dall’arte stessa, vista come forma suprema di arroganza.

È una lettura coinvolgente quella che ci consegna il musicista e didatta bolognese, capace di restituire (ci piace pensarlo) la figura del Kantor, affrescando il suo tramonto terreno come un sentiero del quale ci descrive ogni sasso, ogni avvallamento, ogni asperità, ben sapendo che tutte le cose devono essere ricondotte a quel Dio nel nome del quale Bach offrì la propria vita e la propria opera, apponendo su ogni partitura la dicitura Soli Deo Gloria, ossia “solo alla gloria del Signore”.

La copertina del libro di Andrea Macinanti.

Un’altra interessante novità editoriale della Zecchini riguarda un denso libro scritto da Andrea Macinanti, uno dei maggiori organisti italiani, docente di organo al conservatorio “G. B. Martini” di Bologna, filologo musicale, saggista e notevole divulgatore, come dimostra per l’appunto questo suo lavoro dall’evocativo titolo de «Fabricato alla guisa del Corpo humano». L’organo come metafora antropomorfa, un testo che spiega in modo dotto, ma accessibile anche ai “non addetti ai lavori”, gli affascinanti parallelismi e le allegorie che si sono create, fin dal Medioevo, tra il corpo umano e il re degli strumenti a tastiera, partendo dal desiderio puramente utopistico da parte dell’uomo di vedere nell’organo una seconda voce umana per estensione, timbro e dinamica, in grado quindi di riprodurre ogni sua sfumatura. Una ricerca vana, illusoria, ma che ha permesso all’uomo e all’arte non solo musicale di vedere in questo strumento un’ideale prosecuzione di ciò che le corde vocali sono in grado di eseguire a livello sonoro.

L’organo, quindi, come dilatazione temporale e spaziale della sensibilità umana, con Andrea Macinanti che si addentra nei misteri del suono organistico prendendo a prestito la visione filosofico-musicale che Severino Boezio presenta nel suo De institutione musica, ossia la musica mundana, humana e instrumentalis. Attraverso questi tre “sentieri”, l’organista bolognese espone debitamente le correlazioni, le analogie, i simbolismi che fanno dell’organo un “corpo umano musicale”, con i suoi limiti, le sue “debolezze” e le sue virtù.

Il risultato? Far sì che il lettore e colui che fa fatica ad avvicinarsi musicalmente all’organo e ad assaporarne le sue qualità musicali, per via delle sue dimensioni e del timbro che possono incutere timore, possa finalmente accettare e concepire idealmente e fattivamente come l’organo, il più simile all’uomo tra gli strumenti musicali, sia anche quello in grado di mostrare sonoramente ciò che siamo e, soprattutto, ciò che potremmo essere.

Andrea Bedetti

 

Sergio Vartolo – Memorie della vita di Giovanni Bastiano Bach scritte da lui medesimo (con CD audio allegato)

Zecchini Editore, 2019, pagg. XXVI+526

Giudizio artistico 5/5

Andrea Macinanti – «FABRICATO ALLA GUISA DEL CORPO HUMANO» – L’organo come metafora antropomorfa

Zecchini Editore, 2019, pagg. pagg. XVI+368

Giudizio artistico 4/5