Il numero delle opere che fanno parte del catalogo pianistico di Franz Liszt è talmente elevato, che anche gli addetti ai lavori e gli stessi musicisti fanno fatica a concepire e a considerare tutti quei capolavori che il compositore ungherese è riuscito a creare nel corso degli anni. Capolavori che, magari a differenza di altri, a cominciare dalla Sonata in si minore e dagli Studi d’esecuzione trascendentale, vengono eseguiti di conseguenza molto più raramente. Ne è un esempio la registrazione fatta da quell’autentico eletto del pianismo lisztiano che è l’ucraino Boris Bloch, il quale nella prima di una serie di incisioni dedicate al compositore magiaro da parte dell’etichetta tedesca Ars Produktion ha interpretato al di là dei Grandes Études de Paganini, S. 141, la Sarabande und Chaconne aus dem Singspiel “Almira” von Georg Friedrich Händel, S. 181, la Tarantelle de Dargomizskij, S. 483 e la Fantasie über zwei Motive aus W. A. Mozart “Die Hochzeit des Figaro”, nella versione curata da Ferruccio Busoni nel 1912, ossia tre pezzi che sfuggono spesso e volentieri all’attenzione degli artisti e, conseguentemente, della critica.

La chiave di volta per comprendere questo tipo di programma è data dagli Studi di Paganini, che rappresentano un’autentica svolta nel processo estetico e compositivo di Liszt. Una svolta che avvenne nel 1831, quando il compositore ungherese assistette a Parigi a un concerto di Nicolò Paganini, l’“infernale violinista”, com’era definito dalla critica e dal pubblico del tempo, restando profondamente colpito dalla virtuosità interpretativa dell’artista genovese, una virtuosità che non era mai stata esibita da nessun artista fino a quel momento e non solo in termini violinistici. In possesso di una tecnica pianistica sbalorditiva, Liszt decise di emulare il violinismo paganiniano, trasponendolo sulla tastiera del pianoforte, facendo tabula rasa di quanto acquisito fino a quel momento e ricostruendo di fatto un nuovo modo di intendere e concepire il pianismo, anche ricorrendo allo strumento della trascrizione, come fece, per l’appunto, con questi Sei studi paganiniani, cinque elaborati su altrettanti Capricci e l’ultimo sul Rondò La campanella, pubblicandoli nel 1837, anche se poi quattordici anni dopo li ripubblicò, dopo averli profondamente modificati.

Per capire l’importanza del lascito interpretativo di Paganini in Liszt bisogna chiarire, onde evitare possibili equivoci, il concetto di “trascrizione” nel compositore ungherese, che differisce totalmente dall’interpretazione e dall’utilizzo fatto, per esempio, da Brahms. Se quest’ultimo utilizza la trascrizione per dare vita al processo della variazione, lo fa operando una mutazione della forma che resta perennemente accertabile e identificabile nel corso del procedimento “trascrizione/variazione” grazie a un sistematico utilizzo di cellule armoniche che, disseminate nel costrutto compositivo, tracciano una precisa linea, un sotterraneo ma palpabile sentiero dal quale Brahms non deborda, costituendo fondamentalmente quel processo di scrittura di cui si avvarranno in seguito musicisti del Novecento, a cominciare da Schönberg. In Liszt, in realtà, il concetto di “trascrizione” è assimilabile a quello di “trasfigurazione”, ossia basato su un procedimento in cui, partendo da un tema (come avviene d’altronde nelle sue parafrasi operistiche), la struttura compositiva si evolve, muta, si dilata o si restringe, modificando recisamente il DNA armonico del tema stesso, il quale viene considerato alla stregua di un incipit attraverso il quale Liszt intende affermare e stabilire musicalmente altro. E anche questo, fino a prova contraria, appartiene a un contesto evolutivo sul quale farà pieno affidamento la musica pianistica del primissimo Novecento (si pensi al concetto di “trasfigurazione” presente in Skrjabin, inteso come cellula simbolica che trasfigura, che cessa di essere tale per diventare altro come avviene nelle sue ultime Sonate). E qui tornano profetiche le parole che Schumann spese nel 1842 per Liszt, dopo aver ascoltato proprio i suoi Studi paganiniani: «Non si può parlare di un puro riempimento armonico della parte di violino: il pianoforte agisce con altri mezzi che non il violino. Produrre effetti analoghi, non importa in qual modo, era il compito essenziale del trascrittore. Come Liszt conosca i mezzi e gli effetti del suo strumento ben sa chiunque l’abbia udito». Il punto è proprio questo: “trascrivere” per Liszt non è semplicemente riempire armonicamente il vuoto dato dallo strumento originario da riversare sulla tastiera pianistica, ma dare vita ad altra materia, mantenendo a un livello di drammatica intensità la linea virtuosistica (il legame, il collante che lo lega al pubblico adorante del tempo), e facendo in modo che gli addetti ai lavori, i colleghi e il mondo musicale del tempo potessero comprendere come il suo pianismo era ormai andato ben oltre la dimensione creativa altrui dalla quale era partito. Non per nulla, in quello stesso scritto su Liszt, Schumann afferma: «Pare che Liszt abbia voluto riversare nell’opera tutte le sue esperienze e lasciare ai posteri i segreti del suo modo di suonare… Paganini con la sua bella e breve dedica Agli artisti, ha voluto significare che l’opera sua era accessibile solamente agli artisti. Lo stesso è per la ricreazione pianistica di Liszt». È affascinante ed emozionante immaginare, dunque, come Liszt nelle sue trascrizioni e parafrasi abbia voluto indicare a chi conosceva il linguaggio musicale una sorta di “codice cifrato” attraverso il quale comprendere al meglio, nella sua essenzialità, il suo pianismo e la sua estetica musicale.

Sulla base di questa accezione si pongono quindi le tre opere che Boris Bloch ha voluto inserire nella sua registrazione, oltre agli Studi paganiniani, con la Sarabanda e la Ciaccona tratte da Almira di Händel, la Tarantella, una trascrizione della Tarantella slava di Aleksandr Sergeevic Dargomizskij (entrambe le opere appartengono alla piena maturità di Liszt, visto che risalgono al 1879) e soprattutto la Fantasia sui due motivi dalle Nozze di Figaro mozartiane nella versione di Busoni e composta da Liszt nel 1842 (per l’esattezza attingendo da due delle arie più celebri: “Non più andrai”, dal primo atto e “Voi che sapete” dal secondo atto), che rappresentano un’esemplare introduzione e lezione su come Liszt lavori e raffiguri il suo concetto di trascrizione. Opere nelle quali la “trasfigurazione” permea una trascinante visione che punta alla trascendenza (anche questo è un concetto cardine e che investe non solo il pianismo ma tutta la musica lisztiana) e che trova nell’interpretazione di Bloch la sua ideale linea guida.

Non dimentichiamo che Bloch (vincitore, tra l’altro, del Concorso Busoni nel 1978) è stato al Conservatorio di Mosca allievo di Dmitrij Baschkirov, il quale a sua volta era stato allievo di Alexander Goldenweiser, che aveva studiato in gioventù con il pianista tedesco Paul Pabst, uno degli allievi di Liszt durante il secondo periodo weimariano, come a dire che il pianista di Odessa è un testimone privilegiato nell’intendere e concepire la musica lisztiana in terra russa. Ed è indubbio, ascoltando i lavori presenti sul disco che il pianismo di Boris Bloch trovi in queste opere il terreno d’elezione, la capacità e la volontà di esprimere compiutamente quel concetto di “trasfigurazione” di cui è già detto, evidenziando come raramente si può ascoltare quella linea di “codice cifrato” di cui è intrisa l’opera pianistica di Liszt. Se si può fare un paragone in termini pittorici, Boris Bloch non suona “a olio”, ma “ad affresco”, nel senso che il suo approccio alla tastiera è dato da un tocco rapidissimo, ma allo stesso tempo incisivo, una peculiarità che non si riscontra facilmente persino tra i grandi pianisti, ossia riuscendo a imprimere una pressione sui tasti che fa risaltare un timbro deciso, a tutto tondo, intriso di sfumature, pur lasciando le dita sui tasti un tempo inferiore, capace di “scappare”, di rilasciare a una velocità maggiore. Ciò gli permette di creare un tappeto ritmico che ha del prodigioso in un passaggio degli Studi paganiniani (Arpeggio in mi maggiore), del quale non si perde nulla, anche se condotto a una velocità che è oltremodo raro ascoltare. E questa proprietà di suonare “ad affresco” è come la tecnica pittorica e impone il saper esprimere un suono che, sebbene temporalmente venga in un certo senso accennato proprio per via della velocità di esecuzione, dev’essere necessariamente precisa, con la giusta densità dei colori e delle sfumature, senza trascurare quelle venature psicologiche di cui abbondano le tessiture lisztiane (si ascolti, sempre negli Studi di Paganini, l’Andantino capriccioso in mi bemolle maggiore e, soprattutto, la celeberrima Campanella, nella quale Bloch ricrea scene che appartengono di diritto ai canovacci improvvisati della commedia dell’arte).

E qui arriviamo a un’altra delle peculiarità del pianismo dell’artista di Odessa, capace di coniugarsi alla perfezione con la musica di Liszt, ossia la capacità di “teatralizzare” quanto espresso dal pianoforte, come ha saputo fare la grande scuola russa del passato, Horowitz su tutti, in cui la tastiera del pianoforte si esprime con un sentore quasi “metamusicale”, giocando mirabilmente sul rubato, sui vuoti e sui pieni, su un uso strabiliante dell’agogica (si ascolti sempre La Campanella!) capace di trasmutare (leggasi trasfigurare) brani apparentemente senza spessore e profondità (la Tarantella di Dargomizskij). Ma “teatralizzare”, si badi bene, non significa “enfatizzare”, ossia aggiungere qualcosa che non c’è, vuol dire semplicemente fare affiorare, saper attingere dal pentagramma ciò che solo l’artista, l’interprete, il veggente (la musica di Liszt è un atto di geniale veggenza) sanno fare. Ecco, in ciò Boris Bloch riesce a “teatralizzare” le opere qui registrate di Liszt (esecuzioni, tra l’altro, tutte fatte da concerti dal vivo), entrando di fatto in quel pathos che è quantomeno necessario e indispensabile quando si affronta un autore come il compositore magiaro (e, in chiave russa, Skrjabin). Esaltante.

La presa del suono, effettuata da quattro diversi concerti live, è abbastanza buona, anche se la dinamica è molto secca (non vi è riverbero), con il risultato che rende il timbro del pianoforte poco gradevolmente “metallico”, soprattutto sul registro acuto. La riproposizione spaziale è buona, ma la “secchezza” del suono provoca di conseguenza una mancanza di precisione nell’equilibrio tonale e nel dettaglio.

Andrea Bedetti

 

Franz Liszt – Piano Works 1

Boris Bloch (pianoforte)

CD Ars Produktion ARS 38 501

Giudizio artistico 5/5

Giudizio tecnico 3/5