È sufficiente (e istruttivo), andando a consultare il Dizionario della lingua italiana di Salvatore Battaglia, comprendere come il lemma “archetipo” significhi sia “prima forma, modello, esemplare”, sia, in senso figurato, “antenato, avo”. Questa duplice applicazione semantica, che unisce il significato d’origine etimologica e quello d’impianto figurativo, appare essere la cifra comune sulla quale la pianista, compositrice e scrittrice Maria Gabriella Mariani ha voluto imbastire e sviluppare, negli ultimi anni, la sua attività interpretativa e creativa. Non solo, poiché in questo processo di riflessione e di conseguente elaborazione artistica, la pianista napoletana ha voluto aggiungere, a livello di stratificazione speculativa, anche il concetto della memoria, così fondamentale in lei, sia per una questione di sensibilità e di rimandi soggettivi, sia per l’importanza che tale meccanismo ha nell’ambito della ri-proposizione in chiave letteraria e musicale.
Allo stesso tempo, è interessante notare come Maria Gabriella Mariani manifesti, di volta in volta, tale processo di stratificazione creativa andando a sondare e a solleticare un atto che è contemporaneamente modellato su un afflato che è interpretazione/composizione/scrittura, offrendo così molto, moltissimo, a chi affronta tale opera stratificata, ma allo stesso tempo chiedendo altrettanto molto a chi intenda prestare attenzione al suo fare. Un do ut des a dir poco necessario, ineludibile, una moneta sonante che si deve pagare per avere in cambio un biglietto di sola andata, grazie al quale si ha diritto ad affrontare un viaggio con destinazione l’intimità personale e creativa della sua autrice. Questo viaggio di sola andata si è rafforzato, nel corso del tempo, attraverso un progetto discografico, realizzato in collaborazione con l’etichetta Da Vinci Classics, in cui l’artista partenopea ha voluto spalmare tale atto stratificante finora in un trittico formato dai dischi Fairy Tales, Visions e Il mito e la memoria(quest’ultimo recentissimo e al centro di codesta analisi). In questo trittico, oltre alla Mariani compositrice, vi è dunque anche la Mariani interprete/“decodificatrice”, la quale prende a modello (l’archetipo derivato), determinati compositori, Robert Schumann e Claude Debussy in Fairy Tales, ancora Debussy, Francis Poulenc e Sergej Prokof’ev in Visions, Johannes Brahms e Maurice Ravel ne Il mito e la memoria. Questi archetipi derivati divengono strumenti privilegiati di raffronto per poter dare atto allo scopo ultimo dell’artista napoletana, ossia la realizzazione di un preciso processo epifanico, in cui si materializza l’archetipo primario; così, in Fairy Tales si enuclea il fascino del racconto, della favola, nel senso nobile ed “ellenico” del termine, in Visions, la forza dell’immagine capace di fissarsi sul suono, prendendo a prestito l’influenza del paesaggio mediterraneo e, infine, lo straziante impatto che il ricordo ha sull’uomo, il quale si rifugia tra le solide mura del mito, come appunto accade ne Il mito e la memoria.
Certo, vi è sempre un rischio, almeno per me, ma evidentemente non per l’autrice, di cadere nella trappola del didascalico o, peggio, del programmatico(uno dei tanti virus apportati dal romanticismo musicale, tali da provocare attacchi di itterizia a Hanslick e alla successiva e agguerrita pattuglia di formalisti), visto che, in occasione della pubblicazione di questi dischi, la Mariani ha parallelamente pubblicato o reso noti dei libri narrativi e dei racconti inerenti al contesto e che andavano ulteriormente a ispessire l’opera di stratificazione in atto.
Quindi, anche l’ultimo tassello di questo trittico, nel nome della memoria e del mito, non si discosta da questo procedimento di “programmazione soggettiva”, nel quale l’Io dell’artista va a stimolare l’Io collettivo degli ascoltatori e dei possibili e conseguenti lettori, anche se, a onor del vero, la stessa Mariani non considera indispensabile la lettura della sua produzione narrativa inerente, per delineare meglio la realizzazione stratificante del suo procedere artistico. Nel caso specifico di quest’ultimo progetto discografico, il collante che ha il compito di cementare gli strati della memoria e del mito viene da un significato che è anche significante nel momento stesso in cui affiora a livello musicale, ossia il genere del valzer, da intendersi sia a livello interpretativo/compositivo, fornito dalla lettura dei Walzer op. 16 brahmsiani e dei Valses nobles et sentimentales raveliani, oltre che dal Nené Waltz della Mariani, risalente al 2021, sia come elemento storico-sociologico, emblema di un’epoca, soprattutto nel bacino mitteleuropeo, destinata all’irradiante dimensione di un irreversibile crepuscolo, sul quale scrittori e poeti hanno versato tonnellate di aureo inchiostro. Infine, come i bignè che vanno ad arricchire una sontuosa Saint-Honoré, e non c’è da scomodare in tal senso il “vate dei dolci” Iginio Massari, il concetto del mito(logico) e quello della memoria confluiscono nella Mariani compositrice in una pagina pianistica da lei scritta nel 2022, i Pezzi sinfonici, dedicati alla figura delle Aloniadi, delle Driadi e delle Oreadi.
L’archetipo del mito, per l’artista napoletana, tende sempre a incontrarsi e a scontrarsi con quello del ricordo, diviene elemento di dolore e allo stesso tempo di balsamo nei confronti di quest’ultimo. Dipende dalle angolazioni con le quali ognuno di noi affronta le proprie rimembranze e le mette a disposizione dell’altare del principio mitizzante con cui rivestiamo le cose delle quali siamo investiti nella nostra quotidianità. Inoltre, c’è anche un altro aspetto da considerare: ogni artista che ha la necessità di creare, manifestare, interpretare, in fondo all’anima rimane sempre solo con se stesso, e Maria Gabriella Mariani non rappresenta di certo un’eccezione di fronte a questa legge esistenziale. A mio avviso, se l’artista in questione ha voluto imbastire questo incontro/scontro tra mito e ricordo attraverso il concetto/genere del valzer è perché si è resa conto che il suo dovere di rappresentarlo musicalmente è come se lo danzasse da sola; questa solitudine si evince dall’impellenza con la quale ha voluto dare vita a una pagina come il Nené Waltz, la cui formulazione sonora è per l’appunto focalizzata ulteriormente da una pagina scritta, ossia il racconto Le rondini tornano sempre in primavera, la cui trama si fa spazio nel tempo e nello spazio mediante un ricordo personale che va a incastrarsi nelle dinamiche del mito, il cui compito è di fornire la dimensione di un’assenza, quella di una lontanissima parente, Antonietta Colantuono, figlia del bisnonno della Mariani, Domenico, dapprima apprezzato tenore e poi, nella maturità, notaio in terra molisana. Il ricordo di Antonietta si materializza nella sua assenza nel momento stesso in cui l’artista napoletana compie un viaggio in Molise, ritornando alle sue origini. Il viaggio, la permanenza, l’immedesimazione, portano al sorgere di un binomio conflittuale, quello di un’assenza evocata che dev’essere riempita, per essere percepita meglio. L’uomo comune, di fronte a ciò, si limita a respingere la mareggiata invadente del mito attraverso il ricordo, l’artista, invece, non si accontenta di ciò, poiché il bacino che ospita l’assenza è molto più vasto e solo l’atto creativo può aiutare a colmare tale vuoto. Così, nel caso specifico, Maria Gabriella Mariani se acquieta il ricordo nel nome di Antonietta con il Nené Waltz, non può fare a meno di soddisfare anche l’impatto incalzante del mito nel quale il ricordo si dibatte, costringendo le divinità naturali dei boschi, dei dirupi e delle valli a prendere parte a questo processo di affioramento, per il semplice fatto che il ricordo senza la presenza del mito rappresenta un’assenza che non può essere colmata neppure parzialmente dall’apporto della memoria.
L’artista napoletana, dunque, danza da sola e si siede al pianoforte per dare forma al ricordo/memoria, attingendo dal bacino di un simbolo collettivo, chiave e rappresentazione di un’epoca, il valzer. E lo fa con l’aiuto di Brahms e di Ravel, ossia il valzer di prima e il valzer di dopo: il prima è incarnato da Brahms che, attraverso questo genere, è destinato a incarnare non l’Austria felix (questa immagine lasciamola volentieri alla dinastia degli Strauss), ma a quella più pregnante di quella che è stata magnificamente e implacabilmente definita la “gaia apocalisse”, l’Europa mitteleuropea che, a ritmo del zum-pa-pa–zum-pa-pa, permette a Joseph Roth e a Stefan Zweig di passare il testimone a Egon Schiele e a Georg Trakl, come a dire l’immagine di nostalgici profumi e bouquets di rose che lasciano posto agli alberi scheletrici della Prima guerra mondiale, che ospitano solo corvi gracchianti. E il dopo di Ravel, che se ancora precede storicamente il mattatoio delle trincee (la versione per pianoforte è del 1911), quantomeno fa da zerbino sul quale la belle époque si pulisce educatamente le scarpe prima di entrare negli arsenali e caricare le armi destinate allo sterminio.
Perché Maria Gabriella Mariani sceglie l’op. 39 di Brahms? Perché proprio questi valzer così poco “valzeranti”? Al di là del fatto che la loro struttura non si basa propriamente sul genere valzer, ma su quello tipico del Ländler, quindi infarcito di connotazioni popolari, perpetuazione di un sentore tradizionale che evoca sia il mito, sia la memoria, sono propenso nel ritenere che scegliendo questi sedici brani l’artista napoletana abbia voluto cercare un’idea di innocenza, di malcelata purezza nelle quali rifugiarsi. Inoltre, la loro semplicità formale permette all’interprete di metterci molto di suo, senza per questo tradirne lo spirito e la partitura. E qui quello che la Mariani ci mette di suo è un velo di palpabile apprensione, di un nodo in gola che non riesce a sciogliersi, con un senso agogico che a volte diviene puntuto, declamato come se avesse voluto reprimere un singhiozzo che scaturisce da una nostalgia che sconfina inevitabilmente nell’amarezza di ciò che è stato e non è più. Ecco, per quale motivo l’artista napoletana li ha suonati immaginando di ballarli da sola, e la prova del nove risiede nel quindicesimo valzer, quello in la maggiore (è stupefacente e commovente come il sommo genio amburghese riesca a imbastire un tema così struggente da siffatta tonalità!), in cui il metro ritmico viene diluito, distillato, dall’artista napoletana, con il contagocce del cuore, mentre viene avviluppata dal dilaniarsi dei suoi ricordi, fissati, scolpiti in un paesaggio atavico dove si annidano i tentacoli del mito.
Allo stesso modo, per rimarcare l’effetto del dopo, Maria Gabriella Mariani schiaccia l’acceleratore per trasformare le intricanti angolosità (la definizione è di Debussy) dei Valses nobles et sentimentales raveliani in un pacato manifesto di alienazione sonora. Facile emettere tale giudizio ascoltando la pietra angolare di questa composizione, ossia il Moins vif, in cui l’interprete è condotto per mano per esprimere un suono che è cubismo allo stato liquido, ottenuto dalla linea della Valse che viene frantumata e riassemblata in una prospettiva allucinata. No, la pianista napoletana accelera, dunque, su questa visione nell’intera composizione, andando a calcare la dimensione disgregata che prefigura il mondo futuro di rovine, mettendo in luce il “lato oscuro” del ricordo, la sua anomalia selvaggia, quella che trasforma la nostalgia in una lama affilata e arroventata e che spinge, colui che ne è vittima, a invocare la dimenticanza, l’oblio del tempo, delle forme e, conseguentemente, dell’azione provocata dal mito.
Infine, la Mariani che compone. Se nella lettura di Brahms e di Ravel, l’artista napoletana era scesa a fronteggiare in campo aperto l’hostis rappresentato dal mito, nella veste di compositrice viene invitata a sotterrare l’ascia e a fumare il calumet della pace grazie all’intervento di un pacificatore, vale a dire la natura, supremo elemento dialogatore tra soggetto e oggetto. E ciò avviene nel trittico dei Pezzi sinfonici. Appoggiandosi, naturalmente, sulla radiosa forbice del linguaggio tonale, l’autrice attinge dalla grande lezione del passato per plasmare la sua ansia creativa porgendo la guancia e il fianco alle rotondità della contemplazione. Per lei la natura ha un grandioso merito, quello di insegnare all’uomo ad osservare, a guardare nel modo corretto, a dividere e a ordinare ciò che prima era ingarbugliato, ad abbandonarsi al dono del riconsiderare le cose, a dirimerle e ad accettarle. Ecco perché, con le Aloniadi, le Driadi e le Oreadi, il confronto con il mito si rasserena e si trasforma nell’immortale lezione della mito[logia]; una trilogia che è anche tributo a ciò che è stata la lezione della tradizione musicale, poiché andando ad annusare con le orecchie appare evidente l’apporto distensivo dato dalla visione griegiana nel primo brano, così come il trionfalismo tastieristico indicato dalla magniloquenza spirituale lisztiana nel terzo brano, mentre quello centrale presenta delle connotazioni per le quali l’imprinting soprattutto raveliano passa attraverso un filtro Bonomelli.
Al contrario, il Nené Waltz è un atto di contrazione a livello temporale e interiore, un susseguirsi di slanci e ripiegamenti, una tentazione schizofrenica per cui la personalità della bambina Antonietta Colantuono s’impossessa gradualmente e inesorabilmente dell’Io della musicista, come se quest’ultima volesse restituirle quella vita alla quale la dodicenne Nené era stata strappata, assimilando la funzione del ricordo sotto la forma di una danza che diviene, alla fine, sempre più frenetica, pulsante, atto esorcizzante nei confronti della morte-mito, il tutto con una padronanza ammirevole della materia musicale, che viene plasmata con una sottile esaltazione fornita, a un attento ascolto, dal registro grave, come un limone che viene spremuto da molteplici carezze.
Complessivamente buona la presa del suono effettuata da Giovanni Caruso. La dinamica è energica quel tanto che basta per sfruttare al meglio le sollecitazioni timbriche in fatto di velocità e di naturalezza del pianoforte. Il parametro del palcoscenico sonoro ricostruisce lo strumento adeguatamente al centro dei diffusori e dotato da una discreta profondità, non pregiudicando un suono che si manifesta anche in altezza e in ampiezza. L’equilibrio tonale è corretto, anche se si avvertono, in presenza del registro sovracuto, dei leggerissimi sentori di metallicità. Infine, il dettaglio è piacevolmente materico e rende la fisicità del pianoforte.
Andrea Bedetti
AA.VV. – Il mito e la memoria [Mythos and Memories]
Maria Gabriella Mariani (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00833
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4/5