Quando penso a Claude Debussy e al suo fondamentale ruolo della nascita della musica nel senso moderno che intendiamo oggigiorno, mi piace ricordare un aneddoto raccontato dal grande musicologo francese naturalizzato canadese Jean-Jacques Nattiez, che ha dedicato diversi studi sull’arte dei suoni del Novecento. Alla fine di un concerto di musica contemporanea al quale aveva assistito, alcune signore di una certa età si avvicinarono a lui, comprensibilmente turbate da quanto avevano ascoltato, e con evidente imbarazzo gli chiesero come fosse stato possibile che i moderni compositori avessero ripudiato la melodia per dare vita a opere incomprensibili, disseminate di rumori e di suoni sgradevoli. Al che la risposta serafica e ironica di Nattiez fu la seguente: «Chiedetelo a Debussy. È sua la colpa».
Una sublime “colpa”, quella che riguarda la produzione debussyana, che può essere fissata, come sanno ormai anche i sassi, con la fine del periodo cosiddetto “impressionista” (anche se tale termine ha finito con il generare una serie di malintesi critici e interpretativi) e l’inizio di quel processo creativo che portò il compositore francese fino alle soglie di un geniale “astrattismo” attraverso la germinazione degli Études. La linea di demarcazione tra questo prima e il successivo dopo è dato dal primo libro dei Préludes, che risale al fecondo e straordinario biennio 1909-10, e dalla prosecuzione fornita dal secondo libro, sempre composto da dodici brani e risalente al 1910-13. In questi due libri si fissa ulteriormente, ulteriore processo dell’avvento del modernismo musicale, la scelta di Debussy di non rapportarsi più al binomio instaurato dal Romanticismo (si pensi all’uso che ne fa uno Schumann) titolo/immagine, e da lui proseguito nel corso del periodo “impressionista”, come fa in Estampes e in Images, ma rovesciandolo, ossia con i titoli dei brani che vengono collocati alla fine dei ventiquattro pezzi tra parentesi e preceduti da puntini, come a dire che l’immagine che scaturisce dal pianismo non dev’essere vincolata dal titolo che l’abbina.
Eppure, in alcuni dei Préludes il richiamo tra titolo e immagine resta ancora forte (si pensi, come giustamente afferma Piero Rattalino, al soffio leggero del vento in Le vent dans la plaine, ai passi sulla neve ghiacciata in Des pas sur la neige, alle chitarre in La sérénade interrompué, ai tamburi in «General Lavine»-eccentric, alle campane in La Cathédrale engloutie), ma non dobbiamo dimenticare, a tale proposito, come anche a livello interpretativo la musica pianistica di Debussy ponga un problema non indifferente: ossia se eseguirla pensando, immaginando, un “dipinto” oppure una “fotografia”, nel processo di decodificazione della partitura. Vale a dire utilizzare, esaltare la lettura imprimendo una dimensione superbamente sfumata, appoggiandosi sulle lussureggianti articolazioni armoniche capaci di tramutarsi in un fitto e dettagliato ordito (pensiamo alle celeberrime e annose interpretazioni di Arturo Benedetti Michelangeli o, prima di lui, a quelle di Walter Gieseking), oppure concentrare la decodificazione del segno mediante una messa a fuoco del suono più oggettivizzata, con un utilizzo più parcellizzato dei pedali, fissando l’attenzione sull’equilibrio generale di ogni Prélude. Sono due modi diversi di considerare e assimilare, due vere e proprie scuole di pensiero nella loro interpretazione e resa, tese a stimolare o meno la dimensione dell’immagine e, allo stesso tempo, a fornire una lettura più “impressionista” o maggiormente “modernista”.
Tale dicotomia esecutiva si è riaffacciata grazie a una registrazione dei due libri dei Préludes fatta per l’etichetta inglese ICSM Records dal pianista malese naturalizzato inglese Dennis Lee, la quale non può essere di certo annoverata nella sfera delle letture “impressioniste” e che tende, invece, ad essere più prossima a una concezione che aiuta a comprendere la visione della “nascita della musica moderna”, quella evocata dalla risposta data da Jean-Jacques Nattiez. In effetti, Lee affronta le due partiture mettendo da parte la tavolozza pittorica dei colori per affidarsi agli obiettivi di una macchina fotografica, dando vita a una concezione complessiva dei ventiquattro brani con una notevole sobrietà del gesto pianistico che va a toccare le corde dell’essenzialità. Un’essenzialità, e questo è un aspetto interessante, che viene alimentata da un andamento palesemente ritmico che sovente non è riscontrabile in molte altre registrazioni. Questa scelta va indubbiamente a rimarcare la decisione in Debussy di aggiungere i titoli ai preludi solo dopo la loro stesura musicale, rinnegando in un certo senso una possibile identificazione “letteraria” che viene invece emarginata, sminuita rispetto alla pura ispirazione data dal mondo dei suoni in sé, in quanto i suoni stessi non abbisognano più una specifica semanticità per poter essere identificati.
Quindi, chi si è abituato ad ascoltare i due libri dei Préludes attraverso la lente “pittorica”, quella che preme a sottolineare e a portare in superficie la magia compositiva debussyana (Goffredo Petrassi, che guardava con sospetto la musica del collega francese, ammetteva però che quando l’ascoltava, camminava poi per una settimana levitando nell’aria), potrà magari risultare spiazzato dalla lettura fatta da Dennis Lee, a cominciare dal primo preludio Danseuses de Delphe: se Gieseking nella sua leggendaria registrazione effettuata nel 1953 in studio confeziona alla perfezione una lettura “vaporosa”, eterea, destinata immaginare la processione danzante delle fanciulle greche, Benedetti Michelangeli tende a rapprendere maggiormente il suono (si tratta del brano più tonale del primo libro), a rafforzarne il timbro senza però mettere da parte la dimensione eterea, ma inglobandola in una struttura nella quale si può riconoscere il senso ritmico dato dai movimenti di danza; infine, Dennis Lee non vuole dare all’ascoltatore un’immagine diafana, ma si concentra sull’elemento squisitamente ritmico, con un timbro meno ricco, più sobrio, messo decisamente più a fuoco (l’impiego parco dei pedali si nota già da qui).
Questa sobrietà nell’artista malese risulta ancor più evidente nella rappresentazione di Voiles, basata sull’elaborazione di un fregio, di una melodia e dalla presenza continua di un rintocco dato dal registro grave; qui la resa è ancor più rappresa, non c’è la ricerca dei colori, delle sfumature, ma di linee che si stagliano e si intersecano tra di loro, una pura essenzialità che privilegia, per l’appunto, il suono in sé. Un suono che si fa ricerca, scavo, desiderio di profondità, evocata e raggiunta in Le vent dans la plaine, tutto giocato sul rapporto timbrico, quasi matematico nella sua costruzione, in cui ancora il respiro ritmico regge tutta l’arcata del Prélude in questione.
Un brano come Des pas sur la neige viene raffigurato da Gieseking come un’immagine spettrale, un glaciale miraggio in cui tutto si confonde, sia che la visione sia ravvicinata o allontanata da chi lo guarda, mentre al contrario Benedetti Michelangeli lo fissa con la sua proverbiale e ammirevole cristallinità, facendo calare su tutto il quadro una sottile patina di malinconica bellezza, un diafano estetismo che serve a immobilizzare l’immagine della neve immacolata “disturbata” dai passi umani (sotto le sue dita il brano sfiora i cinque minuti); invece, Dennis Lee, ancora una volta, sotto l’impulso ritmico del quale si avvale, condensa questo Prélude facendolo durare più di un minuto in meno (un’eternità!), scolpendo il progredire costante dell’ostinato che permea il brano: è un suono che rinnega l’orizzontalità di Gieseking e di Benedetti Michelangeli per farlo aderire idealmente a una verticalità che si perde nell’infinito.
Se poi bisogna considerare il gesto pianistico, la resa fisica dato dal tocco, un brano sintomatico è dato da La fille aux cheveux de lin, nel quale Benedetti Michelangeli e Dennis Lee si muovono su un’agogica che sta letteralmente agli antipodi, con il risultato che se il primo restituisce un’immagine che scava nei pensieri della fanciulla, nei suoi sogni, nei suoi desideri, aprendoci le porte della sua anima, il pianista malese risulta essere più “fisico”, più tattile, poiché si concentra e rende un suono più oggettivo, dando quasi l’impressione di non di considerare l’articolo determinato che indica quella fanciulla, ma oggettivandola nella sua indeterminatezza, scontornando una fanciulla alle prese con i suoi capelli, sempre mediante una sobrietà timbrica che non mira a fornirne gli sbalzi, ma rapprendendola in un’essenzialità materiale.
L’impatto timbrico e ritmico che Dennis Lee adotta nel primo Prélude del secondo libro, il rivoluzionario Brouillards, rifugge indubbiamente la dimensione del colore affascinante, come invece fa Benedetti Michelangeli, o il senso di indeterminatezza, di un’oggettività sfuggente delle cose immerse nella nebbia, come lo esprime Gieseking, concentrandosi invece sul concetto della sua volumetria, di come si può irradiare nello spazio, proiettandolo inevitabilmente nella sfera di quella modernità di cui Debussy si farà promotore. Allo stesso modo, il Prélude che segue, Feuilles mortes, viene affrontato dal pianista malese con un approccio “geometrico”, in quanto la nettezza degli attacchi, così fondamentali in questo brano, assume l’aspetto di precisi rapporti di forza timbrica, concentrata sul registro medio della tastiera. Questa nettezza degli scontorni e, inevitabilmente, nei contrasti sonori si acuisce nella celebre La Puerta del Vino, in cui il rapporto tra quanto esposto dalla mano sinistra con il reiterato ritmo di habanera dato dal registro basso e con una melodia ritmicamente variata, che Debussy riprende dal canto jondo andaluso, espresso dalla linea acuta della tastiera, assume delle spigolosità che tendono a far comprendere meglio l’incontro/scontro di questi due differenti concetti ritmico-espressivi (se ascoltate la versione di Gieseking, questa nettezza spigolosa manca totalmente, in quanto il pianista francese naturalizzato tedesco tende a sfumare maggiormente, ad arrotondare e a melodizzare l’unione dei due temi, mentre a Benedetti Michelangeli non interessa la modernità in sé del brano, ma lo risolve con un timbro vellutato agogicamente illanguidito e squisitamente sensuale, il che porta la sua versione a durare quasi un minuto in più).
Infine, un brano così evocativamente simbolista come Ondine dà un senso ulteriore alla chiave di lettura di Dennis Lee, il quale, giocando sulle arditezze armoniche di questo Prélude, lo scompone, lo decodifica, lo proietta in un impianto che, pittoricamente, lascia l’impressionismo per abbracciare una sorta di pre-cubismo (Gieseking, al contrario, gioca, letteralmente, sulle rifrazioni date dalle sonorità specchianti del brano, riportando l’ascoltatore al mondo musicale del primo Debussy, e con Benedetti Michelangeli che lo rapprende improvvisamente, puntando ancora su una dimensione di alterazioni agogiche, esaltandone la suadente bellezza timbrica).
A questo punto, resta solo un aspetto da affrontare, ossia se la registrazione effettuata da Dennis Lee, pregna di una decisa sobrietà oggettiva, di una spazialità musicale tesa a proiettarsi nel futuro e a preparare il terreno a un’ineluttabile sua modernità, sia indicata quale ascolto iniziale di questi capolavori pianistici. Ebbene, dipende se tale lettura voglia essere considerata, nella sua accezione, per così dire, “didattica”, come uno spartiacque storico non solo tra il primo Debussy (quello comodamente definito “impressionista”) e quello già proiettato verso i confini ultimi della sua concezione pianistico-musicale, ossia l’universo degli Études. Se così considerata, l’incisione del pianista malese può rappresentare davvero un ponte utile per comprendere meglio gli sviluppi della scrittura debussyana, lasciando poi modo all’ascoltatore, qualora non lo avesse ancora fatto, di affrontare, tanto per tornare agli esempi precedenti, le registrazioni di Gieseking e di Benedetti Michelangeli.
Da quanto ho potuto ascoltare, basandomi non solo sulla presa del suono di questa registrazione, l’etichetta ICSM Records, creata dal pianista bulgaro Ivo Varbanov e dalla collega (e consorte) pisana Fiammetta Tarli, pone (vivaddio) molta attenzione alla sua qualità tecnica (non per nulla, nelle note di accompagnamento vengono elencate sia le attrezzature utilizzate per catturare il suono, sia le meccaniche e gli apparecchi usati per l’ascolto). Nel caso specifico di questo disco, la presa del suono, effettuata da Tony Faulkner, permette di apprezzare al meglio le tipiche sonorità dello Steinway D utilizzato da Dennis Lee; qui, la presa digitale, fatta con l’ausilio di microfoni valvolari Neumann M250c e con un preamplificatore-DAC Audient, restituisce una dinamica in cui eccelle molto bene la naturalezza del suono, il quale è esente da indebiti artefici o colori che spesso e purtroppo accompagnano anche registrazioni qualitative. Tale naturalezza è accompagnata da una cospicua velocità, in modo che le mutazioni timbriche e la resa multistrato della lettura del pianista malese siano debitamente esaltate, e lo stesso vale per ciò che riguarda il campo della microdinamica, tenuto conto che le minime inflessioni, le sfumature (che non mancano sebbene Lee non le esasperi con la sua interpretazione) si possono percepire perfettamente, compreso l’uso della pedaliera. Inoltre, e qui entriamo in merito al palcoscenico sonoro, lo strumento, ricostruito idealmente al centro dei diffusori, non pecca in fatto di altezza e di ampiezza, dando così modo di apprezzare anche lo spazio fisico nel quale si viene a trovare, con lo Steinway D posto a una discreta profondità. Questo dato va a influire positivamente anche il parametro del dettaglio, in quanto il pianoforte è riccamente scontornato, sempre messo a fuoco a livello materico, anche grazie a una considerevole quantità di nero che lo circonda. Infine, l’equilibrio tonale non è da meno: i registri medio-acuti e medio-gravi sono sempre perfettamente riconoscibili e non tendono mai a sovrapporsi o, peggio, ad annullarsi reciprocamente, piacevolmente scontornati. Una presa del suono, quindi, che rientra pienamente nell’ambito di quelle audiofile.
Andrea Bedetti
Claude Debussy – Préludes, Livres I et II (Debussy piano works – volume 2)
Dennis Lee (pianoforte)
CD ICSM Records Omnia ICSM 015
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4,5/5