La sociologia della musica insegna che esistono diversi tipi di ascolto, da quello più disinteressato che relega l’arte dei suoni a puro e semplice sottofondo a quello più attento e compartecipe, definito con il termine di “ascolto attivo”. Ma ascoltare con attenzione, in modo propositivo, significa anche essere coinvolti non solo dal dato estetico di ciò che si sta ascoltando, agganciati alla bellezza e all’espressività che una data musica offre, ma anche dalla volontà e dalla necessità di capire ciò che si sta ascoltando. E capire un brano musicale, così come qualsiasi altra forma di espressione artistica, significa fondamentalmente avere la capacità di percepire storicamente quel dato brano musicale, fissandolo nella sua dimensione temporale, perché ascoltare musica in modo sistematico vuol dire principalmente ricreare idealmente la sua storicità all’interno di un processo storico, che è indissolubile dal suo procedere estetico.
Quindi, capire la musica è poterla ricostruire storicamente nella sua fase di ascolto, partendo dal suo autore, situandolo nella sua epoca e da qui collegare opera e compositore nel contesto nel quale hanno lasciato la loro traccia artistico-temporale. Un grande musicologo e storico della musica del passato, Giulio Confalonieri, ha scritto che bisognerebbe ascoltare la musica senza sapere nulla dell’autore che l’ha composta, ossia abbandonandosi esclusivamente alla dimensione sonora fine a se stessa, staccandola dalla sua storicità e dalla sua temporalità, per non essere influenzati da dati culturali e sociali che potrebbero inficiare un ascolto “puro”, “disinibito”, votato invece esclusivamente a una percezione del bello. Ma, sia ben chiaro, quella di Confalonieri è stata soltanto una provocazione tout court, in quanto il musicologo milanese fu ben conscio del fatto che la musica non può essere estrapolata dalla sua storicità, senza intaccarne il suo processo formativo, annullandole così la sua percezione temporale.
Ecco perché ascoltare non solo esteticamente, ma anche storicamente, la musica significa saper dare forma a un filo grazie al quale possiamo ricostruire quei passaggi, quei momenti focali nei quali il linguaggio dei suoni ha preso una precisa direzione, sviluppando in tal senso una sua dimensione con la quale noi abbiamo un rapporto di ascolto e dunque di conoscenza. Ascoltare musica, dunque, è penetrare nella storia dei suoni. Da qui si può comprendere come esistano delle registrazioni discografiche, così come dei concerti dal vivo, che possono aiutare l’ascoltatore a conoscere meglio la storia dei suoni, dischi ed interpretazioni live che rappresentano veri e propri tasselli che vanno ad arricchire il puzzle della conoscenza musicale, colmando lacune, focalizzando meglio un dato quadro epocale, facendo sì che grazie a un compositore si possa conoscerne e comprenderne più in profondità un altro, proprio in nome di quella storicità che corrisponde all’immagine di una catena formata da innumerevoli anelli.

La cover della registrazione di Giovanni De Cecco effettuata per la Da Vinci Classics.


Ebbene, l’ultima registrazione discografica, per la Da Vinci Classics, effettuata dal clavicembalista e pianista veneziano Giovanni De Cecco corrisponde perfettamente all’idea di un tassello che permette di conoscere meglio un’opera che, oltre ad essere straordinariamente rivelatrice del genio del suo autore, si pone storicamente quale pietra miliare attraverso la quale comprendere in maniera più netta e definita l’evoluzione di un determinato periodo musicale. Quest’opera è rappresentata dai Sei Concerti per il cembalo concertato WQ. 43 di Carl Philipp Emanuel Bach, il secondogenito del sommo Johann Sebastian Bach. Composti tra il 1770 e il 1771 ad Amburgo, ultimo approdo professionale ed esistenziale di C. P. E. Bach, morto nel 1788, questi concerti, dedicati al Duca Pietro di Curlandia, furono originariamente concepiti per tastiera (l’esatta denominazione è für Clavier, quindi per tastiera in senso generico), due flauti, due corni e archi, anche se fin da subito furono concepiti ed eseguiti anche solo con uno strumento tastiera, in quanto per via della loro accessibilità tecnica vennero pensati dal Bach di Amburgo per un pubblico di buoni esecutori dilettanti.
Sia ben chiaro, quando parliamo di musica per dilettanti in ambito settecentesco non significa che abbiamo a che fare con opere facili, ma con pagine tecnicamente non ardue, ossia il cui virtuosismo non è trascendentale, al punto che amateurs di buona levatura potevano affrontarle senza snaturarle a livello tecnico. Il problema, semmai, come nel caso dei Sei Concerti QW. 43, risiede nel fatto che la loro difficoltà è insita in chiave espressiva, vale a dire nel saper donare loro una continuità formale senza mortificare quelle inflessioni, sfumature e quegli abbellimenti che, senza tradire quanto scritto sul pentagramma, andavano ad esaltare e a valorizzare il loro impianto armonico-melodico. Ed è qui, anche se questa non è la sede opportuna, che si può comprendere come nel corso della seconda metà del XVIII secolo prenda sempre più corpo la discriminante tra il concetto dell’esecuzione tout court e quello dell’interpretazione, che esploderà poi con il fiorire del Romanticismo pianistico nella prima metà dell’Ottocento.
Qui entra in gioco il tipo di interpretazione che ha voluto dare Giovanni De Cecco, il quale ha presentato questi Concerti con un clavicordo, uno strumento che apparentemente non sembrerebbe adatto a rendere al meglio la tessitura e l’eloquio espressivo di queste pagine, se non fosse per il fatto che lo strumento che appartiene all’artista veneziano è assai particolare, in quanto si tratta di una copia di un clavicordo Saxon costruito nel 2018 dall’artigiano belga Joris Potvlieghe, uno dei maggiori esperti a livello internazionale di questo tipo di strumenti a tastiera. La peculiarità di questo strumento è che storicamente, come ci ricorda Nikolaus Forkel, il primo biografo di Johann Sebastian Bach, fu la tastiera prediletta da parte del Kantor per via del suo timbro squisitamente “canoro”. Probabilmente, anche i figli di Johann Sebastian continuarono a prediligere il clavicordo Saxon, che negli esemplari costruiti da Joris Potvlieghe spiccano per la loro eccelsa sonorità, come quello che De Cecco ha utilizzato per questa registrazione, capaci di vantare un timbro che sembra anticipare quello del fortepiano, il che ci porta, ancora una volta storicamente, ad ampliare la forbice relativa a una serie di coinvolgimenti e di concatenazioni in ambito musicale.
La prima considerazione da fare è che Giovanni De Cecco ha voluto registrare questi concerti senza l’apporto di altri strumenti, come invece hanno fatto dapprima nel 1982 Bob van Asperen con la Melante Amsterdam per l’etichetta Erato e nel 2011 Andreas Staier con la Freiburger Barockorchester per la Harmonia Mundi, optando invece per lo stesso tipo di scelta fatto dalla pianista croata Ana-Marija Markovina nel 2013, artefice per la Hänssler Classics dell’integrale di tutta la musica tastieristica di C. P. E. Bach su pianoforte. Ad ogni modo, rispetto a tutti questi interpreti, la lettura dell’artista veneziano vanta una maggiore incisività e si contraddistingue per un ritmo che sfrutta pienamente la “cantabilità” dello strumento (il registro acuto, oltre ad essere energico, contrariamente al tipo usuale di timbro che un clavicordo esprime, rotondo, dolcemente melodico, mentre il registro grave riesce a livello tonale ad essere perfettamente equilibrato con quello acuto, permettendo un tipo di fraseggio che risulta essere più dinamico rispetto alla tipologia classica di questo strumento a tastiera). Ecco, proprio questo senso ritmico, unitamente al senso cantabile reso dal clavicordo Saxon, riesce a trasmettere la dimensione “danzante” di queste composizioni nei tempi veloci (tutti i Concerti sono modellati su tre tempi, tranne il quarto in do minore che vanta quattro tempi, nell’alternanza Allegro-Adagio-Allegro), mentre in quelli lenti si avverte una percezione del “racconto”, segno di un’epoca che sta mutando l’approccio con il mondo dei suoni, in cui l’espressività non è più fine a se stessa, ma propone qualcosa di nuovo, un filo che si dipana per dare una forma, una sostanza temporale e non più solo spaziale (ormai il Romanticismo è alle porte).

La riproduzione del clavicordo Saxon costruita nel 2018 dall’artigiano belga Joris Potvlieghe.


È come se Giovanni De Cecco avesse voluto, con questa “ritmicità espressiva” effettuare un raccordo, inserire il fatidico tassello nel puzzle della storicità musicale, offrendoci una chiave di volta per comprendere come questi Concerti WQ. 43 anticipino l’irruzione del giovane Beethoven e del suo rivoluzionario senso ritmico che è figlio, per l’appunto, di quanto seminato precedentemente dal secondogenito del Kantor, dalla sua capacità di saper manifestare l’espressione attraverso il ritmo, ossia plasmando una materia sonora che si basa su pochi elementi (i Sei Concerti per il Cembalo Concertato sono per bravi dilettanti, non dimentichiamolo) che vengono manipolati, modificati, alternati grazie a variazioni ritmiche che hanno anche lo scopo di “camuffare” la quasi cronica mancanza di un contrasto formale, com’è tipico nella produzione tastieristica di C. P. E. Bach. Una capacità che sarà poi ampliata e raffinata oltremodo proprio da Beethoven che fin dalle prime sonate pianistiche (storicamente i clavicordi Saxon furono impiegati fino sul finire del Settecento, ossia con il genio di Bonn ormai trentenne, il quale indubbiamente li conobbe e li provò) utilizza il ritmo per plasmare la materia sonora dispensata formalmente in modo parco e accorto. Senso ritmico che il “Bach di Amburgo” elabora anche attraverso l’uso della mano sinistra (il secondogenito del Kantor fu un mancino) che non usa solo come sostegno in quanto tale, ma che “collabora”, dialogando apertamente con la mano destra, quasi a fornire una valenza “orchestrale” data proprio dal senso concertato (da intendersi nell’accezione etimologica latina di “combattimento”, di “contrasto”) che viene reso esemplarmente in chiave timbrica.
Proprio per via di tali peculiarità, la lettura dell’artista veneziano assume dei connotati per i quali l’opera WQ. 43 non rappresenta solo una testimonianza dell’epoca, ma assume un’importanza “storica” proprio sulla base di quanto si è affermato all’inizio, ossia di una dimensione sonora che getta necessariamente un ponte sul futuro che lo lega alle tematiche del Classicismo viennese, il giovane Beethoven su tutti, che non nascose mai la sua ammirazione nei confronti del “Bach di Amburgo”. Va da sé che tale tipo di interpretazione e di lettura poteva essere resa solo su un meraviglioso strumento come può esserlo il clavicordo Saxon di Joris Potvlieghe. In breve, un’incisione imprescindibile.
Anche il dato tecnico è di ottima rilevanza (la presa del suono è stata effettuata da Gianluca Zanin presso lo Studio – Preganziol); la dinamica è ottimamente veloce, energica ed esente da perniciose enfasi, in modo che la ricostruzione del palcoscenico sonoro propone lo strumento a tastiera scolpito al centro dei diffusori, anche se leggermente ravvicinato (il clavicordo è a meno di tre metri dall’ascoltatore). L’equilibrio tonale, come si è già detto in ambito artistico, rispetta perfettamente il timbro di entrambi i registri, senza sfasature e imprecisioni timbriche, così come il dettaglio, egregiamente materico in modo da rendere appieno la fisicità del clavicordo Saxon.
Andrea Bedetti


Carl Philipp Emanuel Bach – Sei Concerti per il Cembalo Concertato WQ. 43
Giovanni De Cecco (clavicordo)
2CD Da Vinci Classics C00156

Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4/5