Il mondo accademico guarda sempre con occhio critico se non con aperto scetticismo coloro che fanno cultura in nome di un autodidattismo che non contempla studi e specializzazioni universitari. E questo tipo di atteggiamento riguarda talvolta anche artisti che hanno saputo affermarsi nel loro settore senza un’adeguata preparazione culturale alle spalle, ma ottenuta solo attraverso un percorso del tutto autonomo e personale.
Goffredo Petrassi appartiene a questa categoria di artisti per via di un’infanzia povera, vissuta prima a Zagarolo, sui Castelli Romani, dove nacque, e poi a Roma, costretto fin da ragazzo a lavori più o meno saltuari (prima di trovare un impiego fisso presso un negozio di testi e spartiti musicali che gli permise di studiare in una scuola serale) per aiutare economicamente la famiglia. Ma la mancanza di studi sistematici, l’impossibilità di avere una preparazione umanistica non gli impedì poi di potersi iscrivere al conservatorio di Santa Cecilia, dove tra l’altro fu allievo del grande organista Fernando Germani e di assurgere al ruolo di uno dei maggiori compositori del Ventesimo secolo e non solo nel panorama nazionale.
Questo “marchio” di autodidatta indubbiamente fa da filo rosso, visibile e invisibile, nel libro Autoritratto di Goffredo Petrassi che la scrittrice veneziana Carla Vasio, la “musa” del Gruppo ’63, scrisse e pubblicato nel 1991 da Laterza (e che ora è riedito da Mucchi editore con una nuova presentazione di Claudio Morandini), un testo che trasuda a tal punto passione e immedesimazione da trasformare l’autrice nel ruolo di ghost writer, malgré soi, visto che la personalità di Petrassi è così debordante, così autentica, così messa a nudo da far apparire come reale autore lo stesso compositore laziale.
Quando il libro fu pubblicato a Petrassi restavano ancora dodici anni di vita, ma la malattia agli occhi di cui soffriva da tempo lo aveva ormai reso praticamente cieco già durante la sua stesura, rendendogli impossibile la scrittura, la lettura (così fondamentale, visto che il musicista fu fin da bambino un lettore accanito) e la composizione, relegando la sua vita e i suoi interessi al puro ascolto di dischi e di nastri inviatigli da colleghi, studenti e compositori, desiderosi di avere un suo parere. Quindi, questo libro, in un certo senso, rappresenta la parola “fine”, il raggiungimento di un binario morto dal quale Petrassi non poteva fare altro che voltarsi e ricordare la sua vita. Ricordi che abbondano in questo volumetto che non raggiunge le duecento pagine, ma la cui densità è in grado di appagare pienamente il lettore appassionato di musica o il semplice curioso.
Ne viene fuori un (auto)ritratto a tutto tondo, essenziale, verace, che va dritto al sodo, tale da far capire la personalità, l’essere Goffredo Petrassi anche a chi non lo ha conosciuto se non attraverso le sue opere: un uomo schietto, modesto, ma fiero, il quale, oltre all’arte musicale, ebbe un altro grandissimo amore, quello per l’insegnamento (nel 1939 ottenne la cattedra di composizione al conservatorio di Santa Cecilia a Roma che lasciò nel 1960 per assumere la cattedra di perfezionamento in composizione all’Accademia nazionale di Santa Cecilia, tenuta fino al 1978, quando il compositore scelse egli stesso il suo successore nella figura di un altro grande musicista, Franco Donatoni).
E poi le considerazioni e i ricordi verso i suoi colleghi, da quelli più ammirati e stimati, come Alfredo Casella, a quelli da lui rispettati e di cui fu amico, ma con i quali ebbe anche degli screzi, come nel caso di Luigi Dallapiccola, il quale era solito affermare che era stato un antifascista fin dal primo momento e che si alterava quando Petrassi gli ricordava che il suo antifascismo, in realtà, si era manifestato solo all’indomani delle leggi razziali che erano andate a colpire sua moglie, di origine israelita. E poi i grandi compositori internazionali, conosciuti nel corso dei vari festival di musica contemporanea organizzati in vari Paesi europei, dove il musicista di Zagarolo entrò in contatto con geni del calibro di Béla Bartók, Aaron Copland, Witold Lutosławski. Così come la sua adorazione per la musica di Debussy e la sua più totale indifferenza per quella di Beethoven, oltre al tempo che gli occorse per comprendere appieno le opere di Šostakovič, che in un primo momento lo avevano profondamente irritato.
In fondo, questo autoritratto ci mostra un uomo, un artista che nella sua devozione nei confronti della musica è in continuo bilico tra l’incanto e il disincanto, dall’entusiasmo più genuino e fanciullesco al più lucido realismo verso composizioni e autori passati e coevi, senza peli sulla lingua.
Senza dimenticare la sua passione, come già accennato, per la letteratura e, soprattutto, per la pittura, della quale fu raffinato conoscitore e intelligente collezionista, grazie all’amicizia che lo legò ai grandi artisti dell’epoca, da Casorati (che, tra l’altro, era anche un ottimo pianista) a Morandi, un aspetto che, in un certo senso, lo avvicina, per interesse, curiosità e attinenze con la dimensione musicale, a un altro grande musicista del Novecento, l’americano Morton Feldman.
Ma l’affresco che viene fuori dalle parole di Petrassi, un “autoritratto” quasi scritto di getto, con episodi e ricordi che si rincorrono anche in modo acronologico, è soprattutto la ricostruzione di un’epoca irripetibile, contrassegnata da furori culturali e artistici, prima e dopo il secondo conflitto mondiale, in cui l’entusiasmo, la passione, il desiderio non solo di stupire ma anche di dire, raccontare, mostrare, illustrare si coagularono in artisti incredibilmente dotati e visionari, molti dei quali furono amici dello stesso compositore laziale. Da qui un libro che è anche testimonianza, ritratto di decenni culturali e artistici che videro Goffredo Petrassi tra i protagonisti assoluti, al crocevia di intrecci interdisciplinari, dove musica, letteratura e pittura furono magicamente legati da fili intrisi di curiosità e di ampiezza di vedute.
Andrea Bedetti
Carla Vasio – Autoritratto di Goffredo Petrassi
Mucchi Editore, 2017, pagg. 180