Inizio da un ricordo personale. Anni fa mi trovavo alla Fondazione Giacinto Scelsi di Roma e parlavo con una musicologa, specialista in musica contemporanea, una di quelle che vanno per la maggiore. Dopo averle fatto presente che mi occupavo di musica contemporanea, ma che i miei studi musicali avevano riguardato maggiormente la musica antica, la specialista mi interruppe sostenendo che quindi avevo fatto una scelta da «rinnegatore», al che le feci notare che in realtà avevo fatto una scelta da «continuatore». Tendenzialmente, diffido di coloro che, brandendo la spada affilata della contemporaneità, dimenticano che la estraggono sempre dal fodero dell’antichità. Anche se ormai lo sanno anche i sassi, continuo a ripetere che buona parte della musica colta attuale, perfino quella squisitamente sperimentale, nasce dalle propaggini e dalla lezione della musica antica, soprattutto quella che si basa sul linguaggio modale e che se non si conoscono le leggi che governano questo sistema armonico risulta essere alquanto ostico, se non impossibile, comprendere il risultato ottenuto nella sua trasformazione contemporanea.
Trasformazione, un termine che si adatta benissimo, sulla base di ciò che è stato appena accennato, alla musica di un giovane compositore italiano, il cuneese Gianluca Verlingieri (leggi qui la sua intervista), che da poco ha pubblicato per la casa discografica NEOS un disco dal titolo Musica ritrovata, il quale contiene nove composizioni cameristiche per diversi strumenti e formazioni. Un titolo, questo, che sintetizza idealmente il suo credo estetico, che nasce da un nucleo, da una germinazione elettronici e la cui veicolazione formale e strutturale si basa su principi algoritmici. Premetto, e chi mi legge lo sa già, che non mi considero un paladino della sperimentazione tout court, della concezione squisitamente analitica della musica odierna (quella, tanto per intenderci, nata dalle ceneri della Scuola di Darmstadt, la quale, come ogni contenitore che si rispetti, è stata in grado di formulare visioni illuminanti, così come di dare adito a puttanate inenarrabili), ma l’ascolto del disco di Verlingieri merita un’analisi più approfondita e anche maggiormente “stimata”.
Partiamo dal concetto del ritrovare, ossia del trovare nuovamente, che nella produzione discografica in oggetto si è snodato lungo tre lustri per ciò che riguarda le creazioni cameristiche del compositore piemontese. Tornando a quanto si è scritto sopra, anche Verlingieri ama impugnare la spada della contemporaneità, una spada dalla lama ben affilata, ma a differenza di molti non dimentica mai, anche quando la brandisce, che questa spada deve fare i conti con il fodero che la contiene, ossia le radici di un discorso sonoro che affondano in un passato ben più remoto. Verlingieri trova quindi nella musica dell’Umanesimo e del Rinascimento, quella che nasce e che viene costruita su rigide ma mirabili leggi compositive, un terreno a dir poco fertile, come già spiegato e divulgato da due grandi del Novecento, György Ligeti e Luciano Berio, i quali rappresentano, guarda caso, un punto ineludibile della sua concezione creativa. E il suo trovare, quindi il suo attingere, assume i contorni di un canone, il quale non è solo un possibile punto di partenza, un necessario rimandare verso qualcosa, ma un nucleo fondante sul quale (ri)costruire, un (ri)fondamento che viene attuato attraverso leggi altrettanto rigide, ma non per questo creativamente avvilenti.
Leggi matematiche, enunciate sulle premesse della musica elaborata elettronicamente ma, e qui individuo un lato decisamente affascinante della sua creatività, sgrezzate, sgrassate, ripulite da una freddezza che quasi sempre appesantisce la sfera sonora prodotta in tale modo. In fondo, il compositore cuneese, facendo ciò, non rinnega un classicismo, da non intendersi ovviamente come enunciazione di un “bel suono”, poiché il suo obiettivo non è di certo quello di propinare masse eufoniche, ma un procedere del creare, e qui sta la lezione di Berio, come studio-di-ciò-che-è-stato. Quindi, studiare, approfondire, sviscerare ciò che è stato dando vita a qualcosa di nuovo; e qui risiede il (ri) che ammanta le opere cameristiche presenti nel disco, facendo leva sul pre-esistente per dare modo a ciò che può essere esistente di esistere nell’esistenza che si forma via via nel suo processo creativo. Il risultato conseguito ha qualcosa di “magico”, poiché da quanto si può ascoltare nei brani presenti in Musica ritrovata il suono irradiato, fissato, formulato (matematicamente) nello spazio assume contorni straordinariamente sfumati, liquidi, volatili.
Immaginate una barra di legno o di ferro: nella sua concretezza, nel suo essere fisico, materico, ne distinguiamo sempre la sua rettilineatà, la sua fredda purezza geometrica data dai contorni precisi, che invitano a considerarla nella sua messa a fuoco; ma se la immergiamo nell’acqua, il suo essere rettilineo, “canonico” (nell’accezione etimologica greca), il suo esistere come barra svaniscono per assumere delle linee perennemente fluttuanti, indistinte, ondivaghe, materia in continuo divenire. Verlingieri pensa il suo modo di comporre non tenendo conto di ciò che c’è prima di Parmenide, ma solo quanto vi è dopo: pensa, dunque, a un essere destinato a diventare sempre un divenire, un trovare che spinge inesorabilmente ad essere un (ri)trovare. E l’acqua in cui fluttua la barra è il suo farsi musica, il suo spingerla per annullare la rettilineatà del freddo algoritmo per divenire suono gravido di nuances, di percezioni timbriche, di evanescenze che di matematico, geometrico, possono avere lo scheletro, ma non la muscolatura, né la nervatura.
In questa registrazione ad essere maggiormente chiamato in causa è stato il Trio Debussy, formato da Piergiorgio Rosso al violino, Francesca Gosio al violoncello e Antonio Valentino al pianoforte, che ha eseguito Schubert-Fragmente (2006-2007) e il brano conclusivo, Ghedini-Fragmente (2015); qui, il concetto di Fragmente è concepito sulla base di due dinamiche differenti: da una parte abbiamo il primo Trio composto da Verlingieri e strutturato in undici microludi, ciascuno ispirato e generato da frammenti e gesti musicali liberamente estrapolati dallo Scherzo dello schubertiano Quintetto per archi in do maggiore, D.956, dall’altra il Trio che l’autore cuneese ha appositamente scritto su commissione al momento di ricevere il Premio Ghedini istituito dalla sua città, dove nacque lo stesso compositore del Concerto per orchestra, il quale, negli anni dell’effervescenza ideologica deviante, divenne bersaglio di strali e di sarcasmi da parte del mondo musicale engagé italico, il Cassola, in chiave sonora, vituperato dalle cattiverie e dalle perfidie del Gruppo ’63, ma che poi storicamente ha trovato infine una sua collocazione riconosciuta perfino da coloro che dapprima lo avevano tacciato di «stanco tradizionalismo». Nella prima composizione il materiale di partenza viene reinterpretato attraverso una sistematica opera di scomposizione/ricomposizione, tale da renderlo irriconoscibile dal suo contesto originale, tenuto conto che il risultato timbrico di ogni segmento differisce dal linguaggio schubertiano (l’influenza di György Kurtág, data dal ricorso della microforma e dell’essenzialismo, è indubbia), anche se poi il musicista piemontese dissemina tracce, impronte, segnali di luce che rappresentano un chiaro richiamo dei passaggi creati dal compositore viennese. Nel Ghedini-Fragmente, invece, pur facendo affidamento sulla tecnica compositiva di analisi/(ri)sintesi, risulta essere meno rigido nell’elaborazione armonica e maggiormente agganciato all’impianto originale dei frammenti ghediniani utilizzati (a detta di Verlingieri tale scelta è data dal fatto che la musica del compositore cuneese è ancora sconosciuta, e non gli si può dare torto, «dall'immaginario collettivo del pubblico di musica classica»), al punto da dare vita a un vero e proprio tema con variazioni, con il primo che viene proiettato e plasmato in variazioni che rappresentano, in un certo senso, uno “specchio nello specchio”, progettate e riflesse in cui intervengono parametri musicali quali il timbro, il ritmo e perfino andamenti melodici.
Restando nel campo della formazione cameristica vi è poi Four Songs for a Mad Composer (2015), eseguito dal Quartetto Lyskamm (Cecilia Ziano e Clara Franziska Schötensack ai violini, Francesca Piccioni alla viola e Giorgio Casati al violoncello); si tratta di una composizione scritta nel 2015 per festeggiare l’ottantunesimo compleanno del musicista inglese Sir Peter Maxwell Davies ed è suddivisa in quattro brevi tempi, ognuno ispirato a elementi liberamente presi e reinterpretati dalla musica del compositore britannico. Il primo brano, dal titolo spiritosamente beatlesiano With a little help from Gesualdo, riassume la coincidente data del compleanno di Maxwell Davies (8 settembre) e quella della morte di Gesualdo da Venosa; ad unire simbolicamente un genetliaco e un necrologio ci pensano alcune misure di un brano corale scritto dallo stesso Verlingieri nel 2010, intitolato Lacrymae, attraverso il quale l’immagine generata dal titolo si traduce in un’elaborazione sonora, formulata con un attacco e la debita risonanza, la cui intenzione è quella di fissare tale momento, tra l’occasione festosa e la commemorazione, tra ciò che è ancora e ciò che invece è già stato, fissandone la forma e la sostanza delle due evocazioni attraverso il simbolo della lacrima che scorre sia nei momenti di gioia, sia in quelli dati dal dolore. Il secondo brano, Anthem “with sunrise” (d’après “God save the Queen”), rappresenta un’intelligente e stimolante boutade, attraverso la quale il compositore cuneese mostra come l’inno nazionale inglese possa essere eseguito con l’uso dello strumento nazionale scozzese, la cornamusa (il cui timbro viene imitato dagli archi), prendendo quale segmento di ispirazione un brano dello stesso Maxwell Davies, An Orkney Wedding with Sunrise. Segue Sarabande (d’après “Farewell to Stromness”), in cui lo sviluppo formale, il dispiegarsi della materia sonora prende avvio da un pezzo per pianoforte dello stesso Maxwell Davies, Farewell to Stromness, il quale aleggia in lontananza, quasi riflesso di un riflesso, nell’elaborazione di una struggente sarabanda. L’ultimo pezzo, Leghornpipe (d’après “Sailor’s Hornpipe”), è un’ulteriore dimostrazione di come Verlingieri riesca a manipolare la dimensione strutturale del suono partendo da un punto di avvio, rappresentato dalla materia da plasmare, per giungere a un risultato differente che però non annulla o rinnega l’inizio stesso. In questo caso, il brano in questione è la rielaborazione della melodia popolare The Sailor’s Hornpipe, che rappresenta anche una manipolazione lessicale, un calembour formato da hornpipe e Leghorn, come gli inglesi chiamano Livorno, città dove è stato presentato in prima assoluta il quartetto per archi in questione, oltre ad essere un luogo particolarmente amato dal compositore inglese.
Anche un particolare accostamento strumentale può rappresentare per Verlingieri un modo speculare per approntare la sua peculiarità compositiva; lo dimostra il brano Alchymiae - Ricercari on “Ave Maris Stella” (scritto nel 2009), per vibrafono (Simone Beneventi) e pianoforte (Emanuele Torquati). Anche in questo caso, partendo da frammenti melodici forniti dall’inno gregoriano Ave Maris Stella, il pezzo è formato da due Ricercari contemporanei, da intendere e considerare come una forma musicale “sperimentale” in chiave tardo rinascimentale. Questi due movimenti (il primo è un Moderato-Rhythmic, with swing, il secondo Calmo) danno luogo a una fusione (da qui il titolo “alchemico”) della materia sonora che scaturisce da due strumenti così dissimili come il vibrafono e il pianoforte. Ma il musicista cuneese, forte di un impianto dialettico, riesce a trovare un denominatore comune, un mezzo con il quale permettere una comunicazione tra i due, ossia le barre del vibrafono e le corde del pianoforte, con le debite risonanze che riescono rispettivamente a enunciare. Questa comunicazione è il frutto di continui artifici dati per l’appunto dal suono metallico fornito dalle corde pianistiche e dalle barre del vibrafono, a imitazione (da intendersi come procedimento alchemico) di quello dato dalle campane, quest’ultimo elemento di richiamo al concetto dell’inno gregoriano.
Le altre cinque opere presenti nella registrazione della NEOS riguardano invece strumenti solisti: si inizia con Élegos IV (2005/2017), per corno di bassetto solo, eseguito da Michele Marelli. Questa composizione rappresenta la quarta versione di un brano ispirato ma In Freundschaft di Karlheinz Stockhausen, un’opera che il musicista tedesco ideò nel 1977 per il clarinetto di Suzanne Stephens e che poi, “in amicizia”, come sottolinea il titolo tedesco, adattò per essere eseguito da altri interpreti con i loro strumenti solisti. Seguendo tale procedimento, Verlingieri ha scritto la versione originale di Élegos nel 2005 per flauto soprano, e in seguito ha adattato il brano dapprima per clarinetto basso (Élegos II) e poi per flauto contralto (Élegos III), fino al 2017, quando ha scritto per Michele Marelli la versione per corno di bassetto. In greco, Ἔλεγος significa “canto di dolore con accompagnamento di flauto” e l’opera trae spunto da un episodio mitologico, narrato in una Pizia da Pindaro, riguardante la Medusa, l’unica creatura mortale tra le tre sorelle Gorgoni, decapitata da Perseo, che riuscì a non essere tramutato in pietra guardando solo il riflesso di Medusa in uno scudo fornitogli dalla dea Atena. E la stessa dea, ascoltando il canto funebre delle Gorgoni superstiti per la morte della sorella Medusa, volle fissare quel lamento nel suono del flauto. Proprio partendo dal concetto di riflesso dato dallo scudo di Perseo, Verlingieri ha strutturato questo brano basandosi su una dialettica tra concetti opposti. Opposti che si realizzano sul materiale mitologico/armonico dato, per ciò che riguarda l’impianto sonoro, dall’inversione degli intervalli e dalla direzione opposta delle scale, dalla dinamica e dal timbro.
Personalmente, considero geniale il brano Shift per sola fisarmonica, scritto nel 2008 e qui eseguito dal giovane moldavo Ghenadie Rotari, in quanto riassume idealmente la concezione estetico/compositiva di Gianluca Verlingieri; data da un concetto Doppelgänger presente nell’essere singolo. Lo stesso autore cuneese ne ha spiegato il significato prendendo a modello l’Affektenlehre modellata sugli opposti gioia/dolore, sulla simbologia delle maschere indossate dai clown, come Bianco e Augusto (figure amate da Federico Fellini), la cui duplice funzione di intervento e di manipolazione di fatti e parole porta inevitabilmente a una ri-conciliazione del dato finale. E lo stesso avviene in questo brano, incentrato su una riflessione speculativa sulle strutture armoniche simmetriche generate dalla sovrapposizione di triadi maggiori e minori. Ciò dà vita a un’ambiguità armonica e a un illusionismo timbrico che scaturisce da transizioni, filtri, risonanze, maschere (come quelle dei clown) e spazializzazioni, che sono resi possibili dalla presenza dei due manuali dello strumento. Questo fenomeno di spazializzazione si realizza compiutamente fin dai primi trenta secondi della composizione, quando la fisarmonica attua la sua presenza fisica nello spazio circostante con il suo muto respiro, appropriandosi di esso.
IronicOnirico (2010), è un brano per trombone aumentato (qui nella versione senza elettronica), un “dramma sonoro” suddiviso in due tempi, l’Andante e il Vivo, interpretato da Michele Lomuto; un pezzo, questo, che si ispira a La distanza della luna, il primo racconto delle Cosmicomiche di Italo Calvino. Anche in questo caso, quindi, il lavoro di pre-esistente nasce da elementi extra-musicali e la cui musicalità è farcita da fonemi che l’esecutore distilla nel corso della composizione, fonemi che vengono enunciati anche nello strumento stesso e che hanno il compito di elargire squarci simbolici del testo surreale calviniano, condensati nello stesso titolo, ossia il lato onirico e quello ironico, scanditi dalle fasi lunari.
Labirinti della memoria, libro I (2004-05), per pianoforte è una raccolta di brevi studi “compositivi” per pianoforte, capace di evocare significati a diversi livelli, partendo proprio dal titolo che può fornire, a detta dell’autore, il materiale significativo della composizione stessa. Qui, il nucleo semantico/compositivo è dato dal concetto della memoria, da intendere come coagulo della sfera collettiva e di quella individuale dello stesso Verlingieri. Memoria come mélange, dunque, labirinto tra ciò che abbiamo in noi e ciò che possiamo condividere, luogo metafisico nel quale sperdersi per via dei molteplici sentieri da poter intraprendere, sentieri che qui vengono raggrumati in quattro segmenti discorsivi/evocati dati dal pianoforte di Gianluca Cascioli, che ha anche effettuato la presa del suono nel suo studio di registrazione personale.
Infine, un rimando “classico”, quello dato da Vintage (2019), passacaglia per organo barocco, nell’interpretazione del virtuoso magiaro Bálint Karosi all’organo; un brano decisamente affascinante, che prende le mosse, ancora una volta, da un ricorso della memoria personale di Verlingieri. Ancora studente, l’autore cuneese rimase colpito da un episodio storico, quello che vide protagonista Bach quando decise di andare a piedi da Arnstadt a Lubecca, un tragitto di ben quattrocento chilometri, per ascoltare le improvvisazioni all’organo di Dietrich Buxtehude. Un episodio che poi, al momento di scrivere un brano organistico su commissione, è riaffiorato per radicarsi compiutamente attraverso il solito processo compositivo di analisi e (ri)sintesi. Questo processo, come ha spiegato lo stesso autore, applica una tecnica compositiva di materiali tratti da diverse fonti temporali, geografiche e culturali a una serie di accorgimenti stilistici estrapolati da alcune passacaglia di Buxtehude e di Bach che lo avevano colpito, combinando con essi le note presenti in BACH, oltre a riferimenti a opere per clavicembalo scritte da György Ligeti.
Che cosa si può evincere dal repertorio cameristico di Gianluca Verlingieri presentato in questo disco? Che la sua tecnica compositiva, pur partendo da istanze elettroniche, da strutture algoritmiche, porta a un risultato che esula da ogni risvolto puramente “matematico”; il suo mondo sonoro è logico, strutturato, architettonicamente equilibrato, ma anche straordinariamente leggero, volatile, capace di manifestare un’essenza che oserei definire “antigravitazionale”. Ciò permette un indubbio coinvolgimento di ascolto, di partecipazione emotiva (e ciò è dato anche dalla convincente lettura fatta da tutti gli interpreti chiamati in causa). Questo dimostra che l’intellettualismo che il compositore cuneese utilizza per dare vita al suo mondo sonoro non è chiuso in se stesso, non è fredda e asettica elucubrazione cementata nel segno musicale, ma vive, si manifesta apertamente, in grado di soggiogare lo spazio fisico che va a investire. È struttura che si fa liquida, palpabile, che si offre al mondo. L’attuale che non tradisce l’antico.
La presa del suono è stata effettuata, a più riprese, da Davide Ficco, dallo stesso Gianluca Verlingieri, dal già citato Gianluca Cascioli e da Bálint Karosi e denota sempre un’ottima dinamica, capace di sprigionare energia e delicatezza allo stesso tempo; ne guadagna il palcoscenico sonoro (parametro, questo, di fondamentale importanza per via del fatto che la musica del compositore cuneese “aggredisce” lo spazio che la circonda) con una precisa ricostruzione degli strumenti e delle voci tra i diffusori, senza dimenticare che brani come Shift e IronicOnirico vengono esaltati soprattutto se ascoltati in cuffia, la quale permette di apprezzare meglio il rapporto volumetrico che si viene a creare tra suono/silenzio/spazio. L’equilibrio tonale è altrettanto preciso con una riproposizione dei vari registri sempre scontornati e privi di imperfezioni nella messa a fuoco; infine, il dettaglio è oltremodo materico, denso di nero che impregna e fissa la struttura fisica dei vari strumenti utilizzati.
Andrea Bedetti
Gianluca Verlingieri – Musica ritrovata
Michele Marelli (corno di bassetto) - Ghenadie Rotari (fisarmonica) - Michele Lomuto (trombone tenore) - Gianluca Cascioli (pianoforte) - Bálint Karosi (organo) - Simone Beneventi (vibrafono) - Emanuele Torquati (pianoforte) - Trio Debussy - Quartetto Lyskamm
CD NEOS 12126
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5