Che la figura e l’opera di Gabriele D’Annunzio abbiano catalizzato e influenzato per almeno cinquant’anni (a partire dagli ultimi due decenni dell’Ottocento e i primi tre decenni del Novecento) tutta la cultura italiana, e non solo l’arcipelago letterario e poetico, è cosa nota e appurata da tempo. D’altronde, non è un mistero che quando il 1° marzo 1938 Mussolini seppe al telefono della morte del Vate, avvenuta qualche ora prima, abbia esclamato «Finalmente!», lasciando intendere che l’Italia e il fascismo si erano liberati dell’ingombrante presenza del “vecchio bardo decrepito”, come lo stesso duce definiva in privato D’Annunzio.

L’ingombrante presenza dannunziana scaturiva dall’implacabile egemonia che il Vate era riuscito a instaurare nell’asfittica e, per certi versi, provinciale cultura nazionale, ancora incapace di staccarsi dalla crosta del Risorgimento, al quale si erano invece costantemente abbeverati letterati e poeti come Carducci e Pascoli. Anche D’Annunzio, sia ben chiaro, non poté fare a meno di bere da quell’inesauribile pozza, ma lo fece in modo diverso, intingendo l’immancabile retorica del tempo in un affresco linguistico come nessuno prima di lui era riuscito a fare e che nessun altro riuscì in seguito a eguagliare, in nome di una seducente “musicalità”. Poesia e prosa come alter ego della musica, dunque, con parole, proposizioni e versi ricchi di un inesauribile ritmo grazie al quale ogni sua opera veniva contraddistinta e marchiata di note, colori, sfumature, sapori semantici legati alla sfuggente “liquidità” della musica.

Quindi, non bisogna meravigliarsi se lo stesso D’Annunzio affermò in più di una circostanza che se non fosse stato poeta sicuramente avrebbe fatto il musicista, oltre al fatto che si compiaceva nel definirsi “musico” e “maestro di polifonia”, come a ribadire che la parola per lui era solo accordo musicale espresso con un altro “segno”.

Da ciò, si può ben comprendere l’importanza che l’arte musicale ebbe per il poeta, non solo nel sublimare la sua poetica musicale nella musica del tempo, fornendo testi e libretti a diversi compositori (basterà ricordare La figlia di Iorio, il cui testo fu musicato da Alberto Franchetti, Francesca da Rimini messa in musica da Riccardo Zandonai, Parisina da Pietro Mascagni, La Pisanella e La Nave da Ildebrando Pizzetti, il più “dannunziano” di quella generazione di musicisti, le musiche di scena per Fedra da Arthur Honegger e la tragedia Le martyre de Saint Sébastien da Claude Debussy), ma intrecciando stretti rapporti di collaborazione e amicizia con altri musicisti, molti dei quali avrebbero ardentemente desiderato lavorare con lui.

Al di là di studi e saggi attraverso i quali è possibile ricostruire questo rapporto fecondo e complesso (basilare, in tal senso, è il testo di Rubens Tedeschi D’Annunzio e la musica, edito da La Nuova Italia Editrice), per capire meglio come la figura dannunziana seppe influenzare il mondo delle note viene ora riproposto da De Ferrari Editore un libro, a cura del musicista e musicologo Adriano Bassi, già uscito più di vent’anni fa e di cui si sentiva il bisogno di una sua riedizione, Caro Maestro – D’Annunzio e i musicisti, nel quale vengono presentati diversi messaggi e missive scritti da musicisti come Puccini, Respighi, Casella, Malipiero, Pizzetti e altri al Vate. Di Puccini, Casella e Malipiero si tratta di tutte le lettere che scrissero a D’Annunzio, mentre di quest’ultimo mancano purtroppo le risposte (se mai ci furono) e i messaggi, visto che non sono giunti fino a noi (solo con Arturo Toscanini le parti si rovesciano, con il Vate che scrive messaggi ossequiosi al direttore parmense).

Queste lettere, questi telegrammi sono materiale prezioso per capire che cosa ha significato D’Annunzio e la sua opera nella musica del tempo; al di là di abbozzi di composizioni, idee di possibili pagine quasi mai realizzate (gli interessi artistici e culturali che D’Annunzio coltivava, spaziavano in modo tale da non mantenere poi inevitabilmente promesse proprie e sollecitazioni altrui), di visite e incontri al Vittoriale e in altri luoghi, quanto affiora da queste missive può essere circoscritto, a livello di denominatore comune, in un solo termine, quello di “deferenza”. Deferenza manifestata da coloro che contattavano il Vate, per chiedere consigli e pareri, sproni e stimoli, conferme o smentite, una deferenza che fa ben intuire come dietro al titolo di questa raccolta di lettere, il “Caro Maestro” sia da intendere rivolto implicitamente dagli stessi musicisti a D’Annunzio e non certo il contrario («Oggi io sono un vero maestro», scrive non per nulla il poeta pescarese in una lettera indirizzata ad Alfredo Casella il 4 dicembre 1932).

“Maestro” assoluto, la cui “maestria” trasformava in qualcosa di unico tutto ciò che toccava con parole ed idee, D’Annunzio trovò in questi musicisti una sponda privilegiata dalla quale far emergere, cosa che possiamo intuire di riflesso vista la mancanza quasi totale dei suoi messaggi, la sua personalità strabordante, la sua prodigiosa capacità accentratrice, il suo essere un Wagner non con le note, ma con i versi (proprio al sommo compositore lipsiense il Vate dedicò due dei suoi scritti più mirabili in campo musicale, apparsi sulle pagine de “La Tribuna” e in quelle de “Il Mattino”, Il caso Wagner e La bestia elettiva) per manifestare un superomismo che più che su quello nietzschiano faceva riferimento proprio su quello proposto dall’autore del Parsifal, in nome di una “totalità della forma d’arte”, grazie alla quale D’Annunzio poté mettere in pratica uno dei suoi celeberrimi motti: «Io ho ciò che ho donato».

Un “maestro” capace sempre di muovere le fila e i fili altrui, come un invisibile burattinaio (è proprio questo il senso che si coglie nella lettura di questo libro, in cui D’Annunzio assume i contorni e le vesti di un “Grande fratello” al quale tutto è dovuto), al punto che leggendo un telegramma che Puccini gli scrisse presumibilmente nel 1921 (a quell’epoca il musicista toscano era già considerato il più grande operista dell’epoca), veniamo a sapere che D’Annunzio mancò, volontariamente o meno, a un appuntamento che aveva con lui in un albergo parigino.

E il silenzio opposto da D’Annunzio, che si erge di fronte al comprensibile rammarico pucciniano di fronte a quell’assenza, è il segno ultimo, distintivo, di quell’ingombrante presenza la cui scomparsa terrena fece gioire Mussolini diciassette anni dopo.

Andrea Bedetti

 

Adriano Bassi (a cura di) – Caro Maestro – D’Annunzio e i musicisti

De Ferrari Editore, 2018, pagg. 192

Giudizio artistico 4/5