Il nome e l’opera del compositore austriaco naturalizzato americano Erich Wolfgang Korngold fanno ancora fatica, soprattutto nel nostro Paese, a quasi settant’anni dalla sua morte, avvenuta a Los Angeles nel 1957, a soli sessant’anni di età, a trovare la dovuta fama e la meritata ammirazione, tenuto conto che ben pochi musicisti possono vantare una genialità creativa come questo compositore nato a Brno, quando faceva ancora parte dell’impero austro-ungarico. Anzi, se vogliamo proprio dirla tutta, nessun compositore può essere paragonato, almeno per ciò che riguarda il ventesimo secolo, per precocità e prodigiosa scrittura musicale a Mozart come si può invece farlo con Korngold. Ma provate a chiedere a chi è anche abituato ad amare l’ascolto della musica classica se conosce questo autore e la sua musica e vedrete che sovente vi sentirete rispondere negativamente. Questo perché Korngold continua ad essere ignorato da morto, così come lo fu in vita, tranne per quanto riguarda un genere musicale con il quale fece inevitabilmente i conti per poter sbarcare il lunario e assicurarsi la pagnotta quotidiana, quello delle colonne sonore nel mondo dorato e ipocrita di Hollywood, per il quale lavorò a partire dal 1934, dopo aver lasciato la sua patria ed essere emigrato negli Stati Uniti, non per il fatto di essere un autore rientrante nella cosiddetta Entartete Musik, ma in quanto ebreo.

La cover del CD della Challenge Records con il secondo e il terzo quartetto per archi di Erich Wolfgang Korngold.

I motivi per i quali la musica di Korngold appartiene ancora a ristretti ambiti di ascolto e di un culto quasi esoterico nell’ambito degli specialisti e degli addetti ai lavori attuali, ma non quelli del suo tempo, sono diversi, vediamo di enumerarne alcuni: prima di tutto l’annosa maledizione di coloro che lavorano per il mondo del cinema (Ennio Morricone si rabbuiava quando gli si faceva notare che era il più grande creatore di colonne sonore, misconoscendo in lui uno degli artefici della musica contemporanea romana e italiana del secondo dopoguerra), quasi che il produrre musica per la settima arte debba trasformare automaticamente chi la fa in una sorta di untore di manzoniana memoria, dequalificando di fatto un musicista allo stato di “artigiano dei suoni”. Un’altra possibile causa è l’estrema raffinatezza (leggasi genialità) che contraddistingue l’impianto costruttivo delle opere di Korngold, che spaziano dall’opera lirica (Die tote Stadt è uno dei pochi titoli che sono conosciuti della sua produzione) alla musica orchestrale e cameristica, anche se il suo catalogo non è certamente vasto, tenendo in debito conto che il nostro compose pagine colte quando il cinema, i fabbisogni quotidiani e l’indifferenza altrui glielo consentivano, al punto che per apprezzare veramente questa sua straordinaria capacità di scrittura, prima di ascoltare le sue composizioni, bisognerebbe leggerle sul pentagramma (mi viene in mente un altro grandissimo compositore del Novecento, quasi del tutto sconosciuto nella nostra cara Italietta, il danese Carl Nielsen, le cui straordinarie, ultime sinfonie vantano una scrittura tale che il loro ascolto dev’essere indispensabilmente mutuato dalla loro lettura sulla partitura), escludendo di fatto la maggior parte di coloro che ascoltano la musica. Inoltre, Korngold non è assurto nemmeno alla gloria della contemporaneità musicale post tonale, in quanto il compositore austriaco fu sempre un nemico dichiarato della serialità e di ogni forma di avanguardia nel linguaggio musicale, restando fedelmente ancorato al sistema tonale fino alla fine dei suoi giorni e costringendolo di fatto ad incarnare il ruolo di un musicista anacronistico rispetto ai tempi (quando Korngold muore, non lo si dimentichi, la Mecca della musica contemporanea colta era Darmstadt con le sue estati dedicate al culto della ricerca e della sperimentazione). Insomma, per Korngold non vale ancora quanto poi è valso per un altro gigante quale fu Mahler, poiché il Meine Zeit wird kommen in questione per lui deve ancora arrivare, confinato com’è nelle strette (almeno per lui) vesti del tardoromanticismo europeo (termine questo che, detto in soldoni, vuol dire tutto e anche niente).

Eppure, chi conosce grammaticalmente la musica e sa recepire le folgori eraclitee dell’essere geniale, oltre a saper ascoltare, troverà in Korngold un meraviglioso arcipelago sonoro nel quale addentrarsi per essere avvolto da strutture e dimensioni che rimandano, con le debite proporzioni del caso, al divino salisburghese, perché la musica korngoldiana, proprio per via delle sue profondità creative, dev’essere ascoltata non solo con le note, ma soprattutto attraverso di esse. Un ascolto, insomma, che dev’essere indagato tra le pieghe, tra i mutamenti repentini non solo a livello temporale e ritmico, ma anche nelle variazioni stilistiche, strutturali, nel dominio assoluto che l’autore austriaco seppe manifestare nel plasmare la materia fornita ancora dal linguaggio tonale, grazie a una tavolozza pressoché illimitata di sfruttamento delle sue possibilità. Sia ben chiaro, nulla a che vedere con un altro rappresentante di una musica ormai anacronistica come lo fu Rachmaninov, devoto servitore della causa čajkovskijana, e che fece di lui, usando un parallelo letterario, una sorta di Stefan Zweig della situazione, ancorato al bel Welt von gestern. Al contrario, Korngold, sempre usando tale parallelismo, può essere accostato al mondo di uno Joseph Roth, il quale sarà pur stato il campione del finis Austriae, ma con degli intenti che non erano solo nostalgici, ma votati anche a un impianto scolpito in reiterati j’accuse nei confronti di un impero inesorabilmente votato ad implodere e a crollare, come intuì brillantemente Max Weber, sotto le macerie del suo apparato burocratico prima ancora della sua sconfitta al termine del primo conflitto mondiale.

Erich Wolfgang Korngold in un'immagine della maturità.

Ecco perché l’arte dei suoni di Erich Wolfgang Korngold è prima di tutto uno spietato atto di accusa contro la burocrazia musicale del suo tempo, una burocrazia annidata da una parte nel riproporre tritamente ciò che apparteneva de facto al mondo improponibile di un passato che non sarebbe più potuto tornare e, dall’altra, a quella scaturita da un irreversibile irrigidimento delle posizioni della Neue Musik, nata dalla Seconda Scuola di Vienna, che andava a castrare e ad atomizzare quanto di buono poteva ancora esserci nell’esplorazione, non ultima, del linguaggio tonale. Per questo Korngold, si ritrovò da solo (quanto Mahler affermò di se stesso, ossia «Tre volte senza patria, boemo fra gli austriaci, austriaco fra i tedeschi, ebreo in tutto il mondo», può calzare a pennello anche per l’autore in questione), costretto a recitare il ruolo di un “cane sciolto” nel mondo musicale del suo tempo e ad essere accettato, per via della sua incredibile facilità di scrittura, solo dalle fauci rapaci di quella Hollywood spietatamente raccontata da Kenneth Anger.

Ora, chi vuole conoscere la musica korngoldiana, può essere aiutato a livello discografico da una recentissima registrazione pubblicata dall’etichetta olandese Challenge Records, con l’Alma Quartet che presenta il secondo e il terzo quartetto per archi dei tre che il compositore austriaco compose nella sua relativamente breve vita. Questi quartetti (il secondo risale al 1933, ossia all’anno precedente la sua emigrazione in America, mentre il terzo è del 1945) mettono in luce due precisi aspetti della visione musicale del loro autore; se il primo è un epitaffio, un tenero commiato rispetto a quell’idea di Austria, di Kultur vagheggiata da Thomas Mann nelle sue Betrachtungen eines Unpolitischen, il secondo è invece il grido strozzato di quel mondo frantumato, dissolto dagli esiti devastanti e terribili della guerra. Attenzione, però, perché tornando a quanto è stato enunciato in precedenza, queste due composizioni mettono in evidenza anche qualcosa d’altro, ossia il disagio, la dissociazione, il senso di profondo distacco che Korngold provò per sé e per la sua musica rispetto alla realtà artistica che visse e sperimentò dapprima in Europa e poi negli Stati Uniti.

Erich Wolfgang Korngold con la sua famiglia all'arrivo in America.

Così, nel secondo quartetto, il compositore austriaco prende a prestito la dimensione del valzer, emblema di quella Austria felix di zweigiana memoria, per plasmarla in un canto sotterraneo fatto di disperazione implosiva, di annullamento esistenziale, la cui tensione esplode nel terzo tempo, il liricamente angoscioso Larghetto - Lento, in cui richiami nettamente dissonantici (Korngold studiò, tra gli altri, con Alexander von Zemlinsky) vanno letteralmente a immergersi in oasi che hanno il sapore di un retrogusto straussiano (Richard, non Josef, sia bene inteso), ma veicolate, a livello armonico, in modo da risultare sempre estranianti, quasi fossero una prefigurazione di ciò che sei anni dopo sarebbe successo nel cuore del vecchio continente. Lirismo e stridore di denti, slancio melodico rappreso e malinconica dolcezza sono il DNA di una composizione con la quale il musicista austriaco getta in faccia a chi lo ascolta il senso di una solitudine artistica che non può avere rimedio, un biglietto di sola andata verso una nuova terra che accoglierà degnamente solo in minima parte, nel suo excursus più superficiale e lapalissiano, la sua genialità creativa (e casomai ciò non fosse sufficientemente chiaro, si ascolti l’ultimo tempo, il Finale in Tempo di Valse, in cui a danzare allegoricamente sotto le taglienti distorsioni ritmiche non sono componenti dell’aristocrazia asburgica, bensì figure scheletriche e mascherate simili a quelle tratteggiate impietosamente e sarcasticamente da James Ensor nei suoi disegni e schizzi).

Allora, Korngold espressionista malgré soi? Ascoltando il terzo quartetto verrebbe la tentazione di affermarlo, poiché, se vogliamo restare in ambito letterario, qui il nostro autore ormai ci presenta scenari che appartengono maggiormente alle tragiche distorsioni esistenziali di un Georg Trakl, ma la sua musica, mirabile, palpabilmente appassionata nella sua lucida alterità psichica (quando Korngold scrisse questo quartetto era reduce da una profonda depressione), riesce a trasmettere questo grigiore, questa desolazione, questo senso di non appartenenza con un linguaggio sonoro che resta sempre in bilico con l’abisso del non tonale, ma senza mai precipitare in esso. Abbiamo di fronte, tenuto conto che con quest’opera Korngold lancia il suo urlo muto munchiano nei confronti della guerra e per coloro che non ci sono più, un’Antologia Palatina o, visto che siamo in terra yankee, un’Antologia di Spoon River in cui l’ascolto si trasforma in un susseguirsi di lapidi, su ognuna delle quali al posto delle parole, di epitaffi, ci sono suoni costantemente contropelo, sempre armoniosamente concatenati, che fanno sprofondare chi li sa ascoltare in una dimensione soggiogante (si ascolti lo Scherzo, la cui materia grigiastra, lanciata sotto impulsi sardonicamente ritmici, si risolve nel Trio centrale in una splendida, commovente oasi di pace, dove nulla è fuori posto, in cui ogni cosa trova la sua, momentanea, risposta, oppure il tempo successivo, il lungo, estenuante Sostenuto. Like a Folk Tune, in cui una linea tersa, lucidissima, portata avanti dal primo violino, viene continuamente stuprata da tetri arabeschi dissonantici, dolorosi schiaffi che ne alterano la portata “commemorativa”, anche se verso la fine ombre mahleriane sembrano ingentilire il denso succo della bile melodica, prima che due spietati glissandi conducano mestamente alla coda). E se volete sapere che cosa significhi scrivere in modo geniale un Finale, basterà l’ascolto dell’ultimo tempo, in cui il tessuto tematico viene sollecitato, instillato, variato instancabilmente attraverso un fitto disegno armonico al cui confronto un merletto delle Fiandre sembra un banale sottobicchiere, in un gioco di pesi e contrappesi che assume la tridimensionalità di un dipinto di Mondrian. Capolavoro.

Una scena de "La leggenda di Robin Hood", film del 1938 diretto da Michael Curtiz, con Errol Flynn e con la colonna sonora composta da Erich Wolfgang Korngold.

Un capolavoro, anzi: due capolavori, che hanno avuto la fortuna di essere esaltati dalla lettura dei componenti dell’Alma Quartet (è quantomeno doveroso ricordare i loro nomi, con Marc Daniel van Biemen e Benjamin Peled ai violini, Jeroen Woudstra alla viola e Clément Peigné al violoncello), i quali hanno dimostrato di raggiungere il punto massimo che un interprete può aspirare: immedesimarsi non solo con l’opera che deve eseguire, ma soprattutto entrare nell’aura creativa di colui che l’ha composta. Una lettura esemplare, trascinante, epidermica, tellurica (o, per meglio dire, ctonica se si tiene conto del terzo quartetto), appassionata e lucida allo stesso tempo; un’interpretazione che assume un valore ancor più rilevante, se si tiene conto che la presa del suono è avvenuta in modalità direct-to-disc-recording, ossia che la prima ed unica esecuzione è stata poi confezionata senza il minimo intervento di editing, quindi non facendo ricorso a riprese di segmenti o di tempi delle due opere in questione: una presa diretta che ha dovuto fare i conti con dei quartetti la cui asperità tecnica è pari alla necessità ineludibile della resa espressiva.

Ecco, l’espressività: è questo l’aspetto più convincente offerto dal quartetto olandese, poiché il suono che è riuscito ad ottenere è quanto di più coinvolgente si potesse auspicare, adottando una presa del suono unica e immediata, con uno spessore del pathos che non può lasciare indifferenti, intriso di quell’indispensabile strato di ironico estraniamento senza il quale la musica di Korngold perde ogni ragion d’essere. Un esempio su tutti: nel corso del già citato terzo tempo del terzo quartetto, la linea espositiva è stata resa timbricamente con un’estraniazione sonora data dai quattro strumenti a un livello tale per cui non solo affiora esemplarmente questo senso di estraneità esistenziale, ma il suono stesso, plasmato in modo ipnotico, sembra essere evocato da altro e non da un quartetto per archi. A questo punto, mi auguro vivamente che i componenti dell’Alma Quartet decidano di completare l’integrale dei tre quartetti, magari aggiungendo al primo quartetto quell’altra perla che è il Quintetto con pianoforte op. 15, permettendo così la realizzazione di quella che potrebbe essere una registrazione di assoluto riferimento. Esaltante.

I componenti dell'Alma Quartet in un'immagine che richiama quella dei Queen in Bohemian Rhapsody.

La cattura del suono, in questo caso delicatissima, anche qui è doveroso ricordare i nomi dei tecnici, Martijn Schouten & Rinus Hooning, è stata effettuata in modo ottimale; la dinamica risulta essere oltremodo naturale, dotata di una grande energia, capace di restituire ogni minima sfumatura timbrica. Il palcoscenico sonoro ricostruisce i quattro componenti del quartetto idealmente al centro dei diffusori, ponendoli a una discreta profondità (reputo che la microfonatura non sia stata effettuata, come si usa sempre più spesso, in modo esageratamente ravvicinata), in modo da restituire la spazialità fisica dell’ambiente; inoltre, sia l’equilibrio tonale, sia il dettaglio sono resi in modo convincente: il primo esprime correttamente i registri dei quattro strumenti, fondendoli e mantenendoli distintamente coesi allo stesso tempo, il secondo è ricco di una confortante matericità, con una costante e precisa messa a fuoco dei violini, della viola e del violoncello.

Andrea Bedetti

Erich Wolfgang Korngold – String Quartet No. 2, Op. 26 & String Quartet No. 3, Op. 34

Alma Quartet

CD Challenge Records CC72869

Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5