La giovane artista genovese, oltre ad essere una delle più interessanti interpreti delle ultime generazioni, è anche una grande appassionata di scalate, effettuate in ogni parte del mondo. Un confrontarsi il suo, tra l’orizzontalità del pentagramma e la verticalità delle pareti rocciose, che la mette di fronte ai propri limiti. Lo spiega lei stessa in questa intervista

 

Maestro Tomellini, il disco che l’ha fatta conoscere al grande pubblico lo ha dedicato ad alcune composizioni giovanili di Rachmaninov, un autore che ama moltissimo. Il successivo, invece, lo ha consacrato a Liszt, proponendo la quasi mai eseguita versione del 1838 dei Paganini Études, per via della loro leggendaria difficoltà esecutiva. Che cosa significa, tecnicamente ed espressivamente, passare dal pianismo del musicista russo a quello del compositore ungherese?
Il disco di Rachmaninov è stato da subito nelle mie corde grazie ai pezzi giovanili, brevi distillati di embrionale passione e alla quasi sconosciuta Suite in D minor dalla curiosa storia che riguarda il manoscritto perduto, poi ritrovato e finalmente attribuito al giovane Rachmaninov. Credo che il vero confronto debba essere fatto guardando dentro sé stessi più che al testo scritto. Il testo è solo un pretesto, più o meno arduo, un banco di prova che ci permette di conoscere profondamente noi stessi e i nostri limiti. In qualche modo non vi è alcuna differenza di atteggiamento, a livello puramente tecnico, nell’affrontare qualsiasi autore. Resta il fatto che quando ho cominciato questa avventura lisztiana e ho messo le mani per prima cosa sul quarto studio (il primo capriccio – gli arpeggi di Paganini, qui scritto in doppie note per ambo le mani e infine addirittura in arpeggi di accordi!) ho creduto che non ce l’avrei mai fatta. Poi, forte di ciò che ho imparato dalla montagna e dallo sport in generale, mi sono detta “Se esiste, si può fare!”. Espressivamente è stata una lunga ricerca; la mia idea fissa era di estrarre ogni singola goccia di poesia che questo diabolico geroglifico cela. Certo, in termini di confronto Rachmaninov ha un risultato emozionale ben più immediato e naturale.

Il violinista francese Gilles Apap.

Come si è avvicinata a questa pagina lisztiana, autentica parete di sesto grado della letteratura pianistica? E, più in generale, in che senso il virtuosismo può essere reso nella sua bellezza estetica, senza doverlo relegare nell’ambito di un supremo esercizio tecnico?
È stata una proposta di un caro e stimato amico, Danilo Prefumo, su commissione della RSI, la Radio Svizzera di Lugano, per l’etichetta Dynamic. Mi ha detto che nessuno lo avrebbe fatto, che era una follia degna di me. Ho risposto subito di sì! Ho cercato di rendere questo disco nella sua bellezza visionaria, oserei dire religiosa. Gli studi da concerto, nella seconda parte, sono un autentico esempio di respiro della natura. Trovare la visione mistica lisztiana negli studi di Paganini, facendo passare in secondo piano la brillantezza e presenza virtuosistica, come se fosse cosa facile, è stato un tema su cui ho dovuto ragionare moltissimo e per me punto fermo sin dall’inizio. In seguito a una tournée con il violinista francese Gilles Apap e con il violoncellista Luca Franzetti, pochi giorni prima dell’incisione, ho trovato la chiave dell’ispirazione. La spontaneità, il genio naturale che emana da Apap, la gioia che trasmette… e allora mi sono detta: “Perché non rinnovare l’austera e pesantissima visione di virtuosismo estremo e bravura puramente edonistica?”.

Elisa Tomellini impegnata in una scalata.

Rachmaninov, Liszt e poi? Quale sarà la prossima tappa nel suo sentiero interpretativo-discografico? Vi è, dietro di esso, un preciso filo conduttore o le sue scelte sono il frutto di una passione che si focalizza in un preciso momento della sua vita artistica?
Le mie scelte sono in parte dettate dalle numerose proposte delle etichette discografiche, come per tutti gli artisti. Di solito non faccio mai cose che non mi piacciano e in cui non creda molto; devo, però, anche ammettere che mi incuriosiscono facilmente i progetti originali e inaspettati e che in generale sono un’entusiasta. Ho idee precise e qualche desiderio nel cassetto, ma ne dovrò discutere col mio manager, Alberto Spano, nel quale ripongo grande fiducia.

Elisa Tomellini (copyright Gianni Ansaldi).

Musica e montagna, orizzontalità e verticalità, dominio e pianificazione. Come artista e come persona, come riesce a conciliare queste due ragioni di vita? E come l’una può influire e influenzare l’altra?
Le due ragioni di vita che lei cita non sono due, ma in verità una sola: l’individuo di fronte ai suoi limiti, dedito quotidianamente a superarli, a superarsi e ad agire con correttezza, coerenza, lucidità, coraggio, determinazione, sacrificio, onestà e fede nel bello e nell’estasi che procura l’immergersi in esso, siano suoni o vette a un palmo dal cielo. La verticalità è un sentiero esattamente come uno spartito orizzontale. Occorre preparazione e intuizione per percorrerlo. La parete di roccia è un autentico paradiso, motivo di crescita, mi manca molto, ma scalare mi rende meno agile sulla tastiera e, avendo continui impegni concertistici, debbo rinunciarvi. Sempre ben presente nel mio cuore la gioia che esplode dentro quando si arriva in catena (per i non scalatori significa in cima alla via). Non da meno, un tramonto o un’alba a ottomila metri di quota, contemplati da una piccola tenda arroccata sulla roccia e sul ghiaccio, quando tutto il mondo brulicante è là sotto. Vede, credo che per me, in fondo in fondo, la Musica sia silenzio assoluto, solo un alito di vento sulle cime eterne… forse un incontro col divino? Tutto il resto, la tecnica, i dischi, le difficoltà… è tutto nulla. Il palcoscenico è come la cima, ormai sei solo tu lì sopra e il cielo infinito dentro al tuo cuore, la fatica, il mezzo per arrivarvi è solo un ricordo.
Andrea Bedetti