Uno dei punti cardine sui quali si basa il pensiero filosofico-musicale romantico è dato dal contesto dell’ineseguibilità, inteso come impossibilità nell’ottenere una data forma, una materia ottenuta con i suoni, in quanto il suo raggiungimento stesso significherebbe tradire l’idea di quella forma da rendere materica. L’idea(le) dell’Assoluto, insomma, vagheggiato protoromanticamente da Christoph Martin Wieland con la raffigurazione del Dschinnistan, l’irraggiungibile paese delle fate, che pochi anni dopo E.T.A. Hoffmann, nella sua celeberrima recensione alla Quinta sinfonia beethoveniana, trasformò per l’appunto da luogo fatato a concezione stessa dell’idea dell’Assoluto, sfera ultima della matrice creativa dell’uomo, ripresa e ampliata in seguito dagli scritti teorici di Wackenroder prima e Schopenhauer poi. L’Assoluto non può essere relativizzato, quindi rappresentato, scalfito, reso impuro, diluito dalla realizzazione di ciò che l’Idea (Platone, necessariamente, era sempre in agguato) rappresenta e cristallizza nella sua perfetta immobilità e che il tentativo di realizzarla attraverso la sua esecuzione porterebbe con sé all’avvento di una forma perennemente traditrice dell’essenza di cui è intrisa quell’Idea(le).

Ma il Romanticismo è anche e soprattutto una suprema aporia e non solo sul piano estetico e quindi se da un lato i suoi teorici (non soltanto in ambito musicale) fissarono le regole di una sfera immutabile, inattingibile, proiettata nelle confortevoli maglie dell’Assoluto, laddove l’uomo non può che coglierla con la potenza creatrice del suono, ossia l’entità formale più flessibile e sfuggente nella sua rappresentazione materica, dall’altro i suoi artisti, o almeno alcuni di loro, puntarono a creare una sorta di “pietra filosofale” nell’arte musicale, ambendo dunque a rendere eseguibile l’ineseguibilità stessa. E per farlo sostituirono l’Idea con la tecnica, l’Immobilità con il virtuosismo, la Perfezione con la ricerca della perfezione, dando così vita a una figura, l’Interprete, colui che avrebbe dovuto essere il vessillifero di tale sfida prometeica, il traghettatore supremo tra l’Idea e il tentativo della sua realizzazione, facendo sì che tale tentativo facesse di lui l’Artista per eccellenza, il «genio capace di perdersi nel firmamento infinito», per usare un’immagine cara a Wackenroder.

E se il primo a osare ciò fu Niccolò Paganini, interprete-sciamano del violino, in ambito pianistico a incarnare la figura dell’Artista-traghettatore fu, come ben sappiamo, Franz Liszt, in quanto il compositore ungherese fu l’unico a comprendere come l’irrepetibilità dell’atto creativo-improvvisativo paganiniano poteva assumere un valore che andasse ben al di là della semplice sfida tecnica. Se il musicista genovese fu colui che “materialmente” volle osare, ossia tramutare fisicamente le quattro corde dello strumento dilatandone la portata del loro manifesto sonoro, il compositore magiaro assommò alla portata tecnica anche quella mistico-spirituale, concependo l’atto del riprodurre il suono come un prodigioso tentativo di “umanizzare” l’indicibile, di ricondurlo all’immagine dell’artista che come un novello Prometeo non solo ruba il fuoco agli Dèi, ma cerca anche di difenderlo a ogni  costo dal tentativo divino di riprenderlo, sognando egli stesso, come scrisse Plotino, di essere «un dio che cammina per strada». Se per Paganini la “tecnica” fu il punto di arrivo, per Liszt fu invece il punto di partenza.

È sotto questo aspetto che bisogna considerare uno dei vertici pianistici lisztiani, rappresentato dagli Études d’exécution transcendante d’après Paganini, la cui prima versione risale al 1838, ossia sette anni dopo che il compositore ungherese assistette a Parigi, rimanendone folgorato, a un concerto dato dal musicista genovese e che rappresentò, in un certo senso, il “passaggio di consegne” dall’“ineseguibilità tecnica” a quella “mistico-spirituale”. Un culto dell’ineseguibile che Liszt spinse in quell’occasione agli estremi, trasponendo, ampliando, esondando dagli schemi di sfida offerti da Paganini con i suoi 24 Capricci Op. 1, per darne una versione che non fosse solo la realizzazione materica in chiave pianistica, ma che ne rappresentasse anche la dimensione itinerante di un pensiero (ben pochi hanno pensato la musica come ha saputo fare Liszt) che doveva essere reso con i suoni. Ed è questa la vera chiave attraverso la quale si deve considerare e riproporre il proverbiale virtuosismo del compositore ungherese, come ha fatto la giovane pianista genovese Elisa Tomellini (che abbiamo anche intervistato), la quale ha registrato per l’etichetta Dynamic la prima versione dei sei Paganini Études, invece di affrontare la canonica seconda versione del 1851 edulcorata dallo stesso Liszt, una sorta di ad usum Delphini, il cui rimaneggiamento rappresenta un segno di quell’“orizzontalità” compositiva che subentra nella seconda metà della sua vita artistica, rispetto a quell’imperiosa “verticalità” che contraddistingue la sua prima metà. In questo senso, i Paganini Études rappresentano l’ideale discriminante di un prima e di un dopo, di un Liszt che prima scala una parete rocciosa e di un Liszt che, dopo averlo raggiunto, percorre un altopiano.

La similitudine con la montagna, parlando di Elisa Tomellini, non è usata a sproposito, visto che la pianista genovese è un’appassionata delle ascensioni in alta quota (tra l’altro, nel luglio del 2017 ha eseguito un concerto a quasi 4.500 metri di quota sul ghiacciaio del Colle Gnifetti, sul Monte Rosa) e il suo approccio a questi Études rappresenta in effetti una sorta di lucida e progressiva “ascensione” musicale, capace di esorcizzare l’aura di quasi “ineseguibilità” che ammanta quest’opera, dalla quale la maggior parte dei pianisti, anche i sommi, si tiene debitamente a distanza, ripiegando invece sulla più malleabile e plasmabile versione del 1851. Una lucidità suprema quella evidenziata da Elisa Tomellini attraverso la quale è riuscita a disciplinare e a dominare la materia (il tremolio che sovrintende l’iniziale Étude in sol minore, la cristallinità eterea e timbricamente calibrata del registro acuto nell’Étude in mi bemolle maggiore, il senso delle proporzioni e dei volumi nell’annoso Étude “La Campanella”, il rapporto temporale/spaziale del terrificante quarto Étude in re maggiore, l’incantevole senso di “lontananza” dato dalle prime note dell’Étude “La chasse”, tale da evocare una vera e propria rappresentazione scenica, la piena esaltazione del canto ritmico che impregna il Tema e variazioni finale, senza cedere alla tentazione degli sterili alambicchi virtuosistici), così come un alpinista riesce a padroneggiare la materia rocciosa che scala, immedesimandosi con essa, divenendo egli stesso elemento di quella roccia, conformandosi ad essa, assecondandola per conquistarla.

Proprio in questo modo, Elisa Tomellini ha saputo vincere l’ineseguibilità di tale opera: assecondando l’inavvicinabile muro virtuosistico (per dirla in termini zen, il vero virtuosismo si esprime attraverso un non-virtuosismo) con una lettura che ne esalta appunto la dimensione mistico-spirituale (la trascendenza in Liszt non dev’essere intesa solo a livello tecnico), affrontando le asperità e le difficoltà (il lavoro che deve sostenere la mano sinistra è a dir poco atroce) non con un senso di sfida, ma di raccoglimento, di ammirazione, come l’alpinista che dal campo base bacia la roccia prima di scalarla, non osando neppure guardare la vetta che intende conquistare, concentrandosi unicamente sul primo metro di salita. Ecco, in ciò, ascoltare l’esecuzione della giovane pianista mi ha fatto tornare alla mente il capolavoro letterario di René Daumal, Le Mont Analogue, il romanzo più mistico e straordinario dedicato al mistero dell’ascesa, della scalata, della salita fisica e metafisica, che nei Paganini Études si trasmuta nel rendere un suono che a tratti può essere quasi solo “immaginato” leggendolo “analogicamente” sullo spartito, in una continua, irresistibile “ascesa sonora”, una processione timbrica che alla fine viene spogliata dalla corazza esteriore del virtuosismo per mostrare, infine, la bellezza incontaminata e compatta di tutta l’opera in sé, smantellata dalle difficoltà e dalla sua stessa in-eseguibilità, così come lo scalatore, giunto sulla cima della montagna, la guarda sotto si sé, vetta della “sua” stessa vetta.

Gli altri pezzi che completano il programma, i Trois Études de concert e i Due Studi da concerto, risalenti rispettivamente al 1848 e al 1862, evidenziano ulteriormente la predisposizione interpretativa della pianista genovese nel rendere la dimensione estetica del suono, la sua incontrovertibile bellezza in sé attraverso il dominio e la disciplina, ossia proprio ciò di cui necessita la musica pianistica di Liszt per diventare ed essere tale. Si ascolti, a tale proposito, come il dominio timbrico nel secondo dei Trois Études, “La leggerezza”, riesca a rappresentare proprio il senso di un suono fisicamente sospeso attraverso un reticolo di cristallinità che non dev’essere graffiato o alonato nemmeno per un istante, con il rischio di mandarlo in frantumi. Certo, non bisogna poi cadere nella trappola dell’estrema evocazione data dai titoli in questione, quindi senza esasperare la semanticità che si può annidare in queste pagine (l’ascolto dell’abbrivio che porta al finale del terzo Étude, “Un sospiro”, per come viene reso terso e melanconico dalla Tomellini, è esemplificativo in tal senso, con l’artista ligure che non esagera nel fraseggio, rischiando rubati che sarebbero del tutto esiziali).

E poi il colore e le sue sfumature, che vengono tratteggiati in due pagine della maturità come Waldesrauschen e Gnomenreigen, in cui il pianoforte diviene introspettivo come non mai, anche nei momenti di maggiore espansione dinamica (il registro acuto), che equivalgono a irruzioni di luce nel regno della penombra. Elisa Tomellini trasforma questi brani in un territorio che ha già il sapore di un impressionismo che anticipa (a rigor di timbrica, sia ben chiaro) un Debussy e un giovane Ravel (le venature ironiche e beffarde che ammantano Gnomenreigen la dicono lunga), senza mai, ancora una volta, perdere di vista il rigore, vero moto perpetuo della fantasia interpretativa. E non si consideri ciò, ovviamente, un banale ossimoro.

Buona anche la presa del suono, anche se a livello di dinamica si nota una lieve saturazione nel registro acuto, con una resa “metallica” del timbro; il pianoforte, nel palcoscenico sonoro, viene scolpito, nella ricostruzione dell’evento sonoro, tra i diffusori, in posizione leggermente avanzata. Ottimo il dettaglio, capace di restituire la piena matericità dello strumento.

Andrea Bedetti

Franz Liszt – Paganini Études (Original 1838 version)

Elisa Tomellini (pianoforte)

CD Dynamic CDS7815

Giudizio artistico 5/5

Giudizio tecnico 4/5