Abbiamo intervistato il famoso artista vicentino, uno dei maggiori pianisti jazz europei, da sempre entusiasta nel confrontarsi con altri generi musicali e che avrà modo di esibirsi il 5 giugno a Venezia, in occasione della stagione 2021 dei concerti organizzati allo Squero da Asolo Musica
Dando un’occhiata alla sua carriera, non si può fare a meno di constatare una poliedricità nei generi da lei toccati e approfonditi: dal jazz al jazz rock (è stato il fondatore di quel raffinato gruppo che è il New Perigeo), dal pop alla classica. Attraversando ed esplorando orizzonti così vasti, non c’è il rischio di snaturare o, quantomeno, di non focalizzare ciò che si sente dentro di sé? Ossia mettere il piede in più scarpe non può portare a un “universalismo” interpretativo incapace di dare vita a una propria estetica connaturata con un genere che si sente proprio, aderente alla propria sensibilità d’artista?
Non c’è rischio se si considera la musica come un unico flusso dominato dalla melodia. In questo modo l’improvvisazione, che pratico su qualsiasi tipo di repertorio, amplia i suoi orizzonti ed è proprio la molteplicità delle esperienze musicali che forma un linguaggio personale. In tutta sincerità, non rinuncerei alle esperienze fatte per abbracciare una unica causa. Nella mia vita ho sempre ascoltato di tutto, cercando di imparare dai classici fino alla musica popolare, cercando musica che mi emozionasse.
Lei ha avuto modo, tornando al jazz, di collaborare e lavorare con autentici giganti di questo genere musicale, vale a dire Chet Baker, Lee Konitz, John Scofield, Joe Lovano e Art Farmer. Con chi si è sentito in perfetta sintonia, sia come artista, sia come uomo?
Direi che Lee Konitz, che tra l’altro è stato il primo grande jazzista americano con il quale ho suonato, sia stato fondamentale, per il suo approccio alla musica e all’improvvisazione, per la sua umanità e per il suo sense of humor. Pensi che in uno dei nostri ultimi incontri mi disse che avrebbe rinunciato volentieri a fare il suo assolo su un brano per farne uno collettivo, una visione incredibile per un caposcuola come lui.
E volendo allargare il tiro, quale musicista, che ha avuto la possibilità di conoscere e frequentare, l’ha maggiormente colpita, al punto che dopo ha sentito che la sua vita in un certo senso era addirittura cambiata?
Sono molti i musicisti dai quali ho imparato; quindi, preferirei vederla così: non sai mai chi e cosa può cambiarti, alle volte può accadere anche ascoltando un musicista mediocre... è un fatto di percezione sempre in contatto con ciò che sei e ciò che cerchi in quel dato momento della tua vita.
A suo parere, dove la musica jazz e la musica classica possono incontrarsi e dialogare? E dove, invece, non vi può essere dialettica in questi due generi?
Sono due musiche che avrebbero bisogno di incontrarsi, i musicisti potrebbero trovare nuove idee. Si sa che le novità spesso nascono da ciò che il passato ci offre, mentre spesso ogni genere difende se stesso come se fosse l’unica verità possibile. Se i classici tornassero ad improvvisare come un tempo probabilmente ne trarrebbero nuove idee, se tutti i jazzisti amassero la classica avrebbero tantissimo da imparare. Per quanto mi riguarda, con il pianista classico Ramin Bahrami e con un repertorio basato sul sommo Bach cerchiamo di creare nuove visioni nel rispetto della partitura.
Auspicando un progressivo ritorno alla normalità, e con la musica che potrà tornare ad occupare gli spazi che le competono, quali saranno i suoi futuri progetti, sia a livello concertistico, sia a livello discografico?
La mancanza di scambio emotivo con il pubblico è causa per tutti noi di grave disagio: un solista vive per suonare e rinasce dopo ogni concerto. Sto iniziando una collaborazione in duo con il fisarmonicista Luciano Biondini che io ritengo straordinario, ma voglio ritrovare i vecchi amici con i quali ho diviso il palcoscenico in passato: dopo tanti mesi sarà una gioia e scopriremo comunque di essere andati avanti, di avere scoperto nuove cose, per ripartire insieme.
Andrea Bedetti