Il paradosso di Roberto Longhi è noto ma, dato il contesto, è meglio ricordarlo: critici si nasce, artisti si diventa. Un paradosso che, a ben vedere, è molto meno paradossale di quanto sembri, soprattutto quando a fare il critico lo fa qualcuno che evidentemente non è nato tale. Ecco, affermato in quattro parole, l’intento di Carlo Alessandro Landini quando ha deciso di scrivere il suo ultimo lavoro saggistico, il cui titolo è già di per sé un manifesto programmatico, Contra Analyticos. L’analisi musicale, West Side Story e la logica perversa delle lavatrici, edito dalla casa LoGisma di Firenze (con prefazione del nostro direttore Andrea Bedetti e postfazione di Renzo Cresti). Un titolo apparentemente bizzarro, certo, ma che non lo è, poiché l’autore il quale, oltre ad essere uno dei protagonisti assoluti della musica contemporanea e non solo quella italiana, è anche un lucido e spietato (come vedremo) saggista e raffinato poeta, capace di diluire la cicuta con cui è arricchito il suo inchiostro con una vastità oceanica di cultura e di preparazione a livello interdisciplinare, vastità che puntualmente riversa nei suoi scritti visionari e corrosivi.
L’ultima stratificazione saggistica in questione, anch’essa dotata di una generosa dose di ironia corrosiva, rappresenta un attacco implacabile contro una categoria professionale, quella dei critici musicali cosiddetti analitici, e da qui si comincia a capire il perché di questo titolo, ossia coloro che, come dimostra Landini nelle (sole) trecento pagine del volume, discettano più o meno piacevolmente e dottamente dell’arte dei suoni senza praticamente parlare di musica. Certo, già parlare di musica rasenta l’immagine di un bieco ossimoro, come ben ricorda Elvis Costello con la sua celebre affermazione: «Scrivere sulla musica è un po’ come ballare sull’architettura»; quindi, materia delicata, da prendere debitamente con le pinze, con rispetto e delicatezza. E invece no, grida Landini dal pulpito dell’amore per la musica, poiché nel corso del Novecento, secolo maledettamente breve e quindi a rischio di una perniciosa confusione, si è andata formando questa nefasta categoria che geograficamente può essere delimitata principalmente negli Stati Uniti, per la precisione dai centri universitari della East Coast, in Germania e in Francia, senza dimenticare, come puntualizza l’autore, alcuni implacabili cecchini nostrani.
Così, nel corso di cinquantasette brevi e fulminanti capitoli, il compositore e filosofo milanese perpetra il suo massacro nei confronti di chi parla di musica (Elvis Costello continua ad aleggiare) senza considerarla minimamente, poiché il suo unico scopo è quello di prendere a prestito la musica stessa per parlare di altro, ossia usando l’arte dei suoni solo per fare affiorare elementi fiancheggiatori, estrapolazioni più o meno farneticanti attraverso l’uso di un linguaggio a dir poco ellittico e facendo uso di equazioni matematiche (la matematica, puntualizza Landini, per gli analisti è come il prezzemolo: la troviamo dappertutto) o di argomentazioni cibernetiche (vedasi, per ciò che riguarda l’ultimo caso, e qui vengono fuori i primi nomi, gli italiani Pietro Grossi e Silvio Ceccato che hanno spianato la strada alla schizofrenia degli analisti musicali nostrani e non). E, a proposito di nomi, vediamo di continuare a farne, visto che Landini li chiama uno ad uno sul banco degli imputati, accusati di aver causato l’agonia e la morte di ciò che si nutre la musica, ossia la Bellezza: così abbiamo da oltreoceano Milton Babbitt, annidato nella sua facoltà di studi musicali a Princeton, e poi, tra gli altri, William Ennis Thompson, per poi passare tra i paladini del cosiddetto “funzionalismo”, ossia oltre al già citato Babbitt, John Rahn, David Lewin, David Temperley, David Kopp, Edward Cone, Benjamin Aaron Boretz, Ray Jackendoff, tutti “analisti” che risulteranno perfettamente sconosciuti alla maggior parte di chi ascolta musica, invece di leggerla sotto forma di algoritmi e astruse formule fisico-matematiche, e che sanciscono di fatto un’egemonia culturale.
E, a proposito di egemonia culturale, come si è comportato il vecchio continente? Nemmeno quello, ci spiega Landini, si è salvato dall’onda malvagia del gretto verbo analizzante, visto che c’è solo l’imbarazzo della scelta, a cominciare dal tedesco Fred K. Prieberg, proseguendo con gli alfieri della New Complexity vagheggiata e indottrinata dal compositore inglese Brian Ferneyhough (le cui partiture valicano i confini dell’intellegibilità e che viene definito testualmente «sadico» da Landini) fino al nostro Marco de Natale, considerato il padre degli studi teorico-analitici in Italia.
Così, di capitolo in capitolo, attingendo da vastità interdisciplinari, il compositore e filosofo milanese ricostruisce il fenomeno analista in musica, sempre in nome di quell’amore, di quella passione che lo governano nei confronti della Musica in quanto tale, ossia quella miscela di Bellezza e di lucidità che la guida (o, per meglio dire, che l’ha guidata nel corso di secoli, visto che ora sta ormai languendo e atrofizzando sotto i colpi di martello degli analisti, impegnati a vivisezionarla con l’uso di bisturi e seghetti sotto forma di formule, neologismi incomprensibili, associazioni a dir poco improbabili, stringhe HTML informatiche e così via).
Sia, ben chiaro, ogni volta che Carlo Alessandro Landini intinge il calamo nell’inchiostro non muove piume, bensì macigni. E spostare macigni vuol dire mettere in pericolo quanto l’avversario è andato costruendo nel tempo; ecco perché ogni suo scritto è destinato a dare fastidio, a promuovere malcontento, a creare pruriti agli intellettuali “organici”, compagnons de route degli analisti, in questo caso. Ma il compositore e filosofo milanese se ne fa un baffo: mastica, ingoia e digerisce. In attesa di colpire nuovamente. Alla faccia della cosiddetta intelligencija illuminata…
Marco Pegoraro
Carlo Alessandro Landini – Contra Analyticos. L’analisi musicale, West Side Story e la logica perversa delle lavatrici
LoGisma Editore – pp. 300
Giudizio artistico 4,5/5