Un’opera d’arte, non solo musicale, è il risultato di un’osmosi che lega una forte emozione con l’assemblaggio tecnico della forma che la riveste. Una forma che, a volte, può avere una lunga e tormentata gestazione, come è il caso del primo dei due concerti pianistici di Johannes Brahms, un’opera straordinaria che nacque sotto un preciso impulso emotivo, scaturito dal trauma che l’autore ebbe quando gli giunse la notizia che il suo maestro e mentore, Robert Schumann, aveva tentato il suicidio gettandosi nelle fredde acque del Reno nel febbraio del 1854 a Düsseldorf, e la cui forma rappresentò per il musicista una dura e tormentata lotta che la trasformò da un’idea primigenia di sinfonia in quella del concerto che noi tutti conosciamo.
Questa dura lotta iniziò nel biennio 1852-53, quando Brahms decise di comporre una sinfonia, sotto la spinta dello stesso Robert Schumann. All’inizio del 1854 il progetto originario, però, si materializzò sotto forma di una Sonata per due pianoforti, un nucleo primigenio che il compositore di Amburgo, pianista eccelso qual era, aveva deciso di adottare plasmandolo attraverso il suo strumento prediletto per poi orchestrarlo nell’estate di quello stesso anno, mantenendo valida, allo stesso tempo, la Sonata per due pianoforti che, però, in seguito decise di abbandonare, come scrisse all’amico violinista Joseph Joachim: «Ritengo che lascerò da parte la mia Sonata in re minore. Ho suonato spesso i primi movimenti con la signora Schumann, e sono sempre più convinto che nemmeno due pianoforti siano sufficienti». La decisione di abbandonare la Sonata per due pianoforti, si trasformò anche in quella di interrompere la stesura della concomitante sinfonia a vantaggio di un concerto per pianoforte e orchestra.
Questo concerto ebbe, a sua volta, un lungo ed elaborato processo compositivo, contraddistinto da una serie innumerevole di ripensamenti e di riscritture, con il primo tempo che fu rimesso in discussione, al punto da essere ritoccato e modificato ancora nel biennio 1856-57, con il movimento centrale, in origine addirittura una sarabanda in tempo Lento funebre, che venne sostituito da un Adagio e con il tempo finale che fu completamente riscritto nel 1857. Ma anche dopo tutte queste modifiche Brahms non si sentì soddisfatto, visto che continui ritocchi, cambiamenti minimi, tagli ed aggiunte vennero fatti fino al marzo dell’anno successivo (Schumann, ormai, era morto da quasi due anni), quando nel mese di marzo fu organizzata una prova del Concerto con Brahms che volle eseguirlo al pianoforte alla presenza di pochissimi amici fidati, tra cui lo stesso Joachim, al quale confessò dopo la fine dell’esecuzione, senza che l’autore fosse finalmente soddisfatto: «Su questo Concerto non riesco più ad avere un giudizio obbiettivo, come non riesco più ad avere, su di esso, alcun potere».
Nonostante le continue perplessità e quel senso di generale insoddisfazione che ancora lo perseguitava a proposito di quest’opera, la prima esecuzione del Concerto in re minore avvenne il 22 gennaio 1859 ad Hannover, con lo stesso Brahms al pianoforte e con Joachim sul podio, ricevendo solo una tiepida accoglienza. La seconda esecuzione, che ebbe luogo nella prestigiosa Gewandhaus di Lipsia cinque giorni più tardi (con ancora l’autore al pianoforte e Julius Rietz sul podio), fu invece sommersa dai fischi. Una successiva esecuzione ad Amburgo, il 24 marzo dello stesso anno, venne nuovamente diretta da Joachim e si risolse solo in un successo formale, di stima. A quel punto, Brahms decise di ritirare il Concerto per mettervi ancora mano prima di pubblicarlo, cosa che avvenne nel 1861, e per eseguirlo nuovamente in pubblico nel 1865, a quasi dieci anni dalla morte dell’amico e mentore.
Il fatto che questo concerto avesse suscitato perplessità e freddezza non deve stupire, in quanto la forma con la quale Brahms plasmò l’opera andava a rompere lo schema tradizionale di questo genere, in quanto il pianoforte e l’orchestra venivano trattati su un piano di assoluta parità, il che la faceva sembrare una sinfonia concertante con pianoforte. Ciò che impressionò sfavorevolmente il pubblico del tempo fu l’impatto e la lunghezza del primo tempo, soprattutto nel tempo d’apertura, il Maestoso, che da solo occupa quasi la metà del concerto, con quell’introduzione orchestrale, di eccezionale ampiezza (ben novanta battute!), con la quale Brahms volle esprimere l’angoscia e lo choc provati nel sapere del tentato suicidio di Schumann. E lo fece con un tema iniziale appassionato, cupo, tempestoso, a cui segue una dolce parentesi lirica, di trepida emozione, da cui prendono avvio, prima e dopo il riapparire del primo tema, singoli spunti che vengono puntualmente ripresi e ampliati dal pianoforte nel corso del movimento, pianoforte che entra, sostenuto dalle trombe e dai timpani soli, in punta di piedi, in modo pensoso e severo, quasi triste. A questo punto prende avvio una progressiva e inesorabile integrazione tra il solista e l’orchestra (la famosa integrazione non compresa dal pubblico e dalla critica del tempo) che porta a una mastodontica riesposizione e che prosegue, alternando momenti di appassionato slancio ad altri in cui lo strumento solista sembra quasi ripiegarsi su se stesso e ad altri ancora in cui il dialogo tra pianoforte e strumenti orchestrali raggiunge vette di eloquio e perfezione (spicca quello intensissimo con il corno).
L’Adagio che segue inizia con un tema introverso degli archi con sordina, accompagnati dai fagotti, con la ripresa effettuata dal corno. Su questo tenue tappeto sonoro fa l’ingresso il pianoforte, che riprende a sua volta, elaborandoli, alcuni punti del tema esposto orchestralmente. La parte centrale del movimento, affidata ai legni, ha un sapore più marcato, mentre il ritorno del primo tema, elaborato dal pianoforte, trasforma l’Adagio in un’oasi di sonorità celestiali, di pura trascendenza.
L’Allegro non troppo finale è un Rondò, contraddistinto da un tema vigoroso e rude, imbastito sui tratti di danza popolare, che viene dapprima esposto dal pianoforte, per poi passare all’orchestra la quale lo riconsegna nuovamente allo strumento solista. Segue una parte decisamente più melodica, che culmina in un meraviglioso fugato a quattro voci degli archi, il quale alla fine lascia nuovamente spazio dapprima alla ripresa del tema, poi a una breve cadenza del pianoforte e, infine, alla ripresa del segmento fugato da parte dei legni più acuti.
Andrea Bedetti
Discografia essenziale consigliata
- Johannes Brahms, Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in re minore, op. 15,
Ivan Moravec – Czech Philharmonic Orchestra – Jiří Bělohlávek, CD Supraphon 11 1274-2
- Johannes Brahms, Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in re minore, op. 15,
Emil Gilels – Berliner Philharmoniker – Eugen Jochum, 2CD Deutsche Grammophon 447 446-2
- Johannes Brahms, Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in re minore, op. 15,
Clifford Curzon – London Symphony Orchestra – George Szell, CD Decca 0289 466 3762 3
- Johannes Brahms, Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 in re minore, op. 15,
Nelson Freire – Gewandhausorchester Leipzig – Riccardo Chailly, 2CD Decca 0289 475 7637 – 2