Alla vigilia della sua ultima rappresentazione di Don Pasquale al Teatro Filarmonico di Verona, abbiamo intervistato il cantante napoletano, già protagonista con Il Barbiere di Siviglia la scorsa estate. Con grande schiettezza, l’artista partenopeo ci ha detto che cosa ne pensa delle regie moderne, del suo amore per l’opera lirica barocca e di come ha cantato anche al cinema, oltre ad essere un mancato principe del foro

Maestro Lepore, dagli studi e dalla laurea in giurisprudenza al desiderio di diventare cantante lirico. Un passo non propriamente breve. Che cosa l’ha spinta a non diventare un principe del foro e a essere invece allievo di Bergonzi e di Zedda, prima di calcare i palcoscenici italiani e stranieri?

Certamente non è stato un passo breve. Iniziai a cantare a diciannove anni portando avanti sia l’università sia il canto scegliendo, a metà del corso di laurea, di concludere gli studi universitari. Una volta laureato ho proseguito gli studi in conservatorio, per poi continuare su quella strada. Ho iniziato a cantare a Roma, rimanendo un anno nel coro del Teatro dell’Opera e facendo il mio primo debutto come Don Basilio nel 1992. Esperienza estremamente formativa affiancata anche da L’Aretusa di Vitali con la quale presi parte al Festival Barocco di Roma. Lasciai il posto al Teatro dell’Opera a vantaggio di chi cercava stabilità in teatro per passare ai concorsi e a ruoli solistici. Così, vinsi il concorso di Spoleto debuttando poi ne La locandiera di Antonio Salieri, poi con L’Elisir d’Amore di Donizetti, Leporello nel Don Giovanni di Mozart, alcune opere di Britten, tutta una serie di ruoli che, per un giovane cantante, sono altamente formativi e consentono di creare un proprio repertorio utile nella carriera solistica.

Carlo Lepore nel ruolo di Caronte nell’Orfeo di Claudio Monteverdi.

Oltre ad avere in repertorio personaggi dell’opera ottocentesca, lei è anche specialista del repertorio barocco. Quali sono le maggiori differenze stilistiche ed espressive che ci sono tra il modo di essere un basso tra il Settecento e l’Ottocento?

Ho fatto numerosi ruoli del repertorio barocco, specialmente quando ero più giovane, con grande soddisfazione. Si tratta di un repertorio molto vasto e di grande interesse, ma poco conosciuto. Per chi segue un percorso come il mio, praticando molto Rossini e Mozart, è altamente propedeutico perché lascia un’importante agilità alla voce. Un accorgimento è quello di non spoggiare mai i suoni, poiché il barocco può richiedere la voce fissa senza vibrato, e occorre trovare un giusto equilibrio per non compromettere la salute delle corde vocali. Ho in repertorio opere di Händel: Giulio Cesare e Ariodante (incisi poi su DVD) – in cui debuttò anche il mio cane perché il fornitore locale, una volta capito che i suoi animali sarebbero dovuti rimanere in teatro per diversi giorni, rinunciò all’incarico per cui il regista mi chiese di portare il mio.

Una progressione, anche educativa, passa per il Barocco, poi un vero “balsamo” per la voce qual è Mozart, per arrivare poi a Rossini, molto difficile da eseguire, ma che consente di mantenere una vocalità agile e per far sì che la voce duri più a lungo, testimoniato dal fatto che oggi compio ventotto anni di carriera anche grazie al repertorio che ho scelto di eseguire. La voce ha bisogno di grande cura e il “bel canto” non tradisce mai, se ben dosato. Invece, può diventare pericoloso, da giovane, buttarsi subito sul difficile repertorio ottocentesco perché si canta di “fibra”, e questo va evitato. Agli inizi bisogna cantare con un solido appoggio, per poi riprendere quel repertorio solo con una buona tecnica che consenta di eseguirlo senza sforzi particolari. Ci sono colleghi che hanno fatto una strada diversa iniziando da lì, ma molti che ho conosciuto si sono poi fermati, quindi non è così automatico. Da questo si capisce quanto la scelta del repertorio sia importante per un cantante, cercando di non superare mai i propri limiti, o, almeno, non fissarli troppo lontano dalle proprie possibilità. Dopo alcuni anni di carriera ho capito che, oltre al basso, avevo guadagnato delle zone acute non comuni e che quindi potevo lanciarmi su ruoli più acuti, debuttando in Falstaff, Gianni Schicchi e Fra Melitone ne La forza del destino, tutti ruoli con una zona molto acuta (fino al sol) – praticamente baritonali – ma che la mia vocalità consentiva.

Lei ha anche avuto modo di cantare non solo in teatro, ma anche in una pellicola cinematografica, per esempio impersonando il ruolo del Commendatore nel film Io, Don Giovanni di Carlos Saura. Anche in questo caso che differenze ci sono tra il cantare davanti a una platea e di fronte a una camera? Questa esperienza è stata positiva?

Dipende tutto da come viene realizzato il film. Nel caso di Io, Don Giovanni le registrazioni vocali sono state eseguite a Praga con il Coro e l’Orchestra locali, che erano parte della produzione, quindi in fase di produzione si sono avvalsi di quella registrazione. In altri casi, come ne La Cenerentola di Andermann, non solo la registrazione era in presa diretta, ma era anche in diretta televisiva. Siccome la scena si svolgeva in più luoghi, tra il primo e il secondo tempo, durante il telegiornale, siamo stati scortati dalle forze dell’ordine per arrivare nella sede del secondo atto nei tempi stabiliti. Nel film che ne è stato prodotto hanno poi accorpato le due giornate. Simile a questa è stata a Parigi per Il Barbiere di Siviglia e a Londra per Le nozze di Figaro dirette da Sir Antonio Pappano, in cui l’opera era registrata e trasmessa in diretta in una sala da cinema. Lo spettatore vedeva, quindi, l’opera con l’occhio della telecamera e con una regia televisiva ma con un risultato audio molto diverso. Anche quando si riprende un’opera in teatro si tratta di un live, com’è stato per la ripresa televisiva de Il Barbiere di Siviglia di quest’estate all’Arena di Verona.

Ancora Carlo Lepore nei panni di Mustafà ne L’italiana in Algeri di Gioachino Rossini.

Recentemente, il critico musicale del Corriere della Sera, Enrico Girardi, ha scritto un articolo mettendo in rilievo come la stragrande maggioranza delle fondazioni e dei teatri lirici italiani manchino di coraggio, presentando nei loro cartelloni e programmi sempre gli stessi lavori dell’Ottocento italiano (Verdi, Rossini, Bellini, Donizetti) e arrivando fatidicamente al Verismo, fermandosi lì. Perché i sovrintendenti e i direttori artistici non osano di più proponendo altri capolavori e autori? Per una questione di gusto radicato nel pubblico? Per una questione di lingua, quando si tratta di compositori stranieri? O per quale altro motivo a suo parere?

Penso ci sia alla base una questione di gusto. Tornando alle mie prime esperienze, il Maestro Zedda – fondatore del Rossini Opera Festival di Pesaro – aveva tentato di diffondere l’opera barocca a Fano, dando vita a un Festival Barocco come quello rossiniano. Tentativo durato un paio d’anni, con degli spettacoli magnifici e con regie di Pier Luigi Pizzi. Il problema è che in Italia il repertorio barocco fatica a fare breccia. Per quanto riguarda l’opera contemporanea, in alcuni teatri è. rappresentata – seppur in minoranza – lasciando più spazio al repertorio italiano, nostra gloria. Con così tanti compositori e opere, vale la pena di farle conoscere. Ci sono, certamente, quelle più conosciute, ma sappiamo bene che ci sono i titoli che “fanno cassa” e quelli meno popolari – il botteghino parla da sé, se la scelta del pubblico è tra Il Prigioniero di Dallapiccola o Carmen di Bizet -. Viviamo inoltre in un periodo storico in cui la lirica soffre, per mancanza di sovvenzioni e non solo. Quindi ritengo certamente che serva far funzionare economicamente tutti i teatri e l’unico modo, ad oggi, è rappresentare le opere che attirano il pubblico.

Comprendo, quindi, le necessità economiche delle Fondazioni liriche, ma se l’obiettivo non è quello di avvicinare i melomani alle opere meno conosciute, ma i neofiti e tutti coloro che ancora non conoscono la lirica, l’unico modo è presentando i capolavori. Dovere morale della nostra cultura sarebbe rappresentare le opere meno conosciute degli autori italiani; per esempio, io ho avuto l’onore di prendere parte a più della metà delle opere rossiniane e riconosco che ci sono molti titoli spettacolari che non sono conosciuti dal pubblico, nemmeno dal più esperto, ma quando sono state rappresentate al Festival di Pesaro hanno sempre riscosso un enorme successo. Si pensi alla Matilde di Shabran o Torvaldo e Dorliska, due titoli rossiniani molto rari che non si vedono molto spesso e che non sono noti solo per l’assenza di romanze famose che tutti possono ricordare. Anche nel resto del mondo è faticoso presentare opere meno conosciute, normalmente le opere rossiniane per cui si viene richiesti sono sempre le stesse: La Cenerentola, Il Barbiere di Siviglia, L’Italiana in Algeri, mentre un’eccezione è la Matilde di Shabran, di cui sopra, che portammo a Covent Garden nel 2008.

Il basso napoletano protagonista del Don Pasquale di Gaetano Donizetti al Teatro Filarmonico di Verona. (©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona)

L’ultimo suo personaggio è il Don Pasquale di Donizetti. In che cosa si riconosce in lui e cosa, invece, non appartiene al suo carattere e al suo modo di essere?

Don Pasquale è un personaggio molto attaccato ai soldi, crudele nel “piccolo” ricatto al nipote. Non è un soggetto estremamente positivo, ma tutto sommato è il personaggio “maturo” che arriva a un’età in cui riconosce di non essere più giovane cercando una speranza che trova, poi, in Norina. Una morale molto attuale e corretta che, al giorno d’oggi, si vede spesso. L’aspetto patetico e drammatico allo stesso tempo è quando riceve lo schiaffo da Norina, ossia quando si rende conto di quanto fosse impossibile per lui conquistare una ragazza come lei. Scopre tutto il dolore riconoscendo che per lui è veramente finita. Questo è il punto in cui ci commuoviamo, quando improvvisamente si passa dalla sua grande euforia di potersi risposare – con l’aria di “Un foco insolito mi sento addosso”, elemento che si ritrova anche in “Già d’insolito ardore nel petto” cantato da Mustafà ne L’italiana in Algeri – a un aspetto drammatico che non va associato alla sua figura all’inizio, altrimenti c’è il rischio di perdere l’importante contrasto che si trova a questo punto. Questo è uno degli aspetti più interessanti dell’opera di Donizetti: l’alternarsi delle “tinte”. Momenti “gai” che fanno da contraltare al carattere drammatico che prende il protagonista nella seconda parte dell’opera. Poi, con il duetto che avviene con il Dottor Malatesta – che richiama lo stile rossiniano sillabato – ritorna il carattere infervorato ed energico, stavolta derivante dalla vendetta nei confronti di Norina.

Don Pasquale non è solo un personaggio dimesso o “troppo vecchio”, trovo, invece, che abbia molte sfaccettature che sia necessario evidenziare proprio per dare più drammaticità a quello che viene successivamente. Sembra che Donizetti abbia scritto quest’opera in soli dieci giorni, quasi ispirato da una scintilla divina – non credo ci sia termine più azzeccato -, è una musica caratterizzata da una sensibilità e originalità eccelse, impossibile da scrivere senza quell’ispirazione. È un’opera meravigliosa in ogni sua parte, basti pensare alle due parti corali che sono assolutamente magistrali sia nel testo sia nell’accompagnamento orchestrale, dal la tenuto in “Com’è gentil”, alla perfezione di “Che interminabile andirivieni”, ma anche le arie di Norina e il suo duetto con il Dottor Malatesta. Si parla di personaggi ben caratterizzati e delineati, influenzati anche dalla Commedia dell’Arte, Don Pasquale associato a Pantalone, Norina a Colombina, Ernesto a Pulcinella e così via, ad ognuno la sua maschera. Poi per ciò che riguarda gli assoli, uno su tutti è la tromba in “Povero Ernesto”, uno strumento che prende l’anima e, in quel contesto, crea una toccante malinconia.

In Don Pasquale, inoltre, secondo le richieste di Donizetti, il canto dev’essere una “recitazione intonata”, ma pur sempre una recitazione. Motivo per cui io trovo molto importante “parlare il testo”, comprenderne bene l’essenza, leggere tra le righe della partitura e assimilarlo al punto in cui, cantandolo, esca tutta la parte attoriale. Si tratta di un ruolo che non va cantato in maniera “strumentale”, in quanto la voce va trattata soprattutto in funzione dell’attore, della scena e, ancora più importante, della parola. Questo, a mio avviso, è sempre valido, ancora di più per Donizetti perché lo ha esplicitato, e va assolutamente assecondato.

La prima volta che feci Don Pasquale ero molto giovane e non rispecchiò assolutamente il Don Pasquale che eseguo ora. Ci sono dei personaggi che vanno assimilati e interpretati con una maturità che da giovani manca. Tecnicamente è possibile, ma non si sente dentro il carattere e si fatica a trovare una chiave di lettura. Anche con una strana regia che ambienta l’opera in un contesto spiazzante, se si ha compreso a fondo il ruolo, il modo di parlare e le relazioni, questi rimarranno costanti in ogni ambientazione. A tale proposito, l’esperienza è un altro fattore molto importante nella caratterizzazione di un personaggio. Quando un ruolo si interpreta costantemente e si consolida, dopo molti anni di carriera riesce molto più naturalmente, senza eccessiva finzione, in quanto si diventa quel personaggio. A proposito dell’importanza dell’esperienza, ricordo che molti anni fa, alla Scala, mi chiesero di interpretare Falstaff; ero molto giovane e così mi vidi costretto a rinunciare a quella proposta, ma ebbi il merito di riconoscere che non possedevo la maturità sufficiente per un’opera così complessa. Spesso si pensa che un ruolo sia complicato solo per certi tecnicismi dello spartito, ma la parte più difficile è proprio “trovare” il personaggio, che spesso non coincide con la propria essenza.

A questo proposito, il nome del mio disco Non solo Buffo – inciso nel 2013 con Giovanni Velluti al pianoforte – non deriva solo dall’aver inserito brani seri affiancati da altri, appunto, buffi, ma perché nei personaggi comici che eseguo c’è sempre una nota di serietà. Il comico, per essere tale, dev’essere serio, non può essere un pagliaccio. Per far ridere bisogna credere davvero a ciò che si dice. Ci sono vari personaggi dell’opera che hanno una cattiveria comica di fondo. Un esempio è Don Bartolo, un uomo estremamente malefico che tiene soggiogata Rosina e che vuole sposarla per appropriarsi della sua dote, eppure è un personaggio comico nella sua cattiveria. Altro esempio è Don Magnifico, padre di Cenerentola, che arriva perfino a dire a colui che poi si rivelerà come principe che sua figlia è morta, con lei presente; una scena del genere raggela il sangue. Mustafà, altro personaggio orribile, si addolcisce quando si innamora, un momento in cui si vede il cambiamento e che lo rende comico. E poi non bisogna dimenticare che al giorno d’oggi la figura del basso comico è molto cambiata. «Non ci sono più dei veri bassi comici, la maggior parte ormai sono baritoni», mi diceva Paolo Montarsolo, con cui ho studiato.

Un’immagine tratta dal Don Giovanni di Mozart andato in scena allo Sferisterio di Macerata con Ildebrando D’Arcangelo (Don Giovanni) e Carmela Remigio (Donna Elvira), con la regia di Pier Luigi Pizzi.

Un’ultima domanda, Maestro Lepore. Che idea si è fatto delle regie operistiche che tendono a épater le bourgeois, ossia a provocare scandalo, con Don Giovanni che diviene un tossicodipendente, Otello che magari si scopre omosessuale o Violetta che sa di essere sieropositiva? Al di là dell’iperbole, attualizzare all’estremo trame e concezioni estetiche e sociali appartenenti al passato è un’operazione lecita a suo dire, oppure c’è un limite che non dev’essere superato?

Naturalmente è necessario valutare caso per caso, senza generalizzare troppo. Ritengo che il limite insuperabile sia di non stravolgere i rapporti tra i personaggi e il senso complessivo dell’opera, altrimenti si rischia che questa venga strumentalizzata per altri scopi. In Germania, ad esempio, c’è l’abitudine di fare grandi stravolgimenti operistici. Non è una questione di ambientazione, che spesso può essere traslata nel tempo e attualizzata – il messaggio dell’opera non è solo legato al contesto in cui è stato scritto -, però bisognerebbe sempre cercare di rimanere coerenti con il testo, poiché il rischio che si concretizza spesso è di travisarlo completamente. Ad esempio, anni fa vidi un regista interpretare la risata del duetto di Don Pasquale con Malatesta come un malore, e questo è distorcere totalmente il senso della battuta. I librettisti sono molto precisi nell’indicare l’espressività dei loro testi e non possono essere fraintesi così all’estremo.

Alcune opere, come Così fan tutte di Mozart, si prestano ad essere attualizzate e presentate in un’epoca diversa. Lo stesso Don Pasquale è molto attuale, e sta al regista saper riambientare l’opera senza stravolgerla; in questa produzione, Antonio Albanese ha sapientemente portato l’opera nelle colline della Valpolicella mantenendo coerente il messaggio inalterato.

Luca Ronconi curò la regia di Falstaff per ben tre volte, al punto che parlando di quest’opera, diceva testualmente “il mio Falstaff”. Ma oggi siamo in un epoca in cui le opere sono dei registi, che possono interpretarle a proprio modo. Tornando a Ronconi, il suo terzo e ultimo Falstaff, a cui ho partecipato, è stato letto in una chiave diversa: una caduta nel fiume come quella di Falstaff potrebbe essere fatale per un uomo della sua età. Ronconi quindi immaginò il seguito attraverso una dimensione “onirica”. Non dimentichiamo che lo stesso regista, al tempo della produzione di tale opera, si trovava nell’ultima parte della sua vita e quindi ha voluto dare una connotazione più seria, senza però travisare il senso dell’opera. La regia è un’arte, l’opera è già scritta e codificata e sta al regista reinterpretarla senza essere ripetitivo: ecco perché non tutte le produzioni hanno la fortuna di essere apprezzate dal pubblico.

Marco Pegoraro