Intervista al giovane regista che ha curato l’allestimento dell’Elisir d’amore di Donizetti al Castello dei Carraresi a Padova, la cui prima andrà in scena il prossimo 2 agosto
Yamal Das Irmich che cosa l’attrae in particolare del capolavoro di Donizetti? Come viene descritta l’ambiguità morale, tema quanto mai attuale nella società odierna, oppure la dimensione di un amore puro, totale, come quello dimostrato da Nemorino, rispetto alla dimensione del “sentimento calcolato”, altro aspetto che è presente nei rapporti umani?
La risposta è già nella sua domanda, in quanto l’Elisir d’amore presenta l’amore puro, assoluto rappresentato dalla figura di Nemorino, sia l’elemento del calcolo, della strategia incarnata dalla figura di Adina, almeno nella prima parte dell’opera. Da qui, la sua estrema attualità in quanto, allargando la forbice, si capisce bene come questi due poli portino alla presenza di altri due aspetti che sono quantomeno tipici e radicati nella nostra società contemporanea, ossia la dipendenza da qualcuno o da qualcosa e l’effetto placebo, che nel capolavoro donizettiano è rappresentato naturalmente dalla figura dell’imbonitore Dulcamara.
Quale tipo di regia ha voluto dare a quest’opera? Su quali punti di attinenza si è basato per delinearla? E, soprattutto, quale ambientazione ha voluto scegliere?
Premetto che sono sempre più convinto che la figura del regista debba essere sempre ed esclusivamente al servizio della musica, quindi del compositore, e del testo, ossia del librettista dell’opera. Non bisogna mai mettere da parte la ricerca che porta alla comprensione di come sia nata quell’opera e per quale motivo è stata creata. Da qui, si possono assimilare i meccanismi che la muovono, le dinamiche dei personaggi e della loro psicologia, come si svolgono gli eventi narrati. Quindi, alla luce dell’estrema attualità dei temi trattati dall’Elisir d’amore, ho voluto inserire l’opera in un’ambientazione che richiamasse il monitor di un personal computer, capace di proiettare diversi mondi all’interno dei quali i personaggi si muovono e agiscono, tutti dipendenti da qualcosa o da qualcuno, come ho già accennato prima. Così, abbiamo Nemorino che ho trasformato nella figura di un poeta “sfigato”, il quale spasima per Adina con un amore assoluto, che lo spinge a comporre e a cantare per lei delle poesie/arie con le quali cerca di sfogare la dipendenza di cui ho già detto. Dipendenza che coinvolge anche gli altri personaggi, a cominciare da Adina, che è dipendente da ella stessa, dalla sua volontà di calcolare e di manovrare gli altri, proseguendo con Giannetta, che è dipendente dal “virus” del gossip, con Belcore, il quale ragiona e si comporta come se vivesse la realtà effettiva come una realtà virtuale a causa della passione che ha per i videogiochi. E, infine, abbiamo Dulcamara, il quale è dipendente dalla volontà di creare dipendenza negli altri con le pozioni e gli intrugli di cui illustra mirabolanti e del tutto fasulle proprietà meravigliose.
Ha avuto modo di allestire l’Elisir d’amore con un cast fatto di voci giovani, così come lo è il direttore orchestrale Nicola Simoni. Quali sono i vantaggi nel lavorare con artisti giovani e quali, a suo parere, possono essere, sempre che vi siano, i possibili svantaggi?
Personalmente, non faccio discriminazioni e non manifesto preferenze alla luce dei dati anagrafici altrui. L’esperienza mi ha insegnato che in questo lavoro ciò che conta è il rapporto individuale con l’artista, giovane o meno giovane che sia. Ciò che conta è la fase dell’incontro, della collaborazione, dello scambio proficuo che ci può essere tra regista e artista, poiché solo in questo modo, con questo meccanismo di coinvolgimento reciproco può venirsi a creare quell’armonia professionale che è imprescindibile se si vuole ottenere un determinato risultato in termini di obiettivo e di riuscita della messa in scena.
Con la progressiva importanza data dalla regia nel mondo del teatro lirico, la figura del regista nel corso degli ultimi anni è diventata, se mi passa il termine, “invasiva” anche nei confronti della direzione d’orchestra (quanto è capitato subito dopo la fine della prima della Giovanna d’Arco alla Scala nel 2015, quando il regista Moshe Leiser ha insultato pesantemente Riccardo Chailly, è ancora vivo nella memoria). Secondo lei è giusto che un regista possa interferire nelle scelte direttoriali, così come è lecito che un direttore d’orchestra possa avanzare dubbi o pretese sulle scelte registiche, arrivando al punto addirittura di rifiutarle? La convivenza, tra questi due poli, è ancora possibile o è destinata a diventare sempre più difficile?
Non è facile rispondere a questa domanda. L’unica cosa che mi sento di dire e che in parte ho già esposto con la precedente risposta, è che tra regista e direttore d’orchestra, soprattutto al mondo d’oggi, che permette di riprodurre nelle registrazioni, non solo la traccia audio, ma anche quella video, deve venirsi necessariamente a creare un’alchimia che però non è facile da ottenere. Si tratta di un sottile, ma doveroso, equilibrio, un mutuo dare e avere tra queste due entità che devono tradurre in azione con la musica, con la narrazione, con scelte interpretative e sceniche tutto l’iter narrativo dell’opera.
A proposito di grandi registi. Lei ha avuto la possibilità di lavorare e di confrontarsi con un “mostro sacro” come Graham Vick, per non parlare delle sue collaborazioni con Franco Zeffirelli, Hugo de Ana, Pier Luigi Pizzi, Gianfranco de Bosio. Che cosa le hanno insegnato l’uno e gli altri?
Più che insegnare, preferirei dire gli influssi che ho potuto avere da parte loro. È indubbio che Graham Vick abbia lasciato in me un influsso molto forte. Tenga conto che quando lascio i panni del regista d’opera per calarmi in quelli dello spettatore, è difficile che in teatro mi possa commuovere, ma quando nel 2004 all’Arena di Verona vidi La traviata con la regia di Vick non potei fare a meno di piangere. Ed è a Vick che ho dedicato la mia tesi di laurea, nella quale ho messo in luce come in questo regista inglese convivano tanti registi quante sono le opere che allestisce. E questo perché se c’è una cosa che Vick ha saputo insegnarmi è che ogni opera ha in sé una propria anima che dev’essere rispettata da una parte ed esaltata dall’altra. Per ciò che riguarda i possibili influssi dati dagli altri grandi registi con i quali ho collaborato, posso dire che da Hugo de Ana ho appreso il senso dell’estetica del tutto, da Pier Luigi Pizzi la gestione delle masse sul palcoscenico, da Franco Zeffirelli l’acting dei cantanti, ossia di come devono saper recitare sul palcoscenico oltre che cantare, senza dimenticare la sua capacità di creare sorprese sceniche all’interno dell’opera e, infine, da Gianfranco de Bosio il fatto che un’opera lirica è un cammino che ha un inizio, ma mai una fine.
Ultima domanda di rito: quali saranno i suoi prossimi lavori come regista operistico?
Allo stato attuale sono in trattativa con alcuni teatri esteri, ma non c’è ancora nulla di definitivo.
Andrea Bedetti