Dopo aver pubblicato per la Da Vinci Classics due dischi, il primo, assai interessante per il tipo di progetto, intitolato The Art of Polyphony. Bach Influences across the Centuries, e il secondo dedicato a pagine chopiniane, tra cui la Sonata n. 2 in si bemolle minore, il giovane pianista desenzanese Paolo Rinaldi, sempre per la label di Edmondo Filippini, ha voluto affrontare un altro “mostro sacro”, vale a dire il dio Johannes Brahms, presentando la Sonata n. 2 in fa diesis minore op. 2, le Quattro Ballate op. 10 e le Venticinque variazioni e fuga in si bemolle maggiore per pianoforte, op. 24 su un tema di Georg Friedrich Händel.
Nell’allestire la playlist, Rinaldi ha optato per una presentazione di tale programma in modo centripeto, ossia partendo dall’opus più maturo, le Händel-Variationen, passando poi alle Quattro Ballate e concludendo con la Sonata op. 2; un viaggio pianistico a ritroso in modo da offrire e spiegare quei meccanismi compositivi, armonici e melodici che portarono il giovane pianista amburghese a diventare un genio assoluto e non solo nell’arte pianistica. Come dire partire dall’effetto per risalire fino alla causa, andando a chiudere il cerchio di quell’insieme matematico brahmsiano che può essere racchiuso con la denominazione di “Periodo entusiasta”.
Quindi, rispettando l’ordine della playlist, inizio proprio dalle Händel-Variationen; considero la lettura fatta di questo capolavoro da parte di Paolo Rinaldi come una precisa scelta sul solco storicistico-formale. Che cosa intendo dire? Che fondamentalmente il pianista lombardo ha voluto rispettare la volontà “estetica” dell’autore fatta in quel preciso momento della sua vita, e quindi storico, ossia all’indomani della sua firma aggiunta nel 1860 al celebre manifesto contro la cosiddetta “Scuola neotedesca”, votata a una “ristrutturazione” del verbo musicale germanico in salsa lisztiana-wagneriana, satura di cromatismo, di tormento, di alterazione emotivo-lessicale, dalla quale Brahms in chiave creativa e Hanslick in quella critica si tenevano alla larga come la peste bubbonica. Il Brahms del 1860 è quello che l’anno successivo andrà a confezionare proprio le Händel-Variationen, seguite due anni dopo dalle Bach-Variation, vale a dire due opere con le quali il sommo genio amburghese va a delineare compositivamente il suo credo estetico sia come forma di reazione al “virus” lisztiano-wagneriano, sia soprattutto come momento di trasformazione e di distacco dal periodo creativo pianistico precedente, quello appunto che può essere racchiuso nell’insieme matematico “Periodo entusiasta”. E se Brahms si rivolge a due numi tutelari come Händel e Bach è per ri-affermare la validità, la centralità, la linea-guida assoluta in nome di una scrittura lineare capace di esaltare il principio della forma.
Cosa che, ascoltando l’interpretazione di Paolo Rinaldi delle Händel-Variationen, appare quantomeno valido nella condotta generale dell’approccio, che rifugge tentazioni e pruderies dannatamente romantiche, ergo una lettura asciutta, scarnificata da ridondanze (e ritornelli, il che porta la durata a soli ventitré minuti), in cui la materia pianistica fa un compiaciuto e ammiccante occhiolino a un touche clavicembalistico. Allora, essenzialità della linea e della forma, enunciate chiaramente fin dal tema händeliano, la cui matematicità sonora risuona come una firma a posteriori del manifesto in questione. Quello presentato da Rinaldi è un barocco visto in chiave analitica, un dipinto di Mondrian applicato alla tastiera e, se vogliamo metterla sul cartesiano, la rappresentazione del concetto di res extensa scandagliato dalla fisicità del suono. Al contrario, se intendo ascoltare il Brahms che tradisce Händel e, di conseguenza Bach, e desidero veder rappresentata la res cogitans romantica, allora mi affido all’inarrivabile versione di Claudio Arrau registrata dal vivo a Lugano nel 1963 (invito quei miscredenti che non possiedono questa incisione ad ascoltarla su YouTube). Con Arrau, il principio di limitatezza estensiva, che Cartesio racchiudeva nella res extensa, va a farsi benedire perché le sonorità, l’agogica (il sommo cileno arriva a superare i ventotto minuti di durata), la dimensione volumetrica del fraseggio si perdono nelle verdi praterie di ciò-che-non-può-essere-limitato (e continuando nelle similitudini pittoriche, da Mondrian ci tuffiamo in un dipinto della Scuola veneta del Settecento). I trilli del tema, sotto Arrau, diventano istanti nostalgici abissali e tradiscono la storicità formale del brano, mentre sotto Rinaldi si trasformano in una perfetta serie di zero e di uno che danno vita alla manifestazione di una forma che non è solo tradizione, bensì continuazione (e questo termine, con Brahms, è di fondamentale importanza per comprendere il musicista e la sua opera). E lo stesso avviene anche con le venticinque variazioni, il cui punto di riferimento ineludibile è dato sempre dal tema e dagli striminziti mutamenti di tonalità (ricordo che riguardano tre sole variazioni, in si bemolle minore, ed una in sol minore), per cui il pianista desenzanese si affida a una lettura che fondamentalmente rispetta e ossequia quel ritorno programmatico a schemi settecenteschi, rinunciando di fatto a quella “libertà” esecutiva a cui si era lasciato andare Arrau a Lugano (come a dire, musicalmente si può essere felici e realizzati anche senza essere liberi… ).
Se per Brahms continuare significa voltarsi continuamente indietro, allora la scelta di Rinaldi ha un suo perché e un suo per come. Ecco perché penso (ma posso sempre sbagliarmi) che abbia voluto scegliere come primo brano proprio l’op. 24, in quanto fa da spartiacque tra l’insieme “Periodo entusiasta” e quello successivo, sempre in ambito pianistico, che può essere denominato “Nostalgia & quieta amarezza”. Da qui, la scelta del giovane pianista lombardo di “voltarsi indietro” punta su altri due lavori-pietre miliari di tale percorso come le Ballate op. 10 e la Sonata n. 2.
L’op. 10 è ancora odorosa delle alitate schumanniane (soprattutto la prima Ballata in re maggiore e la quarta in si maggiore) e rappresenta l’apice di quei sentori “eroici” che avevano accompagnato il giovane e biondo Brahms davanti all’uscio di casa della famiglia Schumann a Düsseldorf. Quando, su suggerimento del suo mentore, il compositore amburghese le propose per la stampa all’editore Bartholf Senff, volle aggiungere queste parole di accompagnamento: «Non sono difficili da eseguirsi e sono meno difficili da capirsi». Puttanate: in realtà, una difficoltà la vantano eccome, quella di dover essere sempre filtrate interpretativamente nei suoi punti opposti, ossia il saper dominare e decodificare le sfumature sonore (seconda parte della seconda Ballata) così come i ritmi sincopati (terza Ballata); inoltre, non si deve dimenticare l’impianto “narrativo” che questi quattro brani celano nella loro enunciazione, per la precisione il poema scozzese Edward, su chiaro influsso degli aneliti letterari-musicali schumanniani, e che chiaramente fanno puntare il timone verso marosi d’impronta romantica, nei quali Brahms sa ancora destreggiarsi (se proprio dobbiamo affidarci a similitudine marinaresche, per il sommo compositore il saper navigare in mare aperto sta alla sua giovinezza, come il saper cabotare sta alla sua maturità).
Quindi, l’op. 10 impone entusiasmo controllato e rotondità timbriche che non risultino repellenti per i diabetici in fatto di sdolcineria. Un esempio, in tal senso, può essere la lettura fatta da Arturo Benedetti Michelangeli sempre a Lugano dal vivo nel 1973, in cui gli opposti di cui sopra vengono spinti fino a toccare quasi i punti di non ritorno, ma non abbandonando mai un totale controllo della tastiera; questo significa che il pianista bresciano riesce anche a fare in modo di scindere l’unitarietà delle quattro Ballate trattandole e considerandole materia artistica in sé. Quindi, piuttosto che quattro momenti di un poema letterario, si trasformano in quattro dipinti, con scene diverse, ospitati in una quadreria. Rinaldi, al contrario, non si ribella a quanto voluto dalla premiata ditta “Schumann & Brahms” in fatto di un’articolazione musicale che prende le mosse da sensazioni e umori letterari per poterli poi trasformare in altrettanti piani sonori assemblati. Quindi, non dimenticando le sue origini lacustri, Rinaldi accetta la navigazione aperta, pronto ad accettare (e ad ammortizzare) anche le improvvise buriane ventose, così come le improvvide secche che afflosciano le vele, rivelando doti di adeguatezza alla bisogna, dando vita a una lettura in cui l’elemento della concatenazione narrativa non viene mai meno. Ciò non vuol dire suonare in conserva, sulla difensiva, anzi; la sfida interpretativa che accoglie, lo porta ad essere esploratore, a verificare punto su punto la scrittura sonora con ardore e con rassegnazione, due elementi cardine dell’estetica romantica, insomma, vestendo contemporaneamente i panni del titano e della vittima. Prendo ad esempio il suo dipanare la trasformazione timbrica di quel progressivo grattacapo esecutivo che si annida nella quarta Ballata, quel flusso sonoro/temporale che prevede microcesure le quali devono essere scartate senza fretta, anche se si è tentati di fare come un bambino che ha tra le mani il più ambito regalo natalizio e lo deve ancora scoprire. Dominio della materia e del suo svolgersi a livello di realizzazione sonora, capacità di osservazione totale della sua arcata espositiva, progressione parcellizzata fino al dissolvimento finale, quando spunto letterario e costruzione musicale finalmente si uniscono in nome del nulla trionfante, che poi risulta essere il touchdown subliminale di ogni forma espressiva romantica.
Da ultimo, in questo illuminante procedere à rebours, la Sonata n. 2. «“Venghino”, signore e signori, “venghino” ad ammirare come si scoperchia un vaso di Pandora»: in fondo, è da questa suprema prova giovanile che nacque la liaison à trois tra il sommo amburghese e la coppia Schumann, il cementante artistico-esistenziale, anche perché in realtà questa pagina in fa diesis minore rappresenta in assoluto la prima creazione musicale brahmsiana, tramite la quale allegoricamente il biondo dagli occhi cerulei arrivato da Amburgo bussò alla porta düsseldorfiana. Una pagina in cui “alla ricerca della forma perduta” deve ancora essere sistematizzata, semmai sublime spugna di mare che tutto assorbe e restituisce in chiave emotiva (non dimentichiamo che chi la scrisse aveva appena diciannove anni e averne di diciannovenni di siffatta specie… ).
Ascoltando Rinaldi, mi sento pronto ad avanzare l’ipotesi che il giovane pianista lombardo abbia voluto seguire il consiglio di Vincent d’Indy, il quale nelle vesti musicologiche era da leggere con attenzione, quando faceva notare che l’unico approdo di entità formale in questa Sonata avrebbe potuto essere rintracciato in una possibile ricerca di collegamento fra i temi dei quattro tempi, anticipando di fatto la realizzazione della celeberrima “forma ciclica” di César Franck. Qui, il nostro interprete usa la tastiera come la lanterna di Diogene, con il preciso scopo di disciplinare le diramazioni ipervitaminizzate della struttura sonora (va bene essere romantici, ma parbleu!, un po’ di ordine!), senza però restituire un inno allo smosciamento, come si può ascoltare nell’ultimo, pirotecnico tempo, che fondamentalmente, a livello di DNA compositivo, racchiude anche l’essenza dei tre precedenti. La sottigliezza espositiva di Rinaldi, a mio modo di vedere, sta nel fatto che nulla toglie e nulla aggiunge, ma offre all’ascoltatore i pregi (molti) e i difetti (pochi) di questa Sonata; la sua lettura dell’Andante con espressione è foriera di una disciplina ricca di carica espressiva, di un lirismo rappreso, una fantasia che assume connotati quasi spettrali, castrati del loro slancio, mentre nello Scherzo che segue, il nostro interprete non si limita al compitino delle terze e delle seste, ma è in grado di dérouler la loro sostanza in modo convincente, spiegando per quale motivo hanno un sapore ironico, l’inizio di quell’ironia che in Brahms avrà sempre più un gusto salmastro, più agro che dolce.
La presa del suono, effettuata da Gabriele Zanetti, è complessivamente buona. La dinamica riesce a disciplinare adeguatamente il registro medio-acuto così sollecitato dello Steinway D274, grazie a una più che discreta velocità ed energia. Il parametro del palcoscenico sonoro ricostruisce lo strumento al centro dei diffusori, sfruttando una sufficiente profondità in modo da lasciar trapelare anche lo spazio fisico circostante. L’equilibrio tonale, anche grazie a quanto fatto dalla dinamica, non tradisce un senso di correttezza nell’esporre il registro grave e quello medio-acuto, mentre il dettaglio non fa mancare una dose rassicurante di matericità.
Andrea Bedetti
Johannes Brahms – Piano Works
Paolo Rinaldi (pianoforte)
CD Da Vinci Classics C00900
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5