Abbiamo intervistato l’architetto Marianna Accerboni, massima studiosa della pittrice e scenografa triestina d’elezione, la quale ha allestito proprio a Trieste, presso il Magazzino 26, una mostra, che sarà inaugurata il 26 giugno 2021, in grado di presentarne i tanti interessi artistici e culturali
Architetto Marianna Accerboni, per quale motivo un’artista così rilevante e multiforme come Leonor Fini viene ricordata finalmente in modo sistematico e a tutto tondo solo a venticinque anni dalla sua morte?
In realtà c’è stato qualche altro exploit espositivo, ma ciò che a mio parere è rilevante è che questa è la prima mostra che indaga il rapporto della Fini con Trieste, che lei considerava la sua città del cuore, il suo fondamentale ambito di formazione. Leonor era infatti nata a Buenos Aires nel 1907, ma un anno dopo era stata portata a Trieste dalla madre, in fuga dal marito, un facoltoso commerciante di origine beneventana violento e fedifrago. Così la piccola Fini era cresciuta in questa città speciale, sospesa tra cultura mitteleuropea e suggestioni italiane, allora città d’avanguardia e dalle molteplici etnie. Fucina di talenti che sarebbero divenuti noti a livello internazionale come il grande gallerista Leo Castelli, promotore della Pop art nel mondo, Gillo Dorfles, estetologo e artista di fama, Arturo Nathan, raffinato pittore oggi quotatissimo, Bobi Bazlen, il grande traghettatore della letteratura dell’Est europeo in Italia attraverso la porta d’Oriente di Trieste: personaggi suoi coetanei, che lei frequentò assiduamente, assieme a Saba e a Svevo, nel periodo giovanile vissuto a Trieste. A 15 anni Leonor chiuse però con la scuola e si dedicò completamente all’arte, da autodidatta di talento, sostenuta dai suggerimenti degli artisti triestini Carlo Sbisà, Edmondo Passauro e dello stesso Nathan. Nel ’29 iniziò a frequentare l’ambiente artistico milanese, in particolare il pittore Achille Funi, e a esporre in quella città, e due anni dopo si trasferì definitivamente a Parigi. Ma a Trieste sarebbe rimasta sempre legatissima, anche perché vi abitava la madre Malvina Braun, che, coadiuvata nell’educazione di Leonor dal proprio fratello Ernesto e dai nonni, era per lei “la famiglia”. Trieste - ricorderà poi negli anni l’artista - rappresentò per tutta la vita il nucleo dei suoi affetti e il tono vagamente Biedermeier del salotto di Malvina riapparirà, implementato da accezioni Liberty di sapore francese, anche nella casa di Parigi di Leonor e in quella di campagna a Saint-Dié-sur-Loire: un’atmosfera sapientemente ricostruita al Museo dell’Hospice Saint-Roch di Issoudun in Francia, che ho voluto “citare” anche in mostra attraverso dettagli espositivi che alludono all’arredo d’interni viennesi e triestini.
Quanto è stato difficile organizzare e dare vita a questo allestimento? Quali sono stati gli oggetti e le opere più ardui da reperire e mostrare al pubblico?
Non è stato difficile perché l’allestimento è la naturale conseguenza dello studio approfondito sulla figura dell’artista protagonista di una rassegna. Da anni mi sono dedicata ad analizzare la pittura e il temperamento di questa pittrice poliedrica e raffinata, capace di evolvere il proprio linguaggio attraverso tecniche e tematiche diverse, oscillando dalla pittura alla scenografia e alla costumistica, dal disegno all’incisione e all’illustrazione, dal ritratto alla rappresentazione di mondi misteriosi e sconosciuti, spesso metafisicamente inquietanti. E forse pochi sanno che fu anche scrittrice di testi fantastici e originali. La sua inclinazione al travestimento, attraverso la quale fece spesso di se stessa un’opera d’arte secondo parametri concettuali molto contemporanei, è stata una scelta forse istintiva, dovuta al fatto che da bambina, per evitare che il padre o i suoi emissari inviati dall’Argentina la rapissero, la mamma la travestiva da maschietto. Ma ciò aggiunge una valenza positiva in più alla sua arte, attualizzandola e conducendola verso il versante teatrale. Così anche la mostra al Magazzino 26, notevole esempio di archeologia industriale quasi coevo rispetto a Leonor e nato, come lei, sotto la dominazione asburgica, è pensata come un piccolo palcoscenico. Su una pedana a tre gradini c’è lei, moderna, surreale, simbolica, dominante e divina, come appare in molte foto, soprattutto in quelle realizzate a Nonza in Corsica negli anni Settanta. Sul boccascena accennato del Magazzino 26 la Fini è ”interpretata” e simbolizzata da alcuni suoi abiti, tutti un po’ stravaganti ma con classe, mentre tutt’intorno “scorrono” le sue opere, suddivise in diverse sezioni: I racconti fantastici, Il segno, L’illustrazione, La figura muliebre, Sua Maestà il gatto, Il bon ton, Le ceramiche decorate per la Società Ceramica Italiana di Laveno-Mombello (Varese) accanto alla sezione che analizza, attraverso un’indagine grafologica e letteraria comparata, la liaison tra Leonor e gli amici Nathan e Dorfles, approfondendo il legame tra questi tre grandi artisti visionari nella Trieste d'avanguardia degli anni '20 e '30. In mostra ho poi voluto inserire dei brani surrealisti ispirati a Leonor e composti dal musicista italo-brasiliano Paolo Troni appositamente per l’esposizione, che verranno interpretati all’inaugurazione dalla violista Sara Zoto, rimanendo poi diffusi in mostra quale colonna sonora durante tutto il periodo della rassegna. Ho ideato anche due profumi in ricordo della passione della Fini per le fragranze, che sono stati realizzati da Angela Laganà, creatrice di loghi olfattivi molto importanti in contesti d’eccellenza in Italia e all’estero. Ed ecco “Lolò”, una profumazione intensa, con una nota di cannella, spezia molto diffusa a Trieste e nella cucina locale, di tradizione austro-tedesca, ungherese e balcanica. Un soprannome, Lolò, con cui Leonor era chiamata in famiglia e dagli amici nel suo periodo giovanile a Trieste. “Kot” s’intitola invece la versione blandamente maschile della fragranza, perché lei amava i maschi dalle fattezze molto delicate ed efebiche. Il termine in polacco vuol dire “gatto” ed era proprio così che Leonor chiamava Constantin Jelenski, il compagno nato in Polonia, con cui condivise un buon tratto della sua vita in un ménage à trois condotto anche con il pittore ed ex diplomatico Stanislao Lepri. In ogni caso il corpus di opere più complesso da reperire è stato quello composto da una trentina di porcellane e terraglie forti, realizzate soprattutto nei primi anni Cinquanta dalla Società Ceramica Italiana di Laveno-Mombello, fondata nel 1856 e fusasi nel 1965 con la Richard Ginori. Per tale azienda la Fini creò vari disegni a tema Maschere, Gatti, Pagliacci e Sfingi, probabilmente coinvolta in tale lavoro dal direttore di produzione della fabbrica, Guido Andloviz, anche lui di origine triestina, considerato un innovatore del design di quegli anni, al pari di Giò Ponti. E fu così che le porcellane e le terraglie forti, la cui forma era stata progettata proprio dall’architetto Andloviz, decorate con decalcomanie tratte dai disegni di Leonor e con disegni impressi a stampa, finirono alla Triennale di Milano del ’51. Oggi sono rarissime e in mostra rappresentano una chicca perché risultano per lo più ignote e non sono mai state pubblicate nei numerosi e spesso preziosi e rari cataloghi e libri d’arte dedicati alla pittrice.
Attraverso anche le testimonianze di chi l’ha conosciuta personalmente e frequentata, lei che idea si è fatta di Leonor Fini? Se le sue qualità e doti artistiche sono sotto gli occhi di tutti grazie alle opere esposte, quali sono state invece le sue qualità umane?
Era una donna forte, originale indipendente, libera anche sessualmente e per quanto riguarda la parità tra i sessi e ciò dipende certamente anche dal tipo di educazione ricevuta in una famiglia della buona borghesia mitteleuropea, quale era la sua. Non va dimenticato infatti che nella Trieste del primo Novecento era per esempio consueto il fatto che le signore si recassero al caffè da sole, abitudine non molto diffusa nel resto d’Italia. La Fini ha poi impersonato un luminoso esempio di self made woman, riuscendo a raggiungere rapidamente il successo come artista già nella Parigi degli anni Trenta e, in seguito, a livello internazionale.
Che rapporto ha avuto Leonor Fini con la musica? A livello artistico, ha avuto una debita rilevanza nel suo processo creativo? È stata amica di musicisti e compositori nella Parigi di prima e dopo la guerra?
Fin dal suo arrivo a Parigi nel 1931, riuscì a inserirsi, grazie alla conoscenza di Filippo de Pisis, nel milieu aristocratico della capitale francese, frequentando contemporaneamente la bohème d’élite che si riuniva al Caffè Aux deux Magots. Certamente incontrò gli artisti, gli scrittori, i poeti, i fotografi, i couturier, i musicisti più importanti dell’epoca. Ma, anche se la musica faceva parte per consuetudine di un certo ambiente colto del suo tempo in generale e di un certo tipo di educazione mitteleuropea in particolare, il suo rapporto con la musica non è stato sfolgorante né determinante. Anche se, certamente, un’affinità con le note dovette averla, dal momento che disegnò spesso costumi e scenografie per il teatro, oltre che, talvolta, per il cinema.
Lei, nel corso degli anni, ha voluto dare vita a specifici percorsi espositivi dedicati a grandi personalità della cultura e dell’arte triestine del Novecento, vale a dire il pittore Arturo Nathan, il poeta Umberto Saba, il grande critico Gillo Dorfles e, per l’appunto, Leonor Fini. Questo percorso di proposta e presentazione continuerà anche in futuro con altri personaggi che hanno fatto la storia di Trieste nel secolo scorso?
Penso di sì, dopo aver vissuto vent’anni a Venezia, ho riscoperto Trieste proprio attraverso questi personaggi cardine della cultura e dell’arte internazionale. Il prossimo appuntamento riguarderà proprio Guido Andloviz (Trieste, 1900 - Grado, 1971), fine e innovativo designer, al quale accennavo prima. Tutti questi protagonisti del milieu artistico-culturale triestino, di cui negli anni scorsi ho approfondito l’attività e il temperamento, erano accomunati dal fatto di essere protesi verso il futuro attraverso le avanguardie. Ciò, molto probabilmente è accaduto perché erano vissuti in un clima culturale di riferimento centro europeo, poiché questa era la collocazione culturale e geografica di Trieste nell’ambito dell’Impero asburgico. Avevano operato quindi a stretto contatto con le Accademie di Monaco, di Vienna e di Berlino, culle dell’innovazione, dove giungevano anche importanti novità provenienti dall’Est europeo e dalla Russia e dove, oltre all’accademia di Venezia, ebbe modo di formarsi la maggior parte degli artisti triestini.
Andrea Bedetti