Leonardo Mezzalira ha intervistato il giovane violoncellista romano, uno dei protagonisti della musica contemporanea internazionale, che confessa la propria predilezione per alcuni mostri sacri come Iannis Xenakis e Helmut Lachenmann
Gioviale ed effervescente, Michele Marco Rossi è un musicista che non risparmia gli sforzi: a trentadue anni ha alle spalle più di cento prime esecuzioni dedicate alla nuova musica e ha collaborato strettamente con molti dei principali compositori italiani, da Fabio Vacchi ad Alessandro Solbiati passando per Ivan Fedele e Lucia Ronchetti. Ci incontriamo mentre è a Padova per suonare alla prima assoluta di una nuova versione di Passionis Fragmenta di Salvatore Sciarrino, con l’OPV diretta da Marco Angius. Tra pochi giorni, domenica 23 maggio, tornerà in città per esibirsi da solista in un concerto organizzato dagli Amici della Musica di Padova in collaborazione con Taverna Maderna, CIDIM e Sampl. Il programma prevede brani ormai classici di Jonathan Harvey, Enno Poppe e Iannis Xenakis, nuove realizzazioni di Hannes Kerschbaumer ed Evis Sammoutis e due flashback sulla musica profana antica.
Il programma del tuo concerto di domenica è ricco di riferimenti a sonorità mediterranee e orientali: Curve with plateaux di Jonathan Harvey richiama i canti buddisti, Herz di Enno Poppe contiene riferimenti al maqam (il sistema arabo di modi microtonali), Kottos di Xenakis allude alla mitologia greca e Nicosia Etudes di Evis Sammoutis rimanda all’universo sonoro di Cipro.
Sì, soprattutto quello mediterraneo è un tema a cui tengo molto. Mentre nei brani di Harvey e di Poppe si percepisce un sentore orientale, Xenakis è legato al Mediterraneo in una maniera estremamente concreta e attuale: in lui si ritrovano, mescolati, il senso d’appartenenza alla cultura derivante dall’antica Grecia e il dramma della violenza che ancora oggi ricorre nella storia del nostro mare. Evis Sammoutis dal canto suo è un compositore cipriota (ora insegna negli Stati Uniti, non a caso nella città di Ithaca); nel suo brano sono trasfigurate in maniera simbolica le contraddizioni di Nicosia, la città divisa tra le due repubbliche di Cipro. Anche la Chanson medievale è legata a questo tema, perché si tratta di un brano di origine turca che è approdato nella penisola iberica al seguito delle comunità sefardite; il testo è in lingua spagnola arcaica e fa riferimento al sogno di una fanciulla. Tre aspetti diversi del Mediterraneo legati da un lato al nostro comune patrimonio simbolico e dall’altro all’attualità.
Accanto ai brani del repertorio recente, ci sono in questo concerto alcuni brani in prima esecuzione assoluta e altri che comunque hai eseguito tu per la prima volta. Quali sono?
Nicosia Etudes di Sammoutis sarà una prima assoluta. Nucleo di Kerschbaumer è stato eseguito in prima assoluta lo scorso novembre, sempre da me, mentre di Herz di Enno Poppe e Mood di Arturo Fuentes ho realizzato la prima italiana.
E con quali dei compositori hai lavorato direttamente?
Con tutti, tranne quelli che purtroppo non ci sono più: Harvey e Xenakis. A proposito di Enno Poppe ti dirò di più: senza conoscerlo avrei trovato molto più difficile avvicinarmi alla sua musica. Lui incarna la musica che scrive con tutta la sua persona, dall’aspetto interiore fino all’aspetto fisico. Il gesto direttoriale di Poppe è la sua musica. Credo che, sia per un compositore sia per uno strumentista, questa capacità di riversare se stessi nella musica con estrema sincerità sia uno degli obiettivi più grandi che si possano raggiungere.
E tu ci riesci?
Questa è una domanda troppo complessa! Parlare di se stessi è pericoloso, c’è il rischio di sgretolarsi completamente. Credo che più che analizzarsi, ciascuno debba concentrarsi su quello in cui crede nel modo più viscerale possibile.
Come Enno Poppe.
E come Helmut Lachenmann. Ricordo che nel 2015 suonai a un concerto con l’Ensemble Modern: il compositore era presente e c’era un passaggio che non mi riusciva bene. Io ero terrorizzato da Lachenmann, che è imponente anche nell’aspetto fisico, e conoscevo la sua competenza nella resa degli effetti strumentali. L’avevo visto prendere lo strumento dalle mani di un amico e fargli sentire un effetto con una precisione che, da parte di un non violoncellista, non avrei creduto possibile. Quando alla fine il passaggio mi riuscì, percepii il suo sollievo: alla fine del concerto venne da me e mi disse «Scusa, forse la mia musica è troppo piena di suoni brutti… ». Capii di essere di fronte a un gigante buono e sulle prime gli dissi quanto apprezzavo la sua musica. Poi mi resi conto che era riuscito a farcela comprendere meglio con la sua stessa presenza! Incontrare un grande compositore, sia famoso o meno, non ti lascia mai indifferente: ti cambia nel profondo, perché riesce a trasmettere la propria verità attraverso la musica che scrive.
Di incontri ne hai fatti tanti. Come ti senti ora che ti sei ricavato un tuo posto nel mondo della musica contemporanea?
In realtà, verso questa corsa a conquistarsi un proprio spazio di visibilità ho sentimenti contrastanti. Se c’è qualcosa che spero di aver imparato è che lo spazio a cui ambire è uno spazio artistico, personale, che non ha a che vedere con il numero dei concerti che fai, con il prestigio delle persone con cui collabori o delle sale in cui suoni. Una volta che hai suonato nella sala più importante di tutte, che obiettivo ti rimane? Certamente conosco il valore dell’ambizione e la felicità anche legittima che consegue un riconoscimento: ad esempio ho provato una felicità simile dopo aver ricevuto un brano di Ivan Fedele dedicato a me. Ma ad un certo punto è necessario ridimensionare questo genere di sentimenti, comprendere che non possono essere il centro del proprio percorso.
Quindi quali sono i tuoi desideri per il futuro?
Continuare a lavorare con i compositori che amo e riuscire a vivere in modo sempre più vero e intenso il mio percorso artistico. In altre parole, trovare una corrispondenza sempre più forte tra quello che sono e quello che faccio.
Leonardo Mezzalira