La generazione di quei compositori nati intorno al 1870, vale a dire, tanto per fare qualche nome, Schönberg, Ravel, Skrjabin, Ives, Reger, è nota per essere stata quella, vuoi in chiave stilistica, vuoi in chiave dell’evoluzione armonica, che ha contrassegnato l’avvento del modernismo nei primissimi decenni del Novecento. A questa generazione, ma solo a livello anagrafico e non certo per le attitudini e le peculiarità artistiche, appartiene anche un musicista come Sergej Rachmaninov, il quale si è ritagliato la qualifica di “reazionario” per eccellenza, del tutto insensibile al nuovo che stava sbocciando intorno a lui. Quanto a Sergej Prokof’ev (che non appartiene alla “generazione del Settanta”, essendo nato nel 1891), il suo nome appartiene di diritto a quel gruppo di artisti che fecero dell’avanguardia e dell’innovazione il riferimento assoluto. Certo, non mancano le incongruenze storiche, in quanto se Rachmaninov, reazionario anche in politica, sfuggito alla Rivoluzione russa, scegliendo un esilio dorato in terra californiana, confezionò un repertorio musicale che avrebbe fatto invece felici gli epigoni del formalismo staliniano e ždanoviano, da parte su Prokof’ev decise di rientrare in Unione Sovietica nel 1936, dopo aver lasciato la patria diciotto anni prima, affrontando un sentiero musicale che, sebbene non periglioso e rischioso come quello scelto dall’amico Šostakovič, gli causò non pochi problemi con l’establishment culturale sovietico.
I termini di questa paradossale incongruenza politico-artistica si riflettono esemplarmente in due delle quattro composizioni prese in esame da questo disco registrato dalla pianista russa Sofya Gulyak, la quale di Rachmaninov ha presentato le Variazioni su un tema di Corelli op. 42, mentre di Prokof’ev quella che viene inclusa nel gruppo di opere denominate, alquanto impropriamente, le “sonate di guerra”, ossia la Sesta sonata in la maggiore op. 82. Con esse altre due composizioni, entrambe di un altro “nostalgico” della musica pianistica (e non solo) ottocentesca, i Quattro racconti folkloristici op. 26 e la Sonata tragica op. 39 n. 5 del russo Nikolaj Metner, amico dello stesso Rachmaninov, che dopo l’avvento dei bolscevichi in patria decise di lasciare l’Unione Sovietica per trasferirsi e vivere, all’indomani di una tournée effettuata negli Stati Uniti e Canada, a Londra. Quindi, l’opera artistica di Rachmaninov restò ancorata ai gesti anche magniloquenti e alle effusioni sentimentali del tardo romanticismo, del tutto immune rispetto alle irruzioni avanguardistiche e alle riflessioni epocali che sconvolsero inesorabilmente il panorama della musica nei primi quattro decenni del Novecento, votato fino all’anacronismo alle forme e alle formule del pianismo romantico, tali da trasformarlo in una sorta di animale preistorico sopravvissuto alle varie epoche geologiche e chiuso nella sua solitudine dorata nella dacia che seppe ricreare nella collina di Beverly Hills, venerato e idolatrato dalla buona borghesia bianca statunitense la quale, però, all’apparire delle Variazioni su un tema di Corelli rimase alquanto sconcertata. Questo perché esse sfuggono a quel processo di incasellamento nel repertorio nostalgico rachmaninoviano, dominato dai Preludi e dai quattro Concerti per pianoforte e orchestra. Composte in Svizzera nell’estate del 1931, le Variazioni rappresentano l’ultima opera per pianoforte del musicista russo naturalizzato americano, se si escludono alcune revisioni di lavori precedenti e sono tra le pochissime composizioni di Rachmaninov che non riscossero un successo immediato. Lo stesso compositore, che le suonò in prima assoluta nell’ottobre di quello stesso anno a Montreal, bravissimo nel captare d’acchito gli umori del pubblico e resosi conto del nervosismo che serpeggiava nella sala, si vide costretto a praticarvi dei tagli improvvisati. Non solo, visto che nelle esecuzioni successive Rachmaninov presentò di queste Variazioni solo degli estratti senza mai riuscire a suonarle integralmente. Questo perché le Variazioni sono contraddistinte, a differenza delle precedenti opere, da un costrutto e da un impegno formale più severo, caratterizzate da una maggiore economia di mezzi e da una ricerca più sottile nelle elaborazioni (ossia due peculiarità che risultano sempre indigeste in ascoltatori non preparati e affascinati solo dagli “effetti speciali” sulla tastiera), con il tema prescelto, celeberrimo, utilizzato tre secoli prima da Arcangelo Corelli nel finale dell’ultima Sonata dell’opera quinta per violino e basso continuo.
La Sesta sonata, invece, fu iniziata otto anni dopo le Variazioni di Rachmaninov (ed eseguita in prima assoluta dal sommo Sviatoslav Richter, che l’amava moltissimo, nell’aprile del 1940, a un passo dall’entrata in guerra con la Germania da parte dell’Unione Sovietica) e siamo, ovviamente, su un altro pianeta sonoro, con il compositore di Krasne che in quell’epoca aveva individuato nella sonata uno strumento artistico per continuare fattivamente la propria ricerca musicale, cautelandosi allo stesso tempo da possibili accuse di “formalismo” che gli sgherri di Ždanov dispensavano a destra e a manca con chi osava “infettare” l’arte sovietica con il “virus” delle tendenze più moderniste.
La lettura che Sofya Gulyak ha fatto di queste due opere (senza nulla togliere a Metner, ma sia la Sonata Tragica, sia soprattutto i Quattro racconti folkloristici non possono di certo vantare la profondità e la dimensione creativa di quelle di Rachmaninov e di Prokof’ev) mi ha fatto tornare alla mente quanto spiegò in modo esemplare il grande pianista e didatta ucraino Heinrich Neuhaus in quel testo che ogni studente di pianoforte dovrebbe leggere e riflettere almeno una volta, L’arte del pianoforte, che si riassume in una delle massime preferite del grande artista e insegnante: “intelligenza fredda e cuore ardente”. Ecco, Sofya Gulyak, la quale è stata, tra l’altro, la prima donna ad aggiudicarsi nel 2009 il primo premio e la medaglia d’oro Principessa Maria al XVI Concorso Pianistico Internazionale di Leeds, ha affrontato e dipanato le Variazioni Corelli e la Sesta sonata con intelligenza fredda e cuore ardente, ossia coniugando disciplina ed estro, esaltando il contenuto attraverso il dominio della forma. Vi è il rigore (si ascolti l’incipit della sonata di Prokof’ev, con la pianista di Kazan che rende magnificamente i gesti tematici attraverso un uso delle mani capaci di dissociare i due piani tonali, i quali risultano correttamente sovrapposti e non paralleli), ma vi è anche fantasia, che in Rachmaninov (autore che si avverte è insito, è sangue che scorre nelle vene della Gulyak) si concretizza, per esempio, nella terza (Menuetto) e nell’ottava (Adagio) variazione, così come nell’Intermezzo, sotto forma di cadenza, che precede la quattordicesima variazione. E vi è equilibrio, un equilibrio che ha il sapore deciso del dominio, della lucidità, del dosaggio delle forze da immettere e trattenere, si ascolti, a tale proposito, il tempo lento della sonata prokof’eviana, autentico colpo di genio del compositore, che nella divisione ternaria della battuta di 3/4 vi fa annidare un’ulteriore suddivisione ternaria (tempo di 9/8!), che conferisce a questo Tempo di valzer le sembianze di un grottesco e allucinato “gioco di specchi”. Non mi stupirei se, alla fine dell’ascolto di questa registrazione, il grande Neuhaus, se fosse stato ancora vivo, si sarebbe lasciato andare a un applauso, sorridendo amabilmente, in nome di quell’arte del pianoforte da lui sempre agognata e vagheggiata.
Anche la presa del suono effettuata dall’etichetta inglese è davvero degna di nota: il pianoforte è scolpito al centro del soundstage, anche se alquanto ravvicinato (probabilmente a causa di una microfonatura contraddistinta da un microfono ambientale e da uno posto sulla cassa armonica dello strumento), con una dinamica velocissima nei transienti (soprattutto nel registro medio-acuto) e da molto nero che dona un dettaglio dal valore audiofilo.
Andrea Bedetti
Giudizio artistico: 5/5
Giudizio tecnico: 5/5
Medtner-Rachmaninoff-Prokofiev – “Piano Works”
Sofya Gulyak (pianoforte)
CD Champs Hill Records CHRCD064