La discografia riguardante il Quinto concerto per pianoforte e la Settima sinfonia di Beethoven è talmente inflazionata per numero di registrazioni che al confronto il tasso d’inflazione conosciuto dall’economia durante il periodo della Repubblica di Weimar rappresenta solo un pallido simulacro. L’ultimo risultato, in termini di incisione, riguarda quello appena pubblicato dall’etichetta MM, in collaborazione con la Sony Music, e riguarda la loro esecuzione dal vivo, avvenuta il 1° e il 2 ottobre dello scorso anno a Roma, nell’aula magna dell’Università La Sapienza, durante il ciclo dei concerti tenuti per Istituzione Universitaria dei Concerti, con la pianista veneta Gloria Campaner e l’Orchestra da Camera Canova, sotto la direzione di Enrico Saverio Pagano.
Non nascondo il fatto che ogni volta che affronto l’ascolto di una nuova registrazione riguardante capolavori musicali che sono stati rivoltati come calzini nel corso del tempo, soprattutto da sommi interpreti, lo faccio sempre con il dente leggermente sollevato, poiché le fregature e le delusioni, a livello di lettura, sono state molte e continuano ad esserlo. Fortunatamente, in questo caso, ammetto di essere rimasto sorpreso dalla qualità dell’interpretazione, sia per quanto riguarda il concerto Imperatore, sia per quello che concerne la sinfonia che fece esaltare, a ragione, quello scorbutico di Wagner.
Prima di tutto, il concerto pianistico che la pianista veneta fa virare decisamente su un impianto esecutivo in cui la componente sonora romantica ha la meglio su quella classica, nel senso che la sua interpretazione, a mio avviso, proietta la composizione e il relativo affresco d’immagini e di sensazioni in una dimensione che è già Romanticismo tout court, sebbene il concerto appartenga al cosiddetto periodo compositivo centrale del genio di Bonn (fu scritto nel 1809 e stampato l’anno successivo). Questa radicalizzazione verso un universo romantico, Gloria Campaner la propone attraverso una continua ricerca di colori, di sfumature timbriche che, pur non appartenendo a una concezione pianistica beethoveniana, si conciliano però con la dimensione della composizione e con il rapporto dialettico/antagonistico che si viene a creare con la compagine orchestrale; colori che, per essere enunciati, abbisognano di un uso sapiente dei pedali, di un ricorso a rubati (i beethoveniani kabulisti potranno obiettare che a tratti abbondano), a una rarefazione agogica che porta l’eloquio espressivo a restare in una stasi sospensiva, annullando quasi il decorso temporale interiore del concerto (l’incipit dell’Adagio poco mosso lo testimonia efficacemente).
Insomma, l’interprete veneta mira a solleticare la sfera dei sentimenti più che quella della ragione e, in un certo senso, è come se avesse voluto esplorare e rappresentare il lato “femminile” di questo concerto, smussando i contrasti, arrotondando la resa timbrica del pianoforte, cercando un dialogo, come se fosse un’offerta votiva, con l’orchestra, la quale, invece, ha voluto incarnare (se proprio vogliamo rispettare l’etimo latino di concentus) la componente “maschile”, proponendo un suono più scolpito, declamatorio, assertivo, proprio per mettere in risalto la resa dello strumento solistico. Va da sé che una proposta di lettura come quella fatta da Gloria Campaner ha un merito in più, se tale può essere definito, quello di apportare un procedimento di maquillage, di camouflage, della componente virtuosistica che presenta il concerto Imperatore. Attenzione, però, camuffare non significa cancellare, ma solo impregnarlo di una sostanza esecutiva con la quale renderlo meno conclamato, meno esposto al richiamo di un atto di mera bravura tecnica.
Si è accennato alla compagine orchestrale, che poi è stata l’assoluta protagonista della Settima sinfonia, la più haydniana, come scrive giustamente Giovanni D’Alò nelle note di accompagnamento al disco. Ma, sia ben chiaro, un Haydn che deve fare i conti con quanto poi il pensiero nietzschiano sbatterà in faccia ai più ottusi, a coloro che, affetti da filisteismo allo stato puro, non si accorgeranno di come l’essenza tragica della musica sia il risultato, sovente, della diatriba, della lotta tra apollineo e dionisiaco. E la Settima in questione rappresenta l’agone di tale lotta, lo svolgimento di un piano enunciativo tale da mettere in crisi le ferree regole della dialettica hegeliana (se si vuole ascoltarla in Beethoven, meglio rivolgersi al corpus dei quartetti per archi). Ed è proprio tale tensione espressiva, spesso alloggiata nel respiro interiore di questo capolavoro, che ogni orchestra che possa essere definita tale, deve ricercare e manifestare, altrimenti il tutto si sgonfia come un soufflé cotto male. Che cosa vuol dire? Che dietro al senso ritmico che governa tale composizione, ci dev’essere sempre un’elettricità capace di trasformarla in materia palpitante, un magma sotterraneo pronto a far eruttare bolle sonore incandescenti, facendo così in modo che il sentore danzante attraverso il quale si dipana l’elemento del ritmo non sia mai fine a se stesso (ascoltate Carlos Kleiber e capirete).
Ora, il suono portato avanti dall’Orchestra da Camera Canova in questa lettura ha indubbiamente il merito di avvertire la tensione, questa elettricità che deve fornire il giusto propellente per garantirne il debito movimento spaziale e temporale (e qui è bravo Enrico Saverio Pagano a tenerla sempre sul chi vive, soprattutto la sezione degli archi, che personalmente considero una spanna superiore alle altre); da qui, una resa scattante, pulsante, (quasi) sempre sul pezzo, capace di mordere e scappare, fibrillante a tratti (finale del Poco sostenuto - Vivace), così come raggelante, rappresa, sorprendentemente glaciale (inizio dell’Allegretto). Il risultato è che il Klang ottenuto, sebbene solo da trentaquattro componenti, non fa assolutamente rimpiangere quello di compagini numericamente più corpose; non solo, ma allo stesso tempo, la filigrana di cui è composta questa sinfonia emerge in modo dettagliato, proprio in virtù dell’essenzialità di cui è composta ogni sezione (non sempre la chiave di volta “cameristica” può aiutare ad esaltare il decorso narrativo ed espositivo di una sinfonia, soprattutto quelle che appartengono alla seconda metà dell’Ottocento, ma in questo caso il risultato è pienamente apprezzabile).
Al di là della convincente duttilità che dimostra la compagine orchestrale, un plauso particolare deve andare al giovane direttore Enrico Saverio Pagano, il quale anche con questa registrazione fa capire di essere uno degli interpreti dal podio più interessanti delle ultime generazioni, e non solo in chiave nazionale. Senso delle proporzioni sonore, capacità di gestire il piano esecutivo delle sezioni, chiarezza di lettura, precisione del gesto, queste le sue prerogative che hanno permesso il risultato più che apprezzabile di questa produzione discografica.
Massimo Lombardi si è occupato della presa del suono dovendo fare i conti con l’aula magna della Sapienza, sala che conosco assai bene, contraddistinto da uno spazio fisico non facile da domare in sede di registrazione audio. Il risultato ottenuto, però, è di ottima fattura, contrassegnato da una dinamica generosa, ma anche assai precisa e sufficientemente naturale. La ricostruzione del palcoscenico sonoro ha il merito di inserire positivamente la compagine orchestrale e il pianoforte al centro dei diffusori, con lo strumento solista fisicamente più avanzato rispetto all’orchestra, con una piacevole ampiezza e altezza del suono proposto. L’equilibrio tonale, soprattutto nel pianoforte, è di buona fattura, permettendo di cogliere le innumerevoli sfumature timbriche e il dettaglio, oltre a trasmettere un senso di tridimensionalità fisica dello strumento solista e dell’orchestra, è ricco di nero in modo da fornire la necessaria matericità.
Andrea Bedetti
Ludwig van Beethoven – Piano Concerto N. 5 “Emperor” – Symphony N. 7
Gloria Campaner (pianoforte) - Orchestra da Camera Canova - Enrico Saverio Pagano (direzione)
CD MM Sony Music (live) 19658720252
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4/5