Fin dall’antichità, con le riflessioni fatte in tal senso da Platone, ci si è resi conto che il fascino che la musica riesce a sprigionare dipende dalla sua capacità di dare luogo sia a un aspetto logico dato dal suo costrutto, sia uno eminentemente emozionale che vengono generati in chi ascolta. Allo stesso tempo, queste due componenti, ed è lo stesso filosofo che ce lo ricorda, risultano essere inscindibili, inseparabili, sebbene, apparentemente, incarnino altrettanti concetti inconciliabili, con il primo che è il frutto della ratio, della μάϑησις, del λόγος e, allargando il raggio di coinvolgimento conoscitivo, della teoresi, della scienza, del rapporto numerico, del calcolo, della misura (il κανών), senza dimenticare l’influenza data da altre discipline, come la grammatica, la trattatistica, e per tornare al mondo dei suoni, dalle proportiones tra i tempi (tempus) e tra i numeri di vibrazioni (intervalli); al contrario, il secondo corrisponde al sentimento, all’emozione, alla delectatio esaltata dagli epicurei, agli affetti (l’importanza capitale data dal concetto dell’Affektenlehre) e, ampliando anche qui la visuale, all’estro, all’istinto, al mistero dionisiaco.
Il problema è quando, mediante la fase dell’ascolto, più che quella che riguarda l’analisi, si viene a produrre uno squilibrio, una frattura tra elemento razionale ed elemento emozionale, ossia nel momento in cui una delle due componenti si annulla o prende il sopravvento sull’altra (accanto alla storia e all’evoluzione della musica vi è anche quella, più o meno sotterranea o “invisibile”, della ricezione dell’arte musicale), un problema storicamente generato, senza farla troppo lunga, soprattutto dal capitolo della cosiddetta divulgazione musicale, di quella letteratura cronistica, la quale soventemente ha fatto più danni che altro. A cominciare dalla colpa letale di confezionare e radicare convinzioni, clichés, modi di intendere e concepire i compositori e la loro musica attraverso una lente d’ingrandimento fatalmente falsa e distorta.
E non è un caso, quindi, che tali distorsioni cronistiche, divulgative, legate alla musica, si siano concretizzate soprattutto durante l’epoca romantica, proprio quando, apparentemente, la dimensione emotiva della musica sembrò prendere il sopravvento su quella razionale, in concomitanza con l’irruzione da parte della classe borghese nel mondo musicale la quale, soprattutto nei Paesi di lingua tedesca e in Francia, dopo aver saturato la tradizione della Hausmusik, prese d’assalto le sale concertistiche pur latitando, spesso e volentieri, in fatto di cognizioni musicali (la celeberrima predizione di brahmsiana memoria, attraverso la quale il sommo di Amburgo si rese conto che a discettare di musica sarebbero stati in futuro innanzitutto coloro che tecnicamente di musica non capivano un beato fico).
È quindi indubbio che l’opera di divulgazione musicale sia stata artefice, in epoca romantica, di congetture, visioni, luoghi comuni che, alla fine, si sono inevitabilmente riverberati anche in epoca moderna, con tutti gli strascichi possibili e immaginabili, votati a fornire una rappresentazione “a presa rapida” di autori e opere. Si pensi, per esempio, allo scempio che è stato fatto da una certa letteratura musicale su un musicista come Fryderyk Chopin, e come tale letteratura abbia poi infiorito una parallela opera di assimilazione massificata nel corso del Novecento, a cominciare dal cinema (basti prendere in considerazione una pellicola come A Song to Remember, nota nel nostro Paese con il titolo de L’eterna armonia, diretta da Charles Vidor nel 1945, basata sulla sceneggiatura di Ernst Marischka, che fu nominata, guarda caso, all’Oscar per il miglior soggetto, oppure, in tempi più recenti, Impromptu, reso in italiano Chopin amore mio, di James Lapine del 1991, con un improponibile Hugh Grant nei panni del musicista e pianista polacco), mirante a confezionare un’immagine “musicale” a dir poco insostenibile, votata, tanto per tornare a quanto si è accennato all’inizio, a sfasare l’equilibrio ragione/sentimento a favore di quest’ultimo. Dunque, uno Chopin uguale ad emozione, a sentimento, a languore, a un’immagine del musicista che tossisce e sputacchia sangue sulla tastiera mentre esegue la Polonaise op. 53 (vedasi L’eterna armonia).
Peccato che buona parte di questa letteratura divulgativa non abbia però mai messo sufficientemente in luce il côté logico, razionale, “matematico” (nel senso squisitamente etimologico del termine, visto che μάϑησις proviene dal tema μαϑ- di μανϑάνω, che significa “imparare”), della musica chopiniana, il suo incondizionato amore per l’opera tastieristica di Bach, insomma di come questo autore sia stato veramente tra i pochi, i pochissimi di tutta la storia della musica a saper incarnare il meraviglioso e affascinante binomio ragione/sentimento, senza che l’una avesse modo di prendere il sopravvento sull’altro e viceversa. Come a dire, che se ci affidiamo esclusivamente all’ascolto melodico della musica del nostro (cosa che viene fatto novantacinque volte su cento), tralasciando la fondamentale dimensione costruttiva, il suo impianto armonico, retto da ferree leggi logiche e razionali, non facciamo altro che perpetuare tale aberrazione divulgativa. Pochi autori hanno bisogno di essere prima letti sul pentagramma per essere poi ascoltati come accade per Chopin: se si fa ciò, la ragione, finalmente, si unisce idealmente al sentimento.
Questo pistolotto iniziale si è reso necessario per comprendere meglio il senso ermeneutico prima ed esecutivo poi che il pianista trentino Alberto Nones ha voluto presentare in un CD dell’etichetta inglese Convivium Records, con il quale ha registrato lo striminzito corpus chopiniano dedicato alle Fantasie, le quali si riducono alla Fantaisie-Impromptu op. 66 (1835), alla Fantaisie op. 49 (1841) e alla Polonaise-Fantaisie op. 61 (1845-46), per un totale di poco più di mezz’ora di musica. Anni fa, Nones ha già avuto modo di affrontare il repertorio chopiniano registrando l’integrale delle Mazurche, che vantano, se così si può dire, una libertà esteriore, mentre ora, affrontando le Fantasie, si è concentrato sulla loro libertà interiore. E se il corpus delle Mazurche rappresenta un modello per inquadrare la forma in Chopin attraverso una materia antropologicamente e totalmente affine allo spirito polacco (da qui, la possibile accezione di una libertà esteriore), in quello più limitato e ristretto delle Fantasie si viene a formare quello che Maurice de Guérin (tanto per rimanere nell’ambito del Romanticismo francese) a livello poetico e nell’ancora valido e attuale testo critico di Albert Béguin, L’âme romantique et le rêve, ossia la dimensione di tutto ciò che si viene a fissare nell’animo e che deve essere inquadrato, bloccato, reso tangibile da una forma (ecco allora il perché di una libertà interiore, senza dimenticare, naturalmente, e questo vale anche per la musica, che per libertà non s’intende fare-ciò-che-si-vuole, ma investirsi di un atto di responsabilità per sé e per gli altri).
Il problema è che Chopin, paradossalmente (come fa ben notare lo stesso Nones nelle note di accompagnamento al disco), pur facendo sua la visione e la concezione romantiche, non ha mai privilegiato più di tanto la dimensione della fantasia, che potesse essere frutto di un sogno o di una realtà onirica vissuta ad occhi aperti (e qui, allora, anche musicalmente, dobbiamo prestare molta attenzione al suo lato logico, più che puramente sentimentale). Lo testimonia, in tal senso, la Fantasia-improvviso in do diesis minore, op. 66, in cui si privilegia una tessitura armonica; certo la tipica forma ABA che la contraddistingue richiama maggiormente il genere dell’Impromptu (tanto è vero che nel titolo la definizione di Fantasia fu aggiunta poi dall’amico e confidente Julian Fontana, la cui funzione per Chopin fu quella di un Max Brod per Kafka), quindi tende a salvaguardare un impianto ritmico che ne fa da collante, da impalcatura per tutta la sua arcata architettonica, ma che allo stesso tempo abbisogna di un’estrapolazione, a livello interpretativo, di determinate peculiarità, con il ritmo che dev’essere anche un respiro asimmetrico, all’inizio e alla fine quasi un’iperventilazione timbrica, che obbliga a lavorare sui rubati con la precisione di un bulino celliniano, poiché solo in questo modo si riesce a fissare, anche nel giro di pochissimi secondi, il florilegio di immagini che si accavallano, come un album di foto ricordo le cui pagine sono voltate con la velocità dei fotogrammi di un film. Insomma, equilibrio e sapienza nel saper regolare la velocità di questo fluido magmatico che si srotola davanti ai nostri occhi/orecchie. Tutte prerogative che Alberto Nones fa affiorare impeccabilmente, puntando l’indice sul diafano equilibrio voluto da altri (Fontana), ossia l’impromptu che deve fare i conti, possibilmente semantici, con l’irruzione del concetto (?) di fantaisie.
Questa ricerca di lucidità, di chiarezza espositiva, di coerenza nel far dialogare ragione e sentimento si fissa ancor maglio nel pianista trentino con il brano successivo. Se poi dobbiamo fare affidamento sull’unica composizione chopiniana che porti effettivamente il titolo di Fantaisie, ossia l’op. 49, allora il puro concetto di “fantasia”, secondo l’elaborazione dell’estetica e della musica pianistica romantiche, va benevolmente a farsi benedire, poiché Chopin non è Liszt, quindi non ci sono arie o motivi operistici dai quali plasmare forme di libertà espositive, ossia cellule primigenie da cui trarre variazioni, giochi di abilità virtuosistiche e quant’altro. No, qui si resta ancor più ancorati a una forma (discettando di questa composizione Sergio Sablich parla giustamente di una “ferrea maglia tonale”!), anche se permane su tutto lo svolgimento della composizione una certa frammentarietà, la quale in effetti potrebbe agevolare l’idea di una “fantasiosità” che si dispiega sotto le dita dell’interprete. Ma Nones è oltremodo attento a non enfatizzare mai, evitando trappole malcelate lungo il cammino interpretativo, nel senso che la dolce asciuttezza con la quale affronta le quarantadue battute introduttive del brano, una marcia a tratti quasi funebre, non funzionano se poste come mera introduzione (lo specchietto per le allodole della tonalità in fa minore, destinata a non ripresentarsi più nel corso della Fantasia), ma vengono qui repentinamente diluite e plasmate all’interno di tutta la pagina (frammentarietà sì, va bene, ma fino a un certo punto), poiché nel nostro interprete è ben chiara l’idea di una “singhiozzante” continuità con la quale dare vita ai tre blocchi tematici che la costituiscono. In ciò, trova piena comunanza con il suono espresso dal Fazioli che utilizza per la registrazione, dotato di una potenza timbrica che però non diviene mai enfatica, ipervitaminizzata, dopata a dismisura. Scontorno, messa a fuoco, sogno che si scopre fatto ad occhi aperti, in piena veglia, come se si fosse affacciati al balcone della vita, che scorre sotto i nostri occhi, guardando un qualcosa che appare reale, anche se le immagini che si accavallano sembrano attingere dal reame dell’irrealtà.
E il sogno ad occhi aperti continua e si conclude con la Polonaise-Fantaisie che Alberto Nones si rifiuta, giustamente a mio parere, di percorrere a cavalcioni di una vaporosa nuvola esecutiva. Il perentorio declamare iniziale, con gli intervalli di quarta discendente che non vengono stuprati dal pedale di risonanza, ci fa subito capire come il pianista trentino voglia mettere in chiaro un fatto: questa pagina, nella sua struttura, è un perfetto meccanismo da orologio svizzero e come tale dev’essere trattata e affrontata. Il bilancino, quindi, non pende tanto a favore della Fantaisie, ma della Polonaise, senza per questo risultare, come fanno invece altri, affetta da una sguaiatezza romantica fine a se stessa, ma diviene il palcoscenico esplorativo attraverso il quale sperimentare il suono, aggregarlo, creando insiemi e sottoinsiemi sonori che concorrono a formare la verticalità di questo brano (se penso a come, per esempio, Pollini lo ha reso in passato, siamo su due galassie, non mondi, differenti, anche se il punto di partenza, per il milanese e per il trentino, è il medesimo). Con il suo intelligente declamare stilistico, Nones riesce a dimostrare pienamente la ferrea logica costruttiva chopiniana (non per nulla, ci troviamo di fronte a una pagina della maturità, dell’ultimo periodo, quello che i teneroni da quattro soldi focalizzano e ricordano con gli immancabili sputacchiamenti tubercolotici), una logica che, però, è anche un trionfo disciplinato di sentimento, di irradiazione verso un’orizzontalità contemplativa, la quale va per l’appunto dosata, calmierata, intrisa da una camomilla tattile con la quale scendere a patti con la tastiera, come se Hegel si fosse impossessato dello spirito di Chopin.
Oltre a questa registrazione con le Fantasie chopiniane, Alberto Nones ha voluto poi effettuare un’altra incisione discografica, quasi “privata” nelle sue intenzioni e attraverso l’impiego degli strumenti utilizzati, presentando una silloge di Préludes di Rachmaninov (per la precisione, il n. 2 op. 3, i n. 1, 4, 7 e 10 op. 23 e i n. 10 e 12 op. 32) e i cinque affascinanti pezzi che compongono la Kitsch-Musik di Valentyn Syl’vestrov, accostando così un autore russo con uno ucraino (lascio a voi indovinare il perché di questa scelta a livello extramusicale… ), un disco pubblicato dalla piccola etichetta francese Anima Records e i cui proventi andranno interamente a favore dell’attivista italo-marocchina Nawal Soufi, soprannominata l’“angelo dei rifugiati”, che aiuta i profughi di tutte le guerre. Il côté privato, quasi intimistico di questa registrazione, alla quale hanno aderito a titolo del tutto gratuito anche il fonico Giordano Corsetti e l’accordatore Claudio Capponi, è dato anche dal tipo di pianoforte utilizzato, vale a dire un grancoda August Förster del 1925 di proprietà dello stesso Nones, il che ha conferito, soprattutto da un punto di vista della presa del suono (vedi giudizio tecnico) un’aura squisitamente artigianale, nel senso nobile del termine.
Se metto momentaneamente da parte la mia notoria avversione nei confronti di Rachmaninov (nelle poche volte che lo ascolto, seguo prima le istruzioni fornite a suo tempo da Vittorio Alfieri e mi faccio legare alla poltrona) è per il semplice fatto che questa registrazione discografica di Nones, al di là delle sue nobili finalità umanitarie, si può ricollegare idealmente a quella che riguarda il suo approccio chopiniano, e anche perché il breve ciclo pianistico di Syl’vestrov merita qualche considerazione ad hoc. D’altronde, la stessa scelta dei sette Préludes del compositore e pianista di Velikij Novgorod rappresenta già di per sé una sorta di estensione immaginifica di quanto proposto dal musicista polacco naturalizzato francese, nel senso che, sul solco del progetto rachmaninoviano di dare vita a un preciso ciclo formato da ventiquattro pezzi (una tradizione che parte con Das Wohltemperierte Clavier del sommo Kantor e giunge fino al cuore del Novecento con il Ludus Tonalis di Hindemith), Nones liofilizza sagacemente il nucleo in questione (il quale è composto dall’incipit dato dal secondo dei Cinque pezzi di fantasia per pianoforte, dai dieci Préludes dell’op. 23 e dai tredici dell’op. 32), dando così vita a una possibile serie dei Préludes dei Préludes, una scelta che viene effettuata proprio utilizzando il setaccio chopiniano, ossia dimostrando come, pur nella loro maggiore complessità formale, quelli del russo devono essere ascoltati tenendo a mente la sua ammirazione per ciò che-è-venuto-prima (questa può essere la chiave di volta per comprendere, o quantomeno cercare di farlo, la sua strabiliante ingenuità), vale a dire avendo sempre presente il testimone lasciato dal polacco (tale peculiarità, se si vuole creare un unicum di finalità artistica, attraverso la sua impronta pianistica, mi porta a consigliare di ascoltare sia le Fantasie chopiniane di cui si è appena detto, sia questa seconda registrazione in oggetto una dopo l’altra, poiché Nones, oltre ad essere un pianista di razza, è anche un filosofo, quindi abituato a pensare e a progettare in modo “organico”, tanto per usare un aggettivo amato dalle cosiddette persone engagées).
Ora, in nome di tale “organicità”, è indubbio che l’operazione fatta dall’artista trentino assuma una connotazione squisitamente “intellettuale”, ergo non riservata a molti, anche tra quelli che amano discettare di musica, abbinando nella fattispecie questi sette Préludes di Rachmaninov con la Kitsch-Musik di Syl’vestrov attraverso la decodificazione timbrica di un pianoforte così particolare, e serva a capire prima di tutto il taglio “ideologico” da dare a questa lettura. Questo perché invece di utilizzare la tavolozza del pittore Nones preferisce maneggiare la macchina fotografica, nel senso che la sonorità netta, circostanziata, “oggettiva” data dal Förster, permette di vivisezionare il suono, mettendo in luce la muscolatura, l’intreccio di nervi, la diramazione arteriosa di queste composizioni (per capire meglio, prendete a prestito quel capolavoro pittorico di Rembrandt, Lezione di anatomia del dottor Tulp), trasponendole di peso (e mi riferisco ovviamente a Rachmaninov) e inserendole a spintoni e gomitate in un progetto maggiormente novecentesco. Quindi, un suono dal profumo matematico, logico (ricordiamoci il pistolotto iniziale di questo scritto) con il quale filtrare il puzzo di sedimentazione necro-romantica che lo appesta, dando così una finalità, un’appartenenza realmente noumenica, una manifestazione (e qui ci soccorre Husserl) capace di mantenere in vita, nella sostanza circostanziata, quanto evanescentemente scritto sulla partitura (e questo vale anche per le tinteggiature di sottile Kitsch che alcuni di questi Préludes presentano, si pensi soprattutto al Prélude n. 10, op. 23).
Così, sempre in nome della di cui sopra “organicità”, dal Kitsch dell’ingenuo Rachmaninov, Nones passa al Kitsch del lucido Syl’vestrov; e qui bisogna spiegare che cosa volle intendere il compositore ucraino nel 1973, quando diede forma a questi cinque brevi pezzi. Non c’è intendimento ironico, non un atto di accusa nei confronti di ciò che è banale, inutile, persino volgare nella sua attuazione, che sia oggetto o persona, ma solo senso “nostalgico”, un mix di Tarkovskij e di Gozzano, ossia la capacità, o il suo tentativo, di “ricucire attraverso l’apporto simbolico di semplici oggetti il trauma della separazione, fisica o spirituale che sia”. Una semplicità, quella che affiora, fatta di una dannata complessità, in quanto l’evocativa scrittura del musicista ucraino cela sempre più di quanto manifesta. E qui l’interprete diviene ruolo fondamentale per permettere tale affioramento. Ma Nones non dimentica ancora l’azione redentrice della ragione, della lucidità che permette di portare in superficie il sentimento, di compiere il miracolo del ricongiungimento, almeno a livello sonoro, tra oggetto e soggetto. Quindi, anche la lettura del Kitsch-Musik viene da lui fatta attraverso le maglie di un timbro essenziale, scarno, ma ricco, elaborato, poiché il bisturi del suo pianismo non solo mette in luce quanto sezionato, come nel caso del dottor Tulp, mostrando ogni minima sfumatura immaginata da Syl’vestrov, ma va a realizzare soprattutto l’inespresso, come a dire che il sentimento non può compiersi senza l’attuazione della ragione. Solo in questo modo, l’apparente banalità di tale musica cessa di essere tale, poiché il pianista trentino ci obbliga a guardare in basso, tra gli squarci di muscoli e nervi, facendoci scoprire, con nostra grande meraviglia, che in essi scorre ancora la vita, e non il mero ricordo di essa.
La presa del suono della registrazione delle Fantasie di Chopin è stata effettuata da un signore che si chiama Matteo Costa, ossia una garanzia nella garanzia. E si sente. La dinamica è oltremodo rocciosa, veloce nei transienti, e manifesta una notevole naturalezza, con una timbrica esente da indesiderate enfasi coloristiche. Ne trae beneficio da ciò il palcoscenico sonoro, in quanto il pianoforte Fazioli risulta essere ricostruito idealmente (al centro dei diffusori) a una congrua profondità all’interno della Fazioli Center Hall di Sacile, profondità che non mette a rischio l’ottima messa a fuoco (e qui affrontiamo il dettaglio) dello strumento, sempre perfettamente scontornato e reso palpabile nella sua tridimensionalità. Infine, la validità della cattura del suono viene sancita anche dall’equilibrio tonale, il cui registro grave, così come quello medio-acuto, non risulta mai essere invadente o poco preciso.
La presa del suono del disco dedicato a Rachmaninov e a Syl’vestrov non può garantire, per i motivi già addotti, un risultato paragonabile alla prima, ma questo non significa che risulti negativa nelle sue (marginali) imperfezioni; la registrazione è stata effettuata nella chiesa di San Marco, a Montecassiano, vicino a Macerata. Personalmente, non conosco questa chiesa, ma ho visto che è abbastanza vasta, con le sue tre navate, per poter creare problemi di acustica per via di un inevitabile riverbero (anche per questo motivo, si cerca usualmente di non registrare il pianoforte in una chiesa, a meno che non sia di legno, come accade nei Paesi scandinavi). Ritengo, quindi, che per ovviare a tale problematica la microfonatura sia stata posizionata in modo alquanto ravvicinato, ma ciò non ha prodotto, in termini di risposta, una dinamica troppo energica e, allo stesso tempo, assai “palestrata” del timbro, il quale invece riesce a mantenere quella “neutralità”, sia nel registro medio-acuto, sia in quello grave, in modo da restituire quel suono “oggettivo” di cui si è scritto. Ma se la coperta si dimostra corta (per via della scelta microfonica), è nel parametro del palcoscenico sonoro, in quanto il pianoforte, a livello di spazialità, non si trova debitamente messo a fuoco, oltre a risultare oltremodo avanzato rispetto al punto di ascolto, e ciò va ad inficiare leggermente anche il dettaglio, poiché la matericità e la tridimensionalità ne risultano penalizzate, ma senza che questo faccia gridare allo scandalo. Da ultimo, anche l’equilibrio tonale si adatta alle peculiari circostanze di questa presa del suono, con il registro grave e quello acuto che si mostrano sostanzialmente corretti, anche se non (comprensibilmente) scontornati a dovere, ma con il pregio di restare distinti e riconoscibili.
Andrea Bedetti
Fryderyk Chopin – Complete Fantasies
Alberto Nones (pianoforte)
CD Convivium Records CR074
Giudizio artistico 5/5 Sergej Rachmaninov-Valentyn Syl’vestrov – Préludes – Kitsch-Musik Alberto Nones (pianoforte) CD Anima Records Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5
Giudizio tecnico 3/5