Abbiamo intervistato Andrea Castello, con un passato di cantante e ora responsabile e organizzatore del Festival Vicenza in Lirica, e il direttore orchestrale Marco Comin, che dirigerà l'oratorio scritto da un Mozart appena quindicenne durante il suo primo viaggio in Italia
Maestro Castello, che cosa significa per un cantante lirico, lei è un basso-baritono, passare dall’altra parte della barricata, vale a dire essere un direttore artistico? Può calzare il paragone di un dipendente o di un collaboratore di un’azienda che ne diviene l’amministratore delegato? E dopo tale passaggio, ora comprende meglio le richieste e le lamentele di chi canta o di chi gestisce un festival?
Ho iniziato a cantare quando avevo 18 anni quasi per scherzo (dovevo andare a Sanremo e mi sono trovato a cantare Fiorello nel Barbiere di Siviglia con Vittorio Grigolo che debuttava). Lo stesso anno, dopo pochi mesi, ho organizzato il mio primo concerto a Rottanova, mio paese natale e paese natale del grande Tullio Serafin del quale sono custode e presidente dell’Archivio storico. Per diversi anni ho sempre conciliato la mia attività di cantante con quella di organizzatore con grande impegno, sapendo che poi si devono fare i debiti conti con la responsabilità di cui sei investito. Per essere un bravo cantante non devi solo avere una bella voce, ma devi studiare tanto e ogni giorno, oltre a non avere mille pensieri (in questo caso organizzativi) per la testa; altresì, per essere un bravo organizzatore devi essere concentrato a tempo pieno su tutti gli aspetti non solo organizzativi, ma anche economici e di scelte artistiche. Ho preferito scegliere la seconda strada, nonostante continui a studiare canto per hobby e dai tanti giovani cantanti, che debuttano con il festival, esigo studio e preparazione oltre che responsabilità e non posso quindi essere proprio io a dare il cattivo esempio. Capisco ogni singola preoccupazione dei cantanti soprattutto in quelli giovani, capisco le loro paure e spesso anche i loro atteggiamenti, ma cerco sempre di far capire loro cosa è giusto e cosa è sbagliato per il loro futuro. Non amo i “capricci” soprattutto negli artisti delle nuove generazioni, in quanto è un primo campanello d’allarme che mi fa comprendere che non faranno una carriera duratura, e per questo bisogna avere il coraggio di correggerli. Non è facile essere il direttore artistico di un festival, ma risulta essere più semplice e “produttivo” quando metti al primo posto l’umiltà e ti rendi conto della bellezza e del fascino di questo lavoro.
Quali sono state le difficoltà nel tornare a fare musica, a organizzare concerti e rappresentazioni liriche una volta che si sta uscendo, o almeno così si spera, dalla pandemia? Queste difficoltà sono sempre le stesse o il post COVID-19 ne ha aggiunte delle altre?
Trovo più difficoltà quest’anno, in quanto viviamo nell’incertezza, che sembra più ampia dell’anno scorso. Il Covid-19 però insegna che la qualità vince sempre; anche uno spettacolo “ridotto” nelle scene, nei personaggi, nel complesso artistico in generale dev'essere di alta qualità e, soprattutto, non ci si deve dimenticare dei giovani artisti che sono stati esclusi quasi in toto dallo streaming, un termine che fortunatamente sento usare meno, anche perché il mondo del teatro da più di duemila anni è “dal vivo” sia per ascoltare un cantante, sia per assistere a un’opera o a un concerto. Farò un’audizione online solo per una masterclass, ma non la farò mai più per un concorso lirico o per la scelta dei ruoli. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che questo è un periodo di cambiamento che capiremo maggiormente solo nei prossimi tre anni. Dal mio punto di vista dobbiamo riconoscere anche l’impegno da parte del Ministero della cultura, che, sinceramente, almeno da parte mia, non è assente, anzi. Basta aver l’umiltà nel saper chiedere e non solo di protestare con la convinzione che tutto sia dovuto.
Entrando nello specifico della rassegna artistica da lei diretta, il Festival Vicenza in Lirica è una delle poche manifestazioni musicali che in Italia ripone una grande attenzione nei confronti dei giovani artisti. Mettiamo caso che un giovane tenore o un giovane contralto vengano a chiederle un consiglio per iniziare la professione di cantante, sia come loro collega, sia in qualità di direttore artistico, che cosa direbbe loro?
Anche se ho anticipato la risposta alla prima domanda, mi piace ribadire il concetto: consiglierei prima di tutto di avere l’umiltà come fondamento assoluto, anzi come delle vere e proprie fondamenta. Ed essere umili significa prima di tutto saper dire di no. Questo perché i “no” sono fondamentali, in quanto a volte i giovani cantanti si lasciano lusingare da un'espressione che purtroppo oggi va tanto di moda: “Sei un fenomeno”. Quest'espressione va bene se si sa di essere “un fenomeno” con un repertorio adatto a una determinata età, altrimenti si deve avere il coraggio e l'umiltà di dire “no”! A tutto questo aggiungo che si canta con la voce e che l’unica palestra adatta è quella di cui necessitano le corde vocali, ossia studiare ogni giorno, lasciando invece perdere la palestra che serve solo a mettere in mostra un bel fisico... Chi pensa di fare una carriera solo grazie al fascino del proprio fisico, vuol dire che sta costruendo una casa senza fondamenta e che al primo terremoto è destinata “a ballare” o, visto l'argomento che stiamo trattando, sarà la voce “a ballare”. Io, sia ben chiaro, non guardo l'aspetto fisico, ma la preparazione, le doti vocali, lo studio! Coloro che in un mio progetto si fermano all'aspetto fisico vengono tassativamente esclusi e rimandati a stare nel loro “ego”. Concludo ricordando una verità indiscutibile: i giovani sono i protagonisti del nostro festival da sempre, “accompagnati” in palcoscenico dai grandi nomi della lirica quelli con la “g” maiuscola, ossia coloro che sono diventati tali grazie alla loro umiltà.
Maestro Comin, Lei dirigerà per il cartellone della nona edizione del Festival Vicenza in Lirica l’oratorio giovanile La Betulia liberata di Mozart, un’opera che è ancora dominata dalla tipica impostazione data da Johann Adolf Hasse, ossia gli insistiti contrasti tematici, le coloriture che a volte possono risultare eccessive, la magniloquenza del canto che imprigiona al dimensione religiosa, la tipica trasparenza dello stile e la padronanza con la quale vengono presentati i risvolti drammatici. Dopo averne studiata la partitura, quanto vi è effettivamente del quindicenne Mozart?
Di fatto moltissimo. I modelli, non solo di Hasse ma anche di Jommelli, Ferrandini e altri compositori dell’epoca, sono innegabili. Ma Mozart li assimila e, quasi con disinvoltura, plasma un proprio linguaggio personale già perfettamente riconoscibile. D’altronde un genio fa proprio questo! Non bisogna dimenticare che siamo in pieno XVIII secolo, quando i compositori si distinguevano sì per qualità, preparazione tecnica e gusto, ma parlavano un linguaggio musicale molto più condiviso rispetto ai loro colleghi del XIX e, soprattutto, XX secolo. Uno dei moltissimi aspetti che mi colpiscono e commuovono di Mozart non è tanto che già a quindici anni padroneggiasse il vocabolario musicale della sua epoca come, e spesso meglio, di tanti altri suoi illustri e più anziani contemporanei, quanto il fatto che già a quell’età riuscisse a elevarsi, a distinguersi utilizzando proprio quel vocabolario apparentemente senza forzarlo, senza inventare neologismi. In Betulia liberata succede esattamente questo.
C’è da restare impressionati, ad ogni modo, nel vedere come un adolescente, sebbene geniale come lo fu Mozart, fu in grado di rendere con la musica il testo di Metastasio, facendo sì che le caratterizzazioni psicologiche dei personaggi e la densità della loro caratura canora potessero venire fuori in maniera così vivida…
Assolutamente! Vede, quello che noi oggi chiamiamo appunto “caratterizzazione psicologica”, nel ‘700 si manifestava nella “teoria degli affetti”. Tanto nella musica vocale quanto in quella strumentale il carattere, i sentimenti, in una parola gli affetti venivano espressi attraverso dei codici ben definiti e soprattutto condivisi. Lo vediamo bene nella pittura dell’epoca. Nel caso di Betulia liberata ci troviamo di fronte a un Mozart adolescente che sembra essere completamente a proprio agio con situazioni complesse come l’angoscia di un popolo oppresso, la conversione religiosa, addirittura la decapitazione di un uomo, e le traduce in musica con una puntualità che lascia sbalorditi. Certo, non è ancora l’universo psicologico di Idomeneo o Don Giovanni: lì non sarà solo il compositore ad aver raggiunto la piena maturità, ma anche l’uomo Mozart ad avere un’esperienza di vita e una conoscenza dell’essere umano decisamente più profonde. Ciò non toglie, però, che Betulia liberata sia la prova tangibile che Mozart, già in giovane età, possedeva un innato istinto teatrale.
Una pagina celeberrima è la stessa Ouverture dell’oratorio, considerata da Abert di “sinistra solennità”, in cui per la prima volta Mozart utilizza la tonalità del re minore, destinata a ricoprire un ruolo fondamentale in diverse delle successive composizioni del sommo salisburghese. Che indicazioni ha fornito ai professori dell’Orchestra di Padova e del Veneto per esprimere questa tonalità e per restituirne l’”atmosfera fatalistica”, sempre citando lo stesso Abert?
In tutta onestà non vedo tracce di sinistra solennità, né tanto meno di fatalismo. Trovo, al contrario, che si tratti di una pagina estremamente drammatica e incalzante, in pieno spirito Sturm und Drang. Ho scelto, quindi, di evidenziarne i contrasti, non solo dinamici, sottolineando le dissonanze piuttosto che smussarle. Come sempre quando dirigo questo repertorio, ho adottato un approccio “storicamente informato”, come si suole definirlo oggi. Fino a qualche tempo fa si parlava di “prassi esecutiva”. Non si tratta solamente di un uso parsimonioso del vibrato o di uno stile esecutivo che prediliga l’articolazione piuttosto che un generalizzato tenuto/legato. La resa corretta degli accenti, ad esempio, è di altrettanto vitale importanza, poiché in virtù di una chiara differenziazione di arsi e tesi, o più semplicemente di un tempo debole rispetto ad uno forte di una battuta, una frase musicale acquista molta più espressività, risulta più eloquente. Volendo riassumere si tratta di coltivare una “pronuncia musicale” che tenga conto della punteggiatura e della retorica, entrambi concetti imprescindibili nella cultura musicale dell’ancien régime.
Andrea Bedetti