Quello scelto dalla pianista piemontese Clara Schembari per il suo debutto discografico è un programma che più classico non potrebbe essere, se per classico, ovviamente, non si deve intendere in sé l’autore scelto, ossia Robert Schumann, del quale si può affermare il tutto e il contrario di tutto, tranne che sia un “classico” in senso musicale, ma solo per il fatto che ormai il compositore di Zwickau è un autore classico a tutti gli effetti, vale a dire rientrante nel cosiddetto olimpo degli immortali. Il setaccio, con il quale l’interprete tortonese ha voluto confezionare il suo programma, presenta, rispettando l’ordine della tracklist, il ciclo delle Waldszenen op. 82, Des Abends, che apre la Phantasiestücke op. 12, Schlummerlied, sedicesimo brano del negletto e sottovalutato Albumblätter op. 124, per poi passare a sette trascrizioni fatte per pianoforte da Clara Wieck da altrettanti Lieder del consorte, tratte dagli opp. 24, 25, 36, 39 e 79, il Blumenstück in re bemolle maggiore op. 19, quel capolavoro visionario dato dai cinque Gesänge der frühe op. 133 e per concludere, evidenziando un debito carico simbolico, con l’ultimo dei tredici Kinderszenen op. 15, l’emblematico Der Dichter spricht, il tutto racchiuso in un CD pubblicato recentemente dalla Fluente Records.
Il perché di questo programma lo spiega Mario Marcarini nelle note di accompagnamento da lui curate: il filo conduttore, come d’altronde recita anche il titolo del disco, Robert Schumann. Der Dichter der Natur, è dato dal rapporto strettissimo e ineludibile tra uomo e natura, come invocato dal Romanticismo, soprattutto quello d’impronta germanica e, all’interno del mondo romantico tedesco, di colui che cercò di rappresentare, con maggiore fantasia, pregnanza e profondità questo rapporto, ossia proprio il compositore di Zwickau. Inoltre, bisogna considerare un altro punto che riguarda la stessa interprete piemontese, la quale, oltre ad essere pianista, è anche stata una ricercatrice nel campo della fisica, materia nella quale si è laureata a pieni voti, prima di consacrarsi totalmente alla musica, e all’amore e al rispetto che nutre nei confronti della natura, dedicandosi attivamente anche alle arrampicate in montagna. Da ultimo, e forse questo è il frutto che fa collimare tutti questi diversi aspetti, il progetto inerente a un festival musicale, Il lago cromatico (www.illagocromatico.com), ambientato in diverse località del Lago Maggiore, del quale la nostra artista è direttrice artistica dal 2015 e la cui edizione di quest’anno è ancora in corso, concludendosi infatti a fine settembre.
La natura, dunque, indagata, evocata, ambita e immortalata da Schumann e del quale, in questa registrazione, Clara Schembari si erge a sua paladina. Mi arrischio ad usare tale sostantivo poiché, dopo aver ascoltato il suo disco, mi sono reso conto che nel compositore romantico la pianista piemontese vede non solo il musicista, ma anche e soprattutto la totalità di una rappresentazione del mondo, prendendo in prestito quanto enunciato dalla visione schopenhaueriana. Questo perché la pianista tortonese, e il fatto che questo sia il suo disco d’esordio la dice lunga, si identifica totalmente in Schumann ed è un dettaglio non da poco, in quanto, con la sua lettura, ha voluto chiamare in causa non solo il musicista, ma anche l’uomo. Già, proprio così: l’uomo Schumann, non il compositore Schumann, perché presentare sia le Waldszenen e i Gesänge der frühe significa puntare l’attenzione dell’ascoltatore non solo sull’arte musicale schumanniana, ma vuol dire condividerne la sua parabola esistenziale, come se la sua stessa vita, e in fondo è così, fosse stata già un’opera d’arte.
Nel titolo ho usato l’aggettivo “fatato” ma, sulla base di quanto poi ho finora scritto, credo che ci sia bisogno di qualche chiarimento in più, soprattutto alla luce del tipo di interpretazione, quindi del taglio, che Clara Schembari ha voluto dare al suo Schumann. Dunque, se pensate che abbia voluto delineare l’artista travestendola, nel momento stesso in cui si è seduta davanti alla tastiera del pianoforte, da fata turchina, vi sbagliate di grosso. Nel senso che con il suo approccio e con il suo suono, Clara Schembari non ci offre un’esecuzione zuccherina e trasudante miele, ma ricca di spunti analitici (poi dicono che gli studi scientifici possono risultare dannosi in sede concertistico-musicale… ) e soprattutto di una disciplina formale che le permette di prendere la bacchetta magica compresa nel pacchetto e di buttarla dalla finestra. Già l’andamento agogico dell’Eintritt delle Waldszenen la dice lunga sulla chiarezza d’intento, in cui sorprende come Florestano zittisca Eusebio. Gli elementi onirici si ritagliano il loro spazio, è vero, ma la nostra pianista è sempre vigile nel presentare loro il conto, con un pianismo in cui gli effetti pedalistici sono ridotti all’essenziale, ergorinunciando giustamente a vaporose atmosfere melliflue indesiderate, così l’“entrata” è sì delicata, smussata, arrotondata, ma allo stesso tempo delineata negli spazi, nel rapporto tra ciò che è pieno e ciò che è vuoto, ossia con la distribuzione della materia (fisica) equamente presente. A proposito di Florestano, è lui che prende i panni dello Jager auf der Lauer, mentre nel successivo Einsame Blumen Eusebio si nasconde perfettamente sul prato fiorito; ecco, questi due brani possono essere presi a modello come contraltare ideale della scissione schizofrenica schumanniana, tra l’apollineo e il dionisiaco, e di quella interpretativa, ben inteso, di Clara Schembari, la quale poi si affida a tale dicotomia per “tassonomizzare” l’uno e l’altro nel proseguo della sua esecuzione.
Questo, però, non significa che ci troviamo di fronte a un nero e a un bianco dal sapore decisamente manicheo, in quanto l’artista tortonese è una valida rappresentante della premiata ditta “Trionfo delle sfumature di grigio” (l’ascolto di Herberge lo dimostra pienamente, così come il successivo, enigmatico Vogel als Prophet); le dita trasmettono una ricerca timbrica che assume il salire di un perlage, la cui effervescenza svanisce sapientemente nel circoscriversi degli armonici che nascono e muoiono come il processo vitale di una stella. E poi gli sbalzi dinamici che nell’incipit lanciano in orbita lo Jagdlied, che forse potranno far storcere il naso ai puristi classicisti post-arrauiani, ma che troveranno, buon per loro, nell’Abschied finale motivo per seppellire l’ascia di guerra.
Sbaglio o è stato Montaigne ad affermare che «in natura tutto è utile, perfino l’inutilità stessa»? Ebbene, la dimensione significativa dei Gesänge der frühe risiede fondamentalmente in ciò, poiché quando dobbiamo affrontare nel catalogo schumanniano quelle pagine che partono dall’op. 103, coincidente con il nefasto e in seguito tragico trasloco del musicista e della famiglia in quel di Düsseldorf, avvenuto all’inizio di settembre del 1850, dobbiamo necessariamente affrontare il capitolo dell’altra faccia della Natur, almeno per ciò che riguarda il musicista di Zwickau. Così, dalla visione aperta, felice, “solare” donata dal Wald, passiamo, con l’irruzione del periodo finale dello Schumann che precede il tuffo nelle acque gelide del Reno, alla dimensione dell’Unterholz, ossia del sottobosco, dove regna l’umidità e dove si annidano insetti striscianti ed altre schifezze che rifuggono la Lichtung di heideggeriana memoria. E qui, il gioco si fa veramente duro, perché la natura mostra alfine il suo lato utilitaristico, quello meno poetico, attraente, poco o per nulla nobile, ma che permette di nutrire tutto il Wald, fornendo materia nutritiva, nello stesso modo in cui i Gesänge der frühe rappresentano (ricordiamoci che sono l’op. 133 e che risalgono, a livello di elaborazione alla metà di ottobre 1853, ossia solo pochi mesi prima che Schumann facesse ciao ciao con la manina) uno degli ultimissimi tributi dell’Unterholz schumanniano, poiché attraverso questi cinque “canti” la domanda che ci dobbiamo porre, alla luce di quanto avvenne poco dopo, è se siamo sicuri che il geniale musicista volle per davvero tradurre in musica le sue emozioni all’approssimarsi dell’alba, oppure se rappresentano, in un frangente di titanica e ormai rara lucidità, la consapevolezza di un uomo, non solo dell’artista, che si rende conto che l’alba del suo Io sta per cedere lo scettro a un tramonto definitivo. Non lo nego, ma a piace pensare, immaginare che l’op. 133 sia una sorta di commiato per Schumann dai luoghi del Wald per andare a nascondersi negli anfratti marciti dell’Unterholz, conscio ormai del fatto che le tenebre si stavano facendo sempre più insistenti e minacciose. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un capolavoro musicale che non è la descrizione di un meraviglioso fenomeno naturale attraverso la sensibilità di un artista, ma il desiderio destinato a divenire sempre più inappagabile in Schumann nel poterlo ammirare.
Ebbene, la nobiltà sonora con la quale la pianista tortonese rende il primo dei canti, Im ruhigen tempo, è il benvenuto a una nostalgia nella quale affogare, modulato su un tema che è l’esaltazione di un distacco al rallentatore; le sfumature di grigio, sotto le sue dita, non tendono a schiarirsi, ma ad aggrumarsi, inframezzate brevemente da slanci eretti (la fulminea parentesi centrale nel Belebt, nicht zu rash). E non bisogna lasciarsi ingannare dal Lebhaft, in cui i rutti esistenziali di felicità e di serenità non sono altro che i segni tangibili di una cattiva digestione, per cui, nel tentativo di cercare sollievo, si è portati a adagiarsi materialmente e idealmente sulle note pseudoterapeutiche del successivo Bewegt, che Clara Schembari restituisce con ammirevoli singulti attoniti, con una chiusura che è una ninna-nanna che già odora di commiato. Già, il commiato: allora benvenuti alla giostra finale, quella intitolata Im Anfange ruhiges, im Verlauf bewegtes Tempo, in cui la linearità temporale espressa precedentemente diviene a poco a poco circolare, un eterno ritorno sul quale Schumann finalmente può sdraiarsi. Poi, sarà il nero a scrivere The End.
Alla fine di ciò, il poeta parla, e la chiusura del disco ha così il sapore di un “c’era una volta… ”, con il quale la pianista impone una fine che in fondo non è una fine, ma una sorta di suprema meditazione (l’andamento agogico è il suo biglietto da visita), in cui la parola d’ordine è sospensione. Sospensione dal tempo e dallo spazio, nirvana occidentalizzato nel quale, volenti o nolenti, rientrano gli altri brani da lei presi in esame, anche se poi semanticamente e allegoricamente si presenta soprattutto il concetto di Blume, di fiore, qualcosa che splende e profuma per poi morire e puzzare (la sottile vena malinconica con la quale la nostra pianista affronta e dipana il Blumenstück lo lascerebbe intendere).
Al di là del concetto della natura, sia quella emblema di solarità e di positività, sia quella che aggruma un senso di impotenza e di irrimediabile caducità, Clara Schembari ha voluto scegliere dai Phantasiestücke e dagli Albumblätter due brani che evocano allegoricamente il passaggio dalla luce alle tenebre, quindi continuando sulla falsariga della Natur, vale a dire rispettivamente Des Abends e Schlummerlied, quindi la rappresentazione del “culto” della sera (a dir poco sacro per l’animo romantico) e quella di un’identificazione di purezza che rimanda all’infanzia, ossia la ninna-nanna.
Questi due brani estrapolati vengono resi pianisticamente dall’interprete tortonese nel pieno rispetto di un’immagine di Unterschlupf, vale a dire di riparo, di una cosa che dona protezione fisica e metafisica, come il focolare di una casa che offre un’immagine “magica” della sera, così come può offrire riparo la voce materna che canta per il proprio bambino. Entrambe le allegorie rimandano ancora una volta alla sfera di un qualcosa che si ama e del quale si ha un disperato bisogno, in quanto destinate inevitabilmente a svanire, ad annullarsi, non più disponibili nel tempo e nello spazio. E anche l’esecuzione delle trascrizioni pianistiche di Clara Wieck dai sette Lieder schumanniani è nelle intenzioni di Clara Schembari la volontà di un passaggio interscambiabile (oltre al gioco di Clara & Clara) tra due spiriti affini nel comunicare ciò che si prova nei confronti di ciò che è al di fuori, a cominciare dagli elementi della natura che circondano e permeano l’uomo. Trascrizione come propagazione di un’altra propagazione, non tanto trasposta in chiave di elaborazione musicale, quanto spirituale, forse l’unico nucleo di tutto il disco in cui esiste una parvenza di idilliaca continuità, resa assai bene dalla pianista piemontese, la quale ha il merito di non illanguidire, di sdolcinare oltremodo, con inevitabili rischi di ascolti diabetici.
Un mondo “fatato”, dunque, come appunto riportato nel titolo dello scritto, ma nel senso etimologico del termine e non certo nella sua derivazione e accezione popolari. Dunque, quello ricostruito da Clara Schembari è sì un mondo naturale cantato dal suo poeta per eccellenza, ossia Robert Schumann, ma nelle spire più profonde, nelle sue emanazioni più labirintiche il fatato, citare a questo punto le fiabe dei fratelli Grimm sarebbe del tutto pleonastico, è incarnazione del “fato”, del destino e dei suoi immondi capricci.
La presa del suono è stata ottimamente effettuata da Michele Fontana e presenta una dinamica corposa, veloce ed estremamente energica, pur non manifestando colorature di sorta. Inoltre, la ricostruzione del pianoforte, per ciò che riguarda il parametro del palcoscenico sonoro, è alquanto ravvicinata, pur senza risultare scorretta o innaturale. Anche l’equilibrio tonale e il dettaglio sono oltremodo positivi, con il primo che non presenta sbavature o ingerenze tra il registro acuto e quello medio-grave dello strumento e con il secondo che appare debitamente scontornato e materico.
Andrea Bedetti
Robert Schumann – Der Dichter der Natur
Clara Schembari (pianoforte)
CD Fluente Records FL28332
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4,5/5