Sperimentare in musica non significa solo andare oltre un’idea o una visione consolidate dalla tradizione, un superare le colonne d’Ercole che circoscrivono ciò che è stato scolpito nel corso del tempo, per rivoluzionare e mandare a carte quarantotto l’opera del passato, ma ha anche un’altra funzione che ha avuto un corso parallelo con la storia della stessa musica, ossia quella di affinare, di migliorare, di perfezionare uno stile, un genere, così come anche uno strumento (d’altronde, non si dimentichi quanto asserisce Max Weber nel suo testo dedicato alla Sociologia della musica, vale a dire che il procedere stesso della musica in senso storico è dato dal progressivo perfezionamento degli strumenti musicali, il che permette di conseguenza di applicare novità e tendenze innovative al linguaggio musicale).

La cover del CD Da Vinci Classics con pagine per clarinetto e pianoforte di Schumann, Brahms e Reger.

Un esempio di questo processo di perfezionamento che coinvolge gli strumenti musicali, cosa che avrebbe ricevuto il plauso del grande sociologo e filosofo tedesco, viene offerto da una recentissima produzione discografica della Da Vinci Classics, intitolata Mentors e che vede due giovani interpreti, la clarinettista Gaia Gaibazzi e la pianista Clarissa Carafa, presentare un programma cameristico incentrato su questi due strumenti con pagine di Robert Schumann, Johannes Brahms e Max Reger. Pagine che, andando in ordine cronologico (e quindi storico) e non secondo quello presentato nella playlist, contemplano i tre Phantasiestücke op. 73 di Schumann risalenti al 1849, la Sonata n. 1 in fa minore op. 120 di Brahms (1894), la Sonata n. 1 op. 49 in la bemolle maggiore (1900), l’Albumblatt in mi bemolle maggiore (1902) e la Tarantella in sol minore (1902) di Max Reger. Dunque, un lasso di tempo di poco superiore il mezzo secolo per vedere storicamente in azione uno strumento che in quella data epoca era ancora relativamente giovane e che, si badi bene, continua tutt’oggi nell’essere sottoposto a un costante work in progress a livello tecnico e acustico. Ora, restringendo questo work in progress all’epoca dei tre suddetti compositori, è bene ricordare che questo strumento a fiato nella sua accezione moderna prende avvio con il modello creato, agli inizi dell’Ottocento, da Ivan Müller, un musicista naturalizzato francese ma nato in Russia. Il suo clarinetto, perfezionato negli anni, aveva tredici chiavi con un nuovo tipo di cuscinetti e con i fori cigliati e fu vagliato nel 1812 dagli specialisti del conservatorio di Parigi ma, nonostante le sue notevoli potenzialità, non fu accettato. Nonostante queste valutazioni negative, lo strumento di Müller pose le basi al clarinetto tedesco, il quale vide un notevole impulso grazie agli sforzi di un didatta e clarinettista francese, Hyacinthe Eléonore Klosé, che si prodigò per far affermare il cosiddetto “sistema Böhm”, basato sul lavoro avviato dal compositore, flautista e inventore tedesco Theobald Böhm, il primo a introdurre sul flauto le chiavi ad anello. Klosé volle così adottare sul clarinetto sia le chiavi ad anello, sia i fori cigliati di Müller, oltre ad aggiungere nuove chiavi per un totale di diciassette. Ciò diede modo di avere un clarinetto più semplice da gestire in fatto di meccanica, senza contare una timbrica decisamente migliore e un aumento sensibile delle tonalità da poter suonare. Klosé si esibì con il suo clarinetto “ibrido” per la prima volta a Parigi nel 1839, ossia esattamente dieci anni prima che Schumann componesse i suoi Phantasiestücke op. 73.

Il flautista, compositore e inventore tedesco Theobald Böhm.

Dunque, se la stessa Gaia Gaibazzi nelle sue note di accompagnamento spiega giustamente i motivi che hanno portato a intitolare il disco in questione Mentors, basandosi sulla continuità/sviluppo della linea compositiva data da Schumann, continuata da Brahms e ulteriormente affinata da Reger, è altrettanto vero che, concentrandoci sulla linea storicista delineata dal pensiero weberiano, le pagine cameristiche per clarinetto e pianoforte prese a modello di tale produzione discografica rappresentano un perfetto esempio di come il mondo compositivo tedesco dell’epoca seppe sfruttare il miglioramento tecnico dello strumento a fiato per permettere un’evidente evoluzione sia della dimensione compositiva in sé del clarinetto, sia del genere stesso in chiave generale.

È proprio il particolare e ricco timbro del clarinetto, difatti, a improntare i tre Fantasiestücke schumanniani, frutto di quella salutare e opportuna fuga da Dresda da parte del compositore di Zwickau, che decise di lasciare la città sassone nel 1849 per sfuggire ai moti insurrezionali e alle barricate (va bene essere rivoluzionari, almeno in musica, ma Schumann non era certo un “cuor di leone”, come invece dimostrarono di esserlo Wagner e Bakunin… ). Così, durante il periodo di tempo trascorso nell’idilliaca campagna di Kreisha, la composizione di queste pagine per clarinetto e pianoforte rappresentò non solo un motivo di evasione esistenziale, ma anche un debito e preciso sfruttamento delle potenzialità offerte dal clarinetto in quella fase del suo sviluppo tecnico, se teniamo conto che, in nome della conclamata filosofia compositiva data dal fenomeno della Hausmusik, con i necessari cambiamenti di ottava, questi Fantasiestücke possono essere eseguiti, per ciò che riguarda lo strumento principale, anche con il violino e il violoncello, e ciò fa comprendere lo stato evolutivo del clarinetto nel momento in cui Schumann decise di sfruttarlo.

Inoltre, bisogna tenere conto di un altro aspetto, visto che queste composizioni appartengono al “magico anno” dedicato alla cameristica da parte di Schumann: la loro creazione è un sapiente esempio della scrittura strumentale a dir poco preziosa e calibrata del musicista di Zwickau, che si estrinseca in un perfetto equilibrio tra strumento solista, il clarinetto nello specifico, e il pianoforte. Questo perché anche se suddivisa in tre sezioni, Zart und mit Ausdruck (Tenero e con espressione), Lebhaft, leicht (Vivace, leggero) e Rasch und mit Feuer (Veloce e con fuoco), l’op. 73 è in realtà un unico brano che ruota intorno a un costante sviluppo contrastante. Tale sviluppo si rapporta genialmente alla progressiva accelerazione del tempo, in modo da aumentare di conseguenza la dimensione stessa del contrasto che viene esaltata nel passaggio da una sezione all’altra. Così, se la composizione inizia sulla base di uno struggente lirismo, si trasmuta, nella parte centrale, in una densità intrisa di malcelata agitazione, per poi assumere, in quella finale, in un conclamato slancio conclusivo, anche se vengono a mancare momenti più intimistici, sapientemente centellinati dalla felice scrittura schumanniana.

A sinistra, Johannes Brahms all'epoca della composizione delle due Sonate per clarinetto e pianoforte e, a fianco, il grande clarinettista Richard von Mühlfeld.

Sul proficuo incontro tra Brahms e il clarinettista Richard von Mühlfeld si è scritto talmente tanto, che ormai anche i sassi ne sono a conoscenza. Quindi, sempre alla luce di quanto si è già specificato sopra, è bene rammentare, per ciò che riguarda la Sonata per clarinetto e pianoforte, Op. 120 n. 1 in fa minore, che il compositore amburghese al suo tramonto creativo era giunto a un punto di perfezione tecnica da poter prevedere, nell’ultimissima produzione cameristica, con il pianoforte la presenza del clarinetto o della viola. Questo perché tra i due strumenti ci sono delle affinità, che richiedono soltanto pochi aggiustamenti in ambito tecnico necessari per la viola, senza dimenticare, però, che oltre a queste due versioni, per lo strumento a fiato e per quello ad arco, Brahms predispose anche una terza versione, questa per violino e pianoforte a favore dell'amico fraterno Joseph Joachim, anche se prevedeva molte modifiche per via delle sostanziali differenze dinamiche ed espressive del violino.

L’ultimo Brahms, e non solo nell’ambito cameristico, è a dir poco sfuggente ad ogni tipo di analisi stilistica. Una diretta conferma di ciò avviene proprio con il primo tempo di questa Sonata (Allegro appassionato), la cui struttura tematica è estremamente complessa da definire, la quale può essere riassunta, in termini del tutto generali, come una lunga e articolata linea tematica che presenta dei mutamenti interni, anche se il costrutto, nella sua arcata complessiva, resta fondamentalmente unitario. Questo tipo di “architettura” sonora permette quindi di esaltare le visioni del Brahms maturo e ormai disilluso, basate su una densissima tensione interiore intrisa di sfumature, di continui cangiamenti appena avvertibili, che danno l’impressione di una serie di ricordi e di nostalgie che si avviluppano senza soluzione di continuità. Questo tipo di carattere eminentemente intimo, discreto, colmo di una traboccante sensibilità sfocia nell’Andante un poco Adagio, formato da una struttura tripartita. Il carattere è malinconico, frutto dell’impareggiabile timbro clarinettistico e corroborato dal discreto intervento pianistico, mentre il Trio centrale vede il predominio sincopato dello strumento a tastiera. Perfino il Finale (Vivace), sebbene contraddistinto dalla giocosità instillata dallo spirito del rondò, non tradisce la visione di fondo di tutta la composizione, in quanto la vivacità deve sempre fare i conti con le ferree indicazioni fornite da Brahms nella partitura, ossia “leggiero”, “dolce”, “grazioso”, “semplice”, che di fatto frenano qualsiasi esuberanza e, soprattutto, inibiscono ogni tentativo di drammatizzare la struttura di questo tempo.

Entrambe le Sonate per clarinetto, Op. 49, furono composte da Max Reger nella primavera del 1900 e furono dichiaratamente ispirate dalla Sonata per clarinetto in fa minore, Op. 120 n. 1 di Brahms. Questa pagina fu presentata a Reger durante l’esecuzione privata del suo ex insegnante Adalbert Lindner e del notevole clarinettista Johann Kürmeyer. Lindner ebbe modo di scrivere nella sua autobiografia: « ... Reger entrò nella stanza durante la nostra esecuzione, ascoltò e disse: “Bene, scriverò anch’io due cose del genere”. Circa tre settimane dopo mantenne la promessa». Quindi, proprio come Brahms, Reger creò un’opera doppia e, pur seguendo lo schema dei quattro tempi della sonata in fa minore di Brahms, all’interno di questa struttura piuttosto tradizionale, tuttavia, il musicista di Brand sviluppò il suo particolare e tipico linguaggio, basato sul trattamento del materiale tematico, sull’invenzione di progressioni armoniche sconosciute e originali e sul suo modo intricato di fraseggiare, che lo proiettano decisamente già nel modus di scrivere del ventesimo secolo.

Max Reger in una foto del 1910.

Dopo aver completato la scrittura delle sue due Sonate, Reger le provò in un concerto privato. Lindner, a tale proposito, continua a scrivere: « ... Kürmeyer, che aveva studiato a fondo la sua parte, la portò a termine nel miglior modo possibile, e con piena soddisfazione del maestro. Alla fine, persino il padre molto critico sembrava assai soddisfatto di ogni tempo... ». Poi, Lindner e Kürmeyer suonarono ancora il primo e l’ultimo tempo della Prima sonata più volte a causa della loro complessa comprensibilità e delle bellezze insite. Lindner, sempre nella sua autobiografia, precisa: « ... Soprattutto siamo rimasti incantati dal secondo tempo orecchiabile e grazioso con il suo episodio sostenuto meravigliosamente dolce che, apparendo tre volte, ricorda la familiare canzone popolare Ach wie ist's möglich dann? (Oh, com’è possibile?), e dal Larghetto ultraterreno e sognante con la sua sezione centrale Più mosso assai in si bemolle minore, che raffigura un risveglio furioso, ma che si dissolve rapidamente. Il creatore di quest’opera, che è piena di desiderio, ha cantato se stesso nel cuore di tutti. L’ultimo movimento (6/4, Prestissimo assai) respira di nuovo un sano, quasi esuberante, senso umoristico ... ».

Oltre a questa splendida pagina, il duo Gaia Gaibazzi & Clarissa Carafa ha voluto inserire nella playlist del loro CD altri due brevissimi brani sempre di Reger, l’Albumblatt e la Tarantella, entrambi proposti assai raramente sia in sede concertistica, sia negli studi di registrazione. Il primo è un brano altamente introspettivo risalente al 1902, nel quale il musicista tedesco riesce a immettere profonde emozioni in forma di cammeo, mentre il secondo, al contrario, altrettanto breve e conciso, mostra un’evidente frizzantezza derivante dalla tradizionale danza partenopea. Ma, al di là di ciò, si tratta di una paginetta che dev’essere affrontata con attenzione espressiva e con alta perizia tecnica.

Il programma scelto dalle due nostre giovani interpreti non era certo dei più agevoli, anzi. Questo perché le pagine in questione, a cominciare dalle Sonate di Brahms e di Reger, non sono uno scherzo e non si possono affrontare come se si bevesse un bicchiere d’acqua. Ma la caratura delle lettura fatta da Gaia Gaibazzi & Clarissa Carafa non lascia dubbi di sorta: ci troviamo di fronte a un’interpretazione che merita di essere ascoltata e apprezzata.

A sinistra, la pianista Clarissa Carafa e, a fianco, la clarinettista Gaia Gaibazzi.

Da parte sua, la clarinettista savonese è riuscita a restituire degnamente le caratteristiche intrinseche dei tre autori affrontati, inscrivendo in ognuno di loro quelle peculiarità tecniche e soprattutto espressive che li riguardano, a cominciare dal saper dosare e centellinare il progressivo “crescendo” timbrico della pagina schumanniana, passando attraverso la soffusa malinconia della Sonata brahmsiana, senza tramutarla, per nostra fortuna, in una melensa paginetta per signorine palpitanti e sognanti, fino alla complessità costruttiva del capolavoro regeriano, con la dovuta padronanza dello strumento.

A farle da ideale contraltare ci ha pensato la pianista genovese, capace di delineare con precisione sia la componente relativa al dialogo, sia quella riguardante il contrasto con lo strumento a fiato. Inutile aggiungere che qui conta tantissimo un affiatamento di prim’ordine per far sì che tutto funzioni a dovere, e la prova di Clarissa Carafa ha fatto sì che ciò accadesse.

Il lavoro di presa del suono è stato confezionato da Corrado Ruzza, un nome, per dirla in termini di spot pubblicitario, che significa qualità. Una qualità che già si evince dalla dinamica, che offre trasparenza (soprattutto nel clarinetto), velocità e sufficiente energia per favorire la veridicità della timbrica dei due strumenti. Ne consegue una ricostruzione del palcoscenico sonoro che vede le due interpreti poste a una discreta profondità, ma con un suono che oltre a vantare un’ottima messa a fuoco, si irradia ben oltre i diffusori, sia in altezza, sia in ampiezza. Il parametro relativo all’equilibrio tonale non mostra scorrettezze o imprecisioni di sorta, tenendo conto che il registro del clarinetto è oltremodo “invasivo” nei confronti degli strumenti; eppure, sia la gamma medioalta, sia quella grave dello strumento non copre o impasta quelle del pianoforte, risultando precise e scontornate. Infine, il dettaglio è palpabilmente materico, capace di proiettare una fisicità tridimensionale delle interpreti e dei loro strumenti, permettendo, grazie al tanto nero che circonda il tutto, di avere un ascolto per nulla faticoso.

Andrea Bedetti

 

AA.VV. – Mentors

Gaia Gaibazzi (clarinetto) - Clarissa Carafa (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00963

Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 4,5/5