Quella di Giancarlo Aquilanti può essere definita una storia esemplare, quella di un musicista nato in una città di provincia dell’Italia centrale, Jesi per la precisione, che per seguire la sua passione artistica, iniziata come elemento della banda cittadina suonando la tromba, decide di lasciare il nostro Paese per recarsi negli Stati Uniti, dopo essersi diplomato in tromba e direzione di coro al Conservatorio di Pesaro. Nel Nuovo Mondo, Aquilanti riesce a lavorare e a farsi un nome all’Università di Stanford, insegnando e componendo. E il suo comporre non cessa mai di dimenticare il suo punto di origine, la sua terra e la sua tradizione.

La cover del CD Da Vinci Classics con brani pianistici di Giancarlo Aquilanti.

Ascoltando, quindi, le sue opere musicali, non bisogna dimenticare queste prerogative, questo continuo voltarsi verso ambiti che fanno parte di un indissolubile DNA che non si può (e non si deve) reprimere. L’occasione per ascoltarle, nel genere del repertorio pianistico, è data dalla pubblicazione di un CD della Da Vinci Classics, Oltreoceano, che vede la giovane pianista jesina Marta Tacconi, la quale collabora strettamente con il compositore conterraneo, eseguire tre pagine, esattamente Suite americana, Sonata per piano e Canti di primavera.

Alla luce di quanto ho scritto in sede di introduzione, per parlare di un brano come Suite americana, suddivisa in sei parti, non me la sento di scomodare un Antonín Dvořák, nel senso che Aquilanti intenda con questa pagina pianistica ripercorrere intenzionalmente, a livello di una stratificazione di intenti in cui convivono afflati contrastanti, dati dal richiamo della patria lontana, così come la scoperta delle terre Yankees, simili a quelli presenti in opere celeberrime quali la Sinfonia del Nuovo Mondo e il Quartetto per archi n. 12 “Americano” del musicista boemo, ma è ovvio che ascoltando la Suite del compositore marchigiano, non si può fare a meno di notare come questa pagina sia una bilancia con due piatti che si alzano e si abbassano alternativamente, vale a dire con influssi generosamente iniettati di volta in volta tra tendenze jazz, genere nel quale Aquilanti si cimenta (come nel caso della prima parte, Sunday Evening in L.A.), ad altre che, invece, rimandano a istanze decisamente al made in Italy (il segmento successivo, Melodia, è il succo di un principio dato da un altro pallino del nostro musicista, ossia il teatro musicale italico). Semmai, la vena compositiva più originale, nel senso di saper plasmare melodicamente partendo da una ferrea conoscenza armonica, si può scorgerla nel terzo segmento, Valzer impazzito, che potremmo definire “metaraveliano”, così come quello successivo, Tango. Chissà perché ascoltando invece il quinto segmento, Campanelle, mi è tornata alla mente L’Ave Maria “Die Glocken von Rom” che Liszt compose a Roma nel 1862, ma il motivo è assai semplice, poiché la pianificazione di entrambi i brani partono da un elemento minimale per poi assumere un registro sempre più ampio, anche se Aquilanti, al contrario del magiaro, chiude sommessamente. La chiusura della Suite americana, con il brano Mese di maggio,  avviene in nome di un “richiamo della foresta”, quello fornito dall’irruzione della primavera, tema assai caro all’autore, come si vedrà, con i suoi profumi e i suoi orgoni, per dirla con Wilhelm Reich.

Il compositore e didatta jesino Giancarlo Aquilanti.

La Sonata per pianoforte, scritta da Aquilanti tra il 2023 e l’inizio dell’anno successivo, è di gran lunga la pagina più interessante del CD in questione. La stessa Marta Tacconi, la quale ha scritto più che delle note di accompagnamento un vero e proprio peana tributato al compositore, fa notare che la sua «peculiarità è l’impiego di tutti gli 88 tasti», cosa che già seppero ben fare i fautori della stagione pianistica germanica votata al Romanticismo, a cominciare dal già citato Liszt. È qui che la vena creativa di Aquilanti indubbiamente si dispiega maggiormente in fatto di articolazione nella stesura canonica dei quattro tempi da cui è formata questa Sonata. Questa articolazione permette al musicista jesino di plasmare una costruzione attingendo, più o meno chiaramente, da diversi generi dominati principalmente dagli influssi jazz, oltre che da principi votati alla tradizionale forma sonata. All’interno della composizione, sono i due tempi opposti a risultare più convincenti; l’Allegro iniziale vede per l’appunto una proficua amalgama dei principi jazz con una ricerca di sviluppi tematici in cui la componente consonantica cerca sempre non tanto di dominare, quanto di scendere a patti con le impennate dissonantiche, mentre l’ultimo tempo è una Fuga a quattro voci nella quale la struttura jazzistica viene padroneggiata sapientemente.

Da ultimo, il trittico Canti di primavera, espressamente dedicato a Marta Tacconi, suddiviso in 8 maggio, Magia e Follie, che mostra come Aquilanti abbia un vero e proprio culto nei confronti di questa stagione, quella in cui si concentra il concetto della rinascita, anche se a volte l’apparenza può ingannare (per capire che cosa intenda dire, sarà sufficiente leggere Risveglio di primavera di Frank Wedekind, tappa fondamentale di quel teatro che si va a tuffare nel calderone espressionista, come a dire che non sempre e non tutto sono, per l’appunto, rose e fiori). Ad ogni modo, concentriamoci sulla visione ottimistica del nostro autore; se il primo brano è sotteso da una velata malinconia, tra l’altro, come ricorda la stessa pianista, l’8 maggio è la data di nascita di Aquilanti, come se fosse il punto di partenza di un discorso musicale destinato a innalzarsi, il secondo brano, Magia, vede la linea melodica ancora una volta farcita da principi jazz, mentre l’ultimo, Follie, a mio avviso avrebbe fatto indubbiamente piacere a George Antheil e alla sua “meccanica pianistica”, tenuto conto che Aquilanti si lascia andare a un’elaborazione scientificamente schizofrenica della tastiera, con l’aggiunta perfino di cluster sul registro grave dello strumento e con delle brevissime allusioni al Petruška di Stravinskij, anche se poi, a livello di coup de théâtre, la coda del brano vira su un improvviso e placido Adagio che tutto assorbe e pacifica.

La pianista Marta Tacconi, protagonista di questa registrazione.

Non avendo sottomano le partiture delle tre composizioni, vado a naso, anzi ad orecchio. Al di là dell’entusiasmo mostrato nel booklet, reputo più che genuina la lettura di Marta Tacconi, nel senso che tale “genuinità” si evidenzia nel rapporto di assoluta adesione che la pianista jesina pianifica con la sua esecuzione. Insomma, è il tipico caso di un’interprete che è fondamentalmente la longa manus del compositore nel quale si identifica, sia a livello di visione artistica, sia in quello di decodificazione del segno musicale. Al di là di ciò, la scrittura di Aquilanti non è uno scherzo, in quanto impone all’esecutore una padronanza di generi, a cominciare da quello jazz, che non tutti sono in grado di saper offrire in chiave classica. Quindi, lode al merito per quanto fatto da Marta Tacconi e non solo come “ambasciatrice” della musica di Giancarlo Aquilanti.

Per ciò che riguarda la presa del suono, le note dell’Inlay informano solo che è stata effettuata presso l’Indiebox Studio di Brescia. Ad ogni modo, in linea di massima, il lavoro è stato complessivamente sufficiente. Semmai, l’unico aspetto leggermente inferiore riguarda la dinamica, in quanto il Bösendorfer utilizzato dalla pianista jesina avrebbe meritato un’energia ben diversa, poiché risulta un po’ flebile e questo si può constatarlo, a livello di parametro, proprio con l’ascolto del brano Follie, nel quale il proverbiale registro medio-grave dello strumento in questione di solito risulta essere esplosivo e dominante, mentre qui non appare tale. Per il resto, gli altri parametri vanno oltre la semplice sufficienza.

Andrea Bedetti

 

Giancarlo Aquilanti – Oltreoceano

Marta Tacconi (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00965

Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 3,5/5