Quando un compositore viene ricordato nel tempo e dalla storia per via di una sola sua opera, e ciò accade sovente, quell’opera diviene inevitabilmente un’arma a doppio taglio: da una parte permette al suo autore gloria e fama imperiture, dall’altra offusca, cancella il resto della sua produzione, soprattutto se quest’ultima raggiunge la sufficienza o poco più. È curioso (oggi mi sento buono e quindi uso questo termine) che tale prerogativa vada a toccare soprattutto il fenomeno del verismo italico di fine Ottocento e quello dell’inizio del secolo successivo: dunque, abbiamo Pietro Mascagni, la cui fama è circoscritta a Cavalleria rusticana, Umberto Giordano con Andrea Chénier (e aggiungiamoci pure Fedora, sempre per i motivi di cui sopra), Francesco Cilea con Adriana Lecouvreur. Andando oltre il calderone verista, abbiamo Alfredo Catalani con La Wally, Arrigo Boito con Mefistofele, Amilcare Ponchielli con La Gioconda. Certo, esempi esteri non mancano: sfido chiunque a dirmi che cosa si ascolta di Engelbert Humperdinck oltre a Hänsel und Gretel, oppure di Fromental Halévy al di là de La Juive. Tornando al di qua delle Alpi, e più precisamente tra la genia verista, non mi sono naturalmente dimenticato di Ruggiero Leoncavallo, i cui Pagliacci continuano a spopolare in tutto il mondo, ma di cui il resto della produzione appartiene di diritto, almeno quello, alla categoria degli addetti ai lavori e, tutt’al più, alla schiera dei suoi fanatici ammiratori (da parte mia, ammetto che non mi dispiace il suo I Medici, che avrebbe dovuto far parte di una trilogia operistica ambientata nel Rinascimento, e che mi attrae per via della temerarietà del comparto vocale e per l’uso titanico dell’orchestra ma, essendo affetto da wagnerismo all’ultimo stadio, non faccio testo… ).
E se in tale “madamina, il catalogo è questo” ho voluto tenere per ultimo il compositore partenopeo, è per il fatto che, una volta tanto, un recentissimo progetto discografico non ha voluto proporre per l’ennesima volta l’ennesimo Pagliacci, ma qualcosa di più particolare, ossia l’integrale delle sue composizioni per pianoforte solo, presentata in due dischi dalla Da Vinci Classics e interpretata dalla pianista calabrese Ingrid Carbone. In un certo senso, si tratta di un dovuto tributo “geomusicale”, se si tiene conto che Leoncavallo trascorse un periodo importante della sua vita, quello della giovinezza, proprio in terra calabrese, per la precisione a Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza, località nella quale visse momenti formativi felici, suddivisi tra studi musicali e letterari, e un altro, a dir poco terribile e che lo traumatizzò per il resto degli anni, quello riguardante un suo domestico e amico, tale Gaetano Scavello, che fu ucciso sotto i suoi occhi la sera del 4 marzo 1865, all’uscita del convento domenicano.
Il rapporto che Leoncavallo ebbe con il pianoforte iniziò fin da bambino, dapprima sotto la spinta da parte della madre, Virginia D’Auria, per poi passare agli studi condotti con Beniamino Cesi al Conservatorio di Napoli. Per il resto della vita, questo strumento rimase un amico fedele, anche per motivi strettamente professionali, e non solo meramente compositivi, a cominciare dalla creazione operistica, per poi proseguire con l’insegnamento di canto, che il musicista svolse principalmente durante il periodo trascorso a Parigi per sei anni, a partire dal 1882. Questo affidarsi al pianoforte, soprattutto nei momenti difficili, che non mancarono di certo, lo spinse così a dare vita a un repertorio di poco meno di quaranta brani, che andarono ad aggiungersi al corpus delle canzoni (le quali ammontano a una cinquantina, delle quali si conserva memoria principalmente di una sola, Mattinata, che ebbe un grande successo in quanto incisa nel 1904 con la voce di Enrico Caruso e con lo stesso Leoncavallo all’accompagnamento pianistico).
Ascoltando questi brani, l’accostamento con il famigerato (e non solo per me, a quanto pare) Francesco Paolo Tosti salta subito all’orecchio, nel senso che la stragrande maggioranza di questi brani sono fondamentalmente delle romanze senza parole, come se fossero delle canzoni castrate dell’apporto vocale (ed è già qualcosa, a meno che non si sia vittime affascinate di dosi mortifere di retorica, magari sotto il nefasto apporto di determinate letture, come il deamicisiano Cuore, mentre non si legge quasi mai quel piccolo capolavoro dello stesso autore che è Amore e ginnastica).
Potrò anche apparire cinico (e non è detto che non lo sia), ma andare a scovare motivi di interesse realmente musicale in questi pezzi è come vestire i panni, a proposito di cinismo, di un moderno Diogene di Sinope, solo che al posto della fatidica lanterna, sarebbe necessario usare una torcia militare di ultimo modello per poter illuminare il tutto, nella speranza di trovare spunti degni di fede, al di là di qualche “illuminazione” stilistica. Ci troviamo di fronte a un album formato da composizioni in cui sovente è un tema danzante a fare da padrone, quindi valzer, tanghi, gavotte, gagliarde, romanesche, minuetti, ad altre in cui si alternano spunti turistici-rimembranti, create sull’onda dei ricordi dati dai diversi viaggi che Leoncavallo fece in Italia e all’estero. Così abbiamo ritmi e temi che richiamano la Spagna, come nel caso delle Airs de ballets espagnols, oppure Napoli e Venezia, con le inevitabili carovanate di tarantelle, serenate, barcarole e, ça va sans dire, gondole.
Certo, anche con l’aiuto della torcia potenziata del novello Diogene, è possibile scorgere in alcune di queste composizioni dei frisson, delle inquietudini, delle zone indistinte e grigie, ombre più o meno inquietanti, che permettono, e qui risiede a mio parere il valore di questo progetto discografico, di ascoltarle come se fossero le pagine di un diario sonoro, tenuto conto che questi brani si dispiegano per buona parte lungo l’iter esistenziale di Leoncavallo. Un altro motivo di interesse, questo sì, è dato dalla testimonianza storica che tali brani pianistici riescono a trasmettere, quella di un’Italietta ancora fresca, umida di Risorgimento, proprio con il Sud che dovette pagare a un prezzo altissimo, per via di un processo repressivo che fa ancora rabbrividire (andate a guardarvi le foto che si possono trovare sul web con le teste decapitate dei cosiddetti “briganti” calabresi, ossia quelli che oggi definiremmo “partigiani”, messe a piramide dai soldati piemontesi); troneggia un sentore di salotti e salottini, sovraccarichi di trine e gingilli, con le camere da letto dove troneggiavano bambole di porcellana, con fanciulle languorose e singhiozzanti per pene d’amor mai perdute e guappi che le concupiscono senza pietà. Un’Italietta che fu lucidamente delineata al tempo da pochissime voci immuni dal virus della retorica dominante, si pensi a un Ippolito Nievo e a un Massimo D’Azeglio, ma per il resto vittima di un provincialismo che si riflette inevitabilmente anche nel tessuto musicale dell’epoca, e che tocca i punti più bassi proprio nel genere cameristico e pianistico, fatte le debite eccezioni, anche in questo caso. Un’Italietta che guardava dal basso all’alto, com’è nel suo costume, quanto c’era oltre il mare, favoleggiando chissà quali meraviglie («Mamma, dammi cento lire che in America voglio andar»). E, a proposito di America, basta ascoltare la Marche Yankee (Viva l’America)(sic) che Leoncavallo volle dedicare al presidente statunitense Theodore Roosevelt. Dice tutto di ciò che siamo stati e che continuiamo ad essere.
La validità di questa testimonianza, di questo diario sonoro, è data essenzialmente dalla lettura fatta da Ingrid Carbone. Sarà il suo sangue calabrese, capace di entrare in empatia con le atmosfere e con i luoghi vissuti da Leoncavallo, sarà per una duttilità interpretativa che le permette di passare da Liszt, al centro delle sue precedenti registrazioni discografiche, al nostro napoletano con la massima nonchalance, sarà per la capacità di focalizzare l’espressione musicale nel suo attimo formativo, resta il fatto che l’interprete riesce ad effettuare un processo di immedesimazione esecutiva in cui traspare sempre fedelmente lo spirito di un tempo, e non solo musicale. Ciò significa restituire idealmente ciò che di negativo e ciò che di positivo tale musica può e deve trasmettere. Soprattutto, Ingrid Carbone si dimostra attenta nel non calcare la mano, a non esagerare nel riprodurre la portata, a volte decisamente esagerata, del pathos, dell’afflato da cartolina che spesso tali brani evidenziano. Lo fa con aderente semplicità, evitando di aggiungere sofismi o slanci stilistici dove non ce ne sono, ma restituendo con la sua cartolina interpretativa le visioni, le immagini, i ricordi, aprendo e chiudendo con grazia l’album di queste fotografie, ormai ingiallite dal tempo.
Stefano Ligoratti si è reso protagonista della solita, esemplare presa del suono, che si contraddistingue per una dinamica a dir poco eccellente in fatto di naturalezza, energia e velocità dei transienti, con un decadimento degli armonici davvero di ottima fattura. Per ciò che riguarda il palcoscenico sonoro, il pianoforte è ricostruito al centro dei diffusori, con una presenza leggermente avanzata e sempre perfettamente messa a fuoco. L’equilibrio tonale restituisce molto bene il registro medio-grave e quello acuto, i quali non risultano mai impastati, mantenendo un ottimo scontorno a livello timbrico. Infine, il dettaglio, che risulta essere squisitamente materico, con una presenza fisica dello strumento tale, da proiettarne la tridimensionalità.
Andrea Bedetti
Ruggiero Leoncavallo – Pour Piano Complete Works
Ingrid Carbone (pianoforte)
2CD Da Vinci Classics C00629