L’impatto visivo della cover del disco del quale sto per parlare è indubbiamente evocativo: si vede, su uno sfondo nero, un’arpa adagiata per terra, semicoperta da un lungo lembo di tessuto rosso e con accanto l’interprete, l’arpista di Urbino Anna Castellari, sdraiata accanto a lei che l’accarezza teneramente, come se volesse consolarla. Un’immagine perfetta, simbolicamente forte, per rappresentare lo stimolante programma che l’artista ha voluto racchiudere in questo progetto discografico della Da Vinci Classics, intitolato Hidden Treasures - Harp Sonatas in Exile (1939-1972), e che vede le Sonate per arpa composte da Germaine Tailleferre, Paul Hindemith, Ernst Křenek e Darius Milhaud, unitamente alla Sonatina per arpa di Sergiu Natra.
Da qui, si può comprendere meglio l’immagine della cover in questione, di uno strumento che viene scelto anche per esprimere il dolore che si prova quando si è costretti a comporre e a vivere la musica lontano dalla propria patria; come nel caso, appunto, dei cinque compositori presi in esame da Anna Castellari, la quale ha voluto con queste pagine per sola arpa mettere in rilievo non solo il concetto emotivo del distacco, vissuto sul momento o evocato poi sul pentagramma, ma anche un altro fattore che si annida nel sottotitolo del disco, ossia quello delle nuove conquiste sonore, armoniche, strutturali che presiedono queste composizioni e che di fatto allontanano inevitabilmente questo strumento da una storia e da una letteratura plurisecolari, che avevano per così dire fossilizzato e cristallizzato la sua immagine in quella di un mezzo strumentale attraverso il quale comunicare delicatezza e soavità, soprattutto grazie all’apporto interpretativo femminile.
Qui, al contrario, la materia musicale, nella sua espressione ultima, si evolve e si allinea a quanto i tempi novecenteschi imponevano, costringendo la delicatezza dello strumento a adattarsi a nuovi urti comunicativi, forniti sia da diverse scuole, sia da differenti approcci compositivi; un perfetto esempio di ciò viene dalla prima Sonata in programma, quella composta da Germaine Tailleferre, che fece parte del cosiddetto Groupe des Six. C’è contrasto, una dimensione del tutto opposta tra la vita quotidiana di questa compositrice (in un’epoca, poi, nella quale le donne erano ancora costrette a sopravvivere anche nelle sfere artistiche con i denti e con le unghie) e la sua produzione musicale: questo perché se la sua quotidianità fu funestata da situazioni familiari difficili, a cominciare da due infelici matrimoni, soprattutto il primo con il caricaturista americano Ralph Barton, morto suicida dopo il loro divorzio, e da una salute estremamente cagionevole, la sua produzione musicale, invece, è contraddistinta da una leggerezza, da una divertita dolcezza che lascia stupiti e commossi. Come nel caso, per l’appunto della sua Sonata per arpa, scritta nel 1953 su commissione del celeberrimo arpista spagnolo Nicanor Zabaleta e strutturata in tre tempi nella tipica forma della sonata classica, ossia con i due opposti veloci e quello centrale lento e più lirico. Tailleferre fu, in un certo senso, un Poulenc al femminile, in quanto la sua scrittura è estremamente raffinata, frutto di una salda conoscenza della materia armonica, di quella contrappuntistica e del conseguente sviluppo tematico, come si può evincere dal prezioso tempo centrale, mentre quello di apertura, che si contraddistingue per un ritmo che assume i contorni di una marcia, riporta a quell’immagine di agognata felicità (non dimentichiamo che anche questa compositrice fu costretta all’esilio americano, affrontato con la sorella e la figlia, quando le truppe tedesche invasero la Francia nel 1940).
La Sonatina per arpa di Sergiu Natra rappresenta una delle opere più famose di questo compositore israeliano di nascita rumena e risale al 1965, commissionata dal più prestigioso e importante concorso arpistico del mondo, l’Israel Harp Contest. Anche quest’autore, durante il secondo conflitto mondiale, subì in quanto ebreo la persecuzione, scampando miracolosamente alla morte. Natra rappresenta il tipico esempio di un musicista del vecchio continente il cui stile compositivo è profondamente radicato nella tradizione mitteleuropea, ma che allo stesso tempo si apre alle possibilità offerte dall’esplorazione di nuovi mezzi di produzione sonora, come appunto avviene nella sua breve Sonatina, che viene ricordata soprattutto per la scrittura brillante e originale presente nell’ultimo tempo.
Anche i due “enfants terribles” del Novecento tedesco e austriaco, Paul Hindemith ed Ernst Křenek, scrissero una Sonate für Harfe. Quella di Hindemith fu composta nel 1939, quando ormai si era già trasferito in Svizzera, prima tappa di quell’esilio che lo avrebbe poi costretto ulteriormente a rifugiarsi negli Stati Uniti durante la guerra, dopo che il regime nazista gli aveva boicottato le sue opere in patria. Dedicataria dell’opera fu una celebre arpista italiana, Clelia Aldrovandi-Gatti, un’artista alla quale fu dedicata anche un’altra nota Sonata per arpa, quella scritta da Alfredo Casella. Contrariamente ad altre composizioni dedicate a singoli strumenti di quell’epoca, in cui Hindemith esalta le potenzialità del suo elaborato e “intellettuale” contrappunto, la sua Sonate für Harfe manifesta ben altre necessità, causate sicuramente dalle difficoltà che il geniale compositore tedesco fu costretto ad affrontare in quel delicato e tragico periodo storico. Lo testimonia il terzo tempo che è architettato come una sorta di Lied ohne Worte, ispirato a dei versi del poeta romantico tedesco Ludwig Hölty. Tali versi narrano di un poeta e arpista in punto di morte che esprime un ultimo desiderio, quello che la sua arpa sia posta dietro l’altare di una chiesa, in modo che possa suonare come mossa da mani invisibili al tramonto. Un intento, quindi, “programmatico”, che Hindemith avrebbe voluto usare anche nei primi due tempi, con il primo che avrebbe dovuto raffigurare la descrizione di una chiesa dove un organista stava provando, e con il secondo che avrebbe dovuto tratteggiare un gioco di bambini, che avrebbero infine cantato davanti alla chiesa, ponendo così le basi per la scena finale della morte del poeta e arpista nell’ultimo tempo.
Al contrario, la Sonata für Harfe di Křenek (creata nel 1955, anche questa per Nicanor Zabaleta), com’è tipico di questo autore, è un puro concentrato di difficoltà tecniche, tenuto conto che si avventura decisamente in campi armonici più complessi, oltre a sollecitare, al limite del sadismo, le capacità di usare i pedali da parte dell’interprete. Infine, la Sonata di un altro rappresentante del Groupe des Six, Darius Milhaud (composta nel 1972 e dedicata all’arpista americana Anne Adams), nella quale il raffinato e geniale compositore francese, anch’egli costretto all’esilio statunitense in quanto ebreo, fa esaltare il suo particolarissimo stile, un concentrato di eleganza, ironia, vivacità e umorismo, che dà vita a un costrutto sonoro fatto di ritmi sincopati, melodie giocose, virtuosistici passaggi tra le corde e atmosfere gioiose, che caratterizzano i tempi opposti, mentre quello centrale s’inscrive con grazia e delicatezza, grazie a un’atmosfera decisamente contemplativa.
Questa registrazione, attraverso l’impiego dell’arpa, non mette in luce solo le opere in sè, ma soprattutto la cifra idiomatica dei compositori presi in considerazione. Questo dato deve far riflettere sulla difficoltà che tale progetto abbia rappresentato a livello interpretativo, poiché ognuno degli autori presenti vanta caratteristiche, connotazioni e visioni musicali estremamente diverse che si riversano su uno strumento che viene trattato anche in un modo che potremmo definire “meta-arpistico” (vedasi la pagina di Křenek) o in un altro che si distacca dalle consuetudini con le quali siamo abituati a concepire un musicista (vedasi il brano di Hindemith). Insomma, la difficoltà non è data solo dal saper restituire il brano in sé, ma anche e soprattutto dal fatto di saper rendere l’idea di un compositore che ha voluto sfruttare lo strumento in questione in un modo che va a sfiorare il suo snaturamento, questo perché la materia musicale tende a mettere inevitabilmente in crisi una certa visione standardizzata dell’arpa e della sua letteratura storica. È come se l’arpa fosse considerata come uno “strumento” oltre da sé, ossia come un oggetto sul quale plasmare un suono “universale” e non “peculiare” rivolto alle specificità dell’arpa (e questo, oltre che per Křenek e per Hindemith, vale anche per Milhaud).
Ho voluto specificare ciò per far comprendere la caratura della lettura fatta da Anna Castellari, alla quale va il merito di aver restituito non solo la profondità e la bellezza del suono in sé che permea queste pagine, ma soprattutto come gli autori presi in esame abbiano voluto utilizzare l’arpa come se non fosse solo un’arpa, ma qualcosa di più oggettivo, di “universale” e che hanno trovato in essa lo “strumento” più rappresentativo nell’aderire a tale tipo di suono. Così, l’arpa diventa una sorta di “prestito” momentaneo rispetto a quanto gli autori del passato avevano invece incarnato in essa. Da qui, una “peculiarità” del suono che deve considerare anche l’idea nuova rappresentata dal suono stesso. Ecco perché l’interpretazione di Anna Castellari riesce, a mio avviso, a aderire e a soddisfare questo duplice bisogno. L’artista d'Urbino penetra la materia, la plasma e la offre all’ascolto con un approccio e una sostanza capaci di esaltarla in modo compiuto e convincente. E questo vale per la mesta leggerezza con la quale dipinge le immagini raccolte da Germaine Tailleferre, per la capacità di scansionare con attenzione e fluidità la concentrazione di stili elaborati da Sergiu Natra, per l’accuratezza con la quale rende la “diversità” nella caratteristica diversità di Paul Hindemith, per la sfida raccolta e vinta con le perigliose arditezze disseminate da Ernst Křenek e per la brillantezza con la quale tratteggia l’esplosività formale della scrittura di Darius Milhaud.
La presa del suono effettuata da Gabriele Zanetti ha il merito di rendere al meglio il suono dello strumento Lyon & Healy Salzedo utilizzato da Anna Castellari. La dinamica è corposa, ma allo stesso tempo veloce e assai naturale, il che permette di cogliere appieno le molteplici sfumature che impregnano le pagine presenti nel programma. La ricostruzione del palcoscenico sonoro ne guadagna e presenta lo strumento riproposto a una discreta profondità, con un’apprezzabile ampiezza e altezza che vanno oltre la disposizione dei diffusori. Il fondamentale parametro dell’equilibrio tonale non mostra sbavature di sorta, con una debita messa a fuoco del registro medio-grave e di quello acuto, così come il dettaglio, che non tradisce la dimensione materica, contraddistinta da generose dosi di nero che esaltano la fisicità quasi tattile dello strumento.
Andrea Bedetti
AA.VV. Hidden Treasures - Harp Sonatas in Exile (1939-1972)
Anna Castellari (arpa)
CD Da Vinci Classics C00710