Disco del mese di Luglio 2022
Riducendo il discorso ai minimi termini, si può affermare che un consistente segmento della storia della musica strumentale colta in Occidente, quella che va dal Rinascimento fino, pressappoco, ai giorni nostri, rappresenta il progressivo mutamento, attraverso la manipolazione della materia sonora, della raffigurazione astratta dell’oggetto alla concezione irradiata del soggetto; ciò significa che, nel corso dei secoli, a partire dal Cinquecento fino al tramonto del Novecento, si assiste a un passaggio di prospettive, di ambiti, di obiettivi, nei quali l’arte dei suoni fissa un preciso rapporto epifanico, dapprima prendendo in oggetto ciò che è posto al di fuori del soggetto, ossia il “compositore/interprete” (nella musica antica, quasi sempre, colui che scrive musica poi la esegue), il quale mediante il suono creato e organizzato cerca di cogliere quanto lo circonda, di creare una relazione capace di decodificare, di tratteggiare le emozioni derivanti da quanto si trova al di fuori di lui, poiché il suo ruolo, la sua funzione è quella di essere un testimone privilegiato, un artefice di sensazioni con le quali ri-costruire in altro modo quanto presente si trova oltre il suo essere soggetto. Ma poi, nel momento stesso in cui il compositore si scopre sempre più artista (e non più mero artigiano dei suoni), il rapporto tende inesorabilmente a invertire le parti: il soggetto non è più al servizio dell’oggetto, visto che quest’ultimo, e ciò accade nel passaggio all’era moderna, quando il Barocco e il Classicismo lasciano campo al Romanticismo, viene plasmato e adattato alle esigenze del soggetto-artista, capace non più di rappresentare la vita, ma di “crearla” (se i compositori romantici attraverso il genere sinfonico scrivono i capitoli di un libro, Mahler giunge a concepire sinfonie che sono vere e proprie vite).
In questo processo di mutazioni di intenti è fondamentale anche attraverso quali strumenti (musicali) ciò avviene: se Max Weber afferma che la storia della musica, da intendere nella sua progressiva evoluzione, è fondamentalmente la storia dell’evoluzione degli strumenti musicali nella loro nascita, sviluppo e morte (sulla falsariga della nascita, evoluzione, tramonto e morte delle civiltà di spengleriana memoria), allora ogni epoca viene oggettivamente raffigurata e fissata mediante uno o più strumenti musicali “ideali”, in quanto capaci di concretizzarne efficacemente la sua idea. Se vogliamo essere ricettivi nel comprendere l’arte musicale che ci ha storicamente e temporalmente preceduti, ossia aderire ai suoi principi costitutivi, in modo da percepire correttamente l’oggetto che tende a raffigurare, dobbiamo allora essere pronti a capire l’importanza dello/degli strumento/strumenti che ne hanno fatto da transfert. La nostra ignoranza o, meglio, la nostra repellenza nel non sapere ascoltare e accettare la musica contemporanea sta alla base della nostra sovente incapacità di saper decodificare adeguatamente le strutture portanti della musica antica, poiché entrambe partono dall’antitetica assolutezza in cui vengono esposte: la musica contemporanea come trionfo conclamato del soggetto, la musica antica quale regno incontrastato dell’oggetto. Nella nostra desolante relatività ricettiva, non siamo spesso pronti a saper cogliere il debordare del soggetto, così come la ricostruzione di un oggetto che non ci appartiene, poiché è troppo lontano da noi e dai nostri miseri strumenti decodificativi. E, in quest’ultimo caso, ciò è dovuto anche per via degli strumenti (musicali) utilizzati, i quali appartengono a un’altra epoca e, in quanto “altro-da-noi”, soggetti magari a risultare affascinanti (nel senso etimologico del termine, ossia capaci di “legare”), ma non a dare il via, allo stesso tempo, a un processo di adesione, di presa delle loro sonorità, di un’immagine totalmente oggettiva resa mediante un suono “altro-da-noi”: af-“fascinare” (legare) non significa com-prendere.
Quanto è stato scritto finora si va a inscrivere perfettamente nella progettualità di un’interessantissima registrazione discografica pubblicata recentemente dall’etichetta olandese Challenge Classics, con il direttore orchestrale e violista da gamba abruzzese Matteo Cicchitti, il quale ha presentato un programma con Ricercari e Canzoni di quattro autori che possono essere considerati simbolicamente punto di inizio, di sviluppo, di tramonto e di morte dello strumento musicale in questione, appunto la viola da gamba, la quale è stata in grado, in un periodo che grossomodo copre due secoli, dalla metà del Cinquecento fino a quella del Settecento, di rappresentare scorci di quell’oggetto raffigurato dall’intervento del soggetto compositore/interprete. Oggetto che è l’incarnazione del gusto di un’epoca, identificazione di un approccio sincretico fornito dalla tecnica e dall’eloquenza di un linguaggio puramente astratto nel quale fissare possibili emozioni e sensazioni, alla ricerca di un “bello” che non è ancora territorio esclusivo dell’estetica per come la intendiamo usualmente. Oggetto da decodificare grazie a strutture di linguaggio, ossia generi, come quelle del Ricercare e della Canzone, per l’appunto, e che Cicchitti esemplifica con l’aiuto di quattro compositori/interpreti per eccellenza, lo spagnolo Diego Ortiz (1510-1576 circa), l’inglese Tobias Hume (1569/75-1645), il connazionale Benjamin Hely (1654-1719 circa) e l’italiano Angelo Michele Bertalotti (1665-1747 circa), vale a dire, allegoricamente, nascita, sviluppo, tramonto e morte dello strumento da loro utilizzato. Scelta lungimirante, dunque, ma non solo per quanto riguarda le figure di autori da considerare come pietre miliari di un sentiero compositivo-musicale, ma anche e soprattutto per il fatto che questi artisti sono stati artefici di un fare musica (rappresentazione dell’oggetto) mediante lo sfruttamento e il perfezionamento dati dal Ricercare e dalla Canzone, sonde consone nel fare affiorare tale oggetto.
Al di là di quanto dottamente esposto dalle note di accompagnamento al disco scritte da Francesco Rocco Rossi, docente presso il Pontificio Istituto di Musica Sacra di Milano, alle quali rimando, bisogna notare l’importanza rappresentata dal genere del Ricercare, il quale, come d’altronde viene richiamato dal suo significato etimologico, esprime la volontà di un’esplorazione sonora che viene effettuata attraverso un’attenta, ponderata “ricerca” dell’oggetto da dare alla viola da gamba e, storicamente prima di essa, al liuto, e ai mutamenti melodico-ritmici da fornire al materiale musicale nell’atto dell’improvvisare (sia ben chiaro, questo modello di “improvvisazione” non significa che il compositore/interprete poteva liberamente dare briglia sciolta alla sua immaginazione, ma racchiudere tale modo di improvvisare sulla base di precise e inderogabili regole di scrittura). E il tutto racchiuso in pezzi di brevissima durata, che quasi mai arrivavano a superare i tre minuti (quindi, per dare luogo a universi musicali, con i quali portare a galla l’elemento oggetto mediante microstrutture compositive, non si deve per forza attendere l’arrivo di un certo Anton Webern… ), dando così vita a supremi atti di condensazione artistica.
Tale modello di condensazione viene fissato nella presente registrazione discografica attraverso le prime quattro Recercadas tratte dal secondo libro del Tratado del glosas, pubblicato nel 1553, da Diego Ortiz, in cui l’atto dell’improvvisazione, che rimanda al concetto/genere della Fantasia, rappresenta il genere costitutivo, il nucleo generante del Ricercare, destinato poi a svilupparsi su ben altri piani, a cominciare dall’irruzione della scrittura polifonica. Qui, invece, l’oggetto viene sceverato grazie a un continuo, matematico gioco di esposizione e rielaborazione, il tutto sulla base di altrettanto ferrei canoni ritmico-melodici. Astrazione che sonda la dimensione spazio-temporale, di cui assimila la fisicità oggettiva per restituirla in mirabili microuniversi fatti di puro suono.
Dal Ricercare, poi, si passa alla Canzona, qui espressa con i due autori inglesi, Home e Hely. Il primo è uno dei nomi che accompagna la gloriosa storia dei compositori elisabettiani all’inevitabile Untergang storico; personaggio a dir poco straordinario e irripetibile, fatto di un irresistibile mix di arte e di violenza, visto che, oltre ad essere stato un virtuoso della viola da gamba dell’epoca, fu anche un soldato mercenario (la sua reale professione), prima al servizio dell’esercito svedese e poi di quello russo. Di questo musicista “jüngeriano” Cicchitti presenta cinque brani tratti dalla raccolta The First Part of Ayres, French, Pollish, and other together… with Pavines, Galliards, and Almaines, pubblicata nel 1605. Brani che traggono linfa dal genere della Canzona, la quale rappresenta una rielaborazione, un Bearbeitung, sulla quale si innesta un principio improvvisativo che risulta essere meno vincolato rispetto a quello presente nel Ricercare. Nella fattispecie, la raccolta The First Part of Ayres fu composta da Hume per trasporre il suo concetto di guerra, di lotta dal genere militare in quello musicale, in quanto risposta decisa (e anche canzonatoria, com’era nello stile di questo particolarissimo personaggio) alla vagheggiata superiorità del liuto portata avanti da John Dowland. In questi brani, circoscritti da titoli decisamente criptici, si celano, dietro ammirevoli sviluppi melodici e timbrici, richiami di pezzi originari, sovrastrutture che si vanno ad adagiare su strutture preesistenti, arabesco lavorio che cesella l’idea primigenia abbellendola, assecondandola attraverso nuovi sentieri sonori, contemplazione che si trasforma in riflessione. Sulla stessa falsariga si muove il più misterioso (soprattutto per via delle pochissime informazioni biografiche in nostro possesso) Benjamin Hely, il quale incarna in questo progetto discografico l’irruzione del tramonto nella storia della viola da gamba, poiché rappresenta l’ultimo grande esponente della scuola d’Albione per ciò che riguarda questo strumento ad arco. Il direttore d’orchestra e violista abruzzese presenta, in prima assoluta mondiale, quattro brani di questo autore, tratti dalla raccolta The Complet Violist, pubblicata nel 1699. Si tratta di un florilegio di composizioni, alcune delle quali, come quelle qui registrate, che furono probabilmente commissionate a Hely da musicisti che volevano approfondire la conoscenza della viola da gamba, sebbene stesse ormai per essere soppiantata. Brani da studio, dunque, ma non per questo sterilmente didattici, anzi. La loro funzione, attraverso la nobiltà del tessuto costruttivo che l’autore riesce a intessere, è di mostrare la straordinaria duttilità dello strumento, capace di ergersi in una dimensione sacrale, Psalm 100 & Psalm 92, così come in quella profana della danza, Minuet e Bourrée, oppure ancora nella pura dimensione di una dolce eloquenza, Ayre Slowtime.
L’Untergang vero e proprio, la dimensione “spengleriana” di questo viaggio al termine della viola da gamba giunge infine con il bolognese Angelo Michele Bertalotti in pieno XVIII secolo (vengono i brividi al pensiero che nel cuore del Barocco un simile strumento stia ormai agonizzando), un autore oggi ricordato soprattutto per la sua produzione vocale, svolta sia in campo compositivo, sia in quello didattico. Ed è quindi naturale che qui la scelta fatta ci faccia capire come ormai la viola da gamba, per sopravvivere, debba appoggiarsi ad altro, quindi facendo leva su una preesistente dimensione canora, come nel caso del nostro autore, del quale Cicchitti, sempre in prima assoluta mondiale, esegue diciannove brani che appartengono alla raccolta Regole facilissime per apprendere con facilità, e prestezza li canti fermo e figurato dati alle stampe per comodo delli putti delle Scuole Pie di Bologna, apparso nel 1698. Diciannove Ricercari che furono stampati alla fine della raccolta (in realtà ventuno, ma gli ultimi due non riportati nella presente registrazione in quanto appannaggio di due strumenti e non di uno solista), suddivisi a loro volta in due serie, con la prima formata da dieci pezzi per contralto e la seconda da nove per soprano. La trascrizione assume un fascino tutto suo, con la voce umana piegata alla volontà e alle necessità delle corde dello strumento ad arco, voce che continua a cantare con una nuova voce, sebbene ingabbiata in una serie di precise notazioni chiaramente didattiche. Voce che esplora ancora la presenza dell’oggetto, lo tratta, lo sonda, lo espone, facendolo affiorare in una solitudine sonora che però non è mai solitaria, mai persa in se stessa.
Avviso ai naviganti: per i motivi che sono stati addotti, a cominciare dalla nostra limitata ricezione estetica altra, l’ascolto di questa registrazione non è semplice, nonostante che la sua durata superi di poco i cinquanta minuti. Ma qui non conta il tempo dato dal minutaggio fisico, ma quello interiore con il quale bisogna confrontarsi. Sono le dure leggi dell’oggetto al quale non apparteniamo più, abituati come siamo ormai al confronto con il soggetto proposto dall’arte dei suoni, più consono non dico a questo presente, cuore di un immane Kali-Yuga, ma quantomeno a un recente passato. Eppure, chi sa ancora destreggiarsi tra gli ambiti dell’astrazione oggettiva, chi ancora sa confrontarsi con la diafana bellezza della musica antica e con quella che si affaccia ormai sugli abissi dell’incipiente Barocco, non potrà non sentirsi soggiogato dall’impatto interpretativo proposto da Matteo Cicchitti.
Un repertorio quasi del tutto sconosciuto, un viaggio solitario nel cuore dell’oggetto storico e musicale, un confronto assoluto e totalizzante con uno strumento che, per forza di cose, deve diventare tutto, se si vuole essere interpretativamente convincenti. E l’artista abruzzese ci riesce perfettamente, poiché se l’obiettivo era di rendere, di evidenziare quattro scorci differenti di quell’oggetto di cui si è detto, se lo scopo era di far affiorare la dimensione di un suono immanente, dato dalla sensibilità degli autori in questione nel plasmare la loro immagine oggettiva, allora ci troviamo di fronte a una lettura che definire ragguardevole significa affermare poco. Prima di tutto, la lucidità e la sensibilità che Cicchitti immette nell’esecuzione. Al di là delle esecuzioni in prima mondiale per le quali non ci sono parametri identificativi e comparativi, ma che a mio avviso sanno restituire perfettamente l’humus culturale, artistico e musicale della loro epoca, ossia restituendo la raffigurazione oggettiva nella quale sono incarnati e di cui sono emanazione diretta (a tale proposito, è ammirevole come lo strumento canti una voce che è umana nella sua anima, e mi riferisco in modo particolare nei Ricercari di Bertalotti), colpisce la capacità di trasformare la viola da gamba in una tavolozza in cui i colori, le sfumature, le improvvisazioni semplicemente “telecomandate” portano lo strumento ad essere realmente polistrumentale.
Oltre ad essere una delle registrazioni discografiche più avvincenti, più profonde, più riflessive che abbia ascoltato negli ultimi tempi, quella di Matteo Cicchitti rappresenta un episodio ineludibile per com-prendere l’importanza, il significato, la portata e la caratura rappresentata dalla viola da gamba nel corso di due secoli. Un risultato ottenuto da un interprete che è da considerarsi tra i maggiori cultori di questo strumento a livello internazionale.
Per tali ragioni, questo non può che essere il disco del mese di luglio di MusicVoice.
A completare la rarità di questa registrazione ci pensa la presa del suono effettuata da Maurizio Paciariello, tenuto conto che il luogo era oltremodo delicato, trattandosi di una chiesa, per la precisione il Santuario di Maria Santissima Madre di Dio a Santa Maria Imbaro, in provincia di Chieti. Questo perché un luogo sacro pone sempre problemi non indifferenti di riverbero, che qui però sono stati perfettamente padroneggiati e indirizzati, in modo da ricostruire a dir poco idealmente lo strumento ad arco nello spazio sonoro dato dal palcoscenico sonoro, con la viola da gamba che si viene a delineare a una congrua profondità, capace di materializzare la fisicità del luogo, ma senza pregiudicare l’entità del suono stesso. Questo grazie anche a una dinamica che risulta essere limpida, precisa, velocissima e ricca di energia, energia che non pregiudica i molti passaggi in cui irrompe la microdinamica, sempre attenta nel saper rendere le debite sfumature timbriche. L’equilibrio tonale conferisce merito alla medesima definizione, in quanto l’equilibrio tra il registro acuto e quello medio-grave è perfetto, mai invadente o poco preciso, il che permette il godimento dei passaggi più articolati e complessi, senza perdere un’oncia di chiarezza della sua emissione. Infine, il dettaglio è un inno alla matericità, poiché lo strumento, una copia di Jacobus Stainer del 1667 costruita da Chiara Segalieri nel 2017, vanta un’impeccabile tridimensionalità che porta l’ascolto ad essere semplicemente “tattile”. Siamo, quindi, a tutti gli effetti, di fronte a un lavoro audiofilo.
Andrea Bedetti
AA.VV. – Ricercari e Canzoni
Matteo Cicchitti (viola da gamba)
CD Challenge Classics CC72918
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 4,5/5