Bisogna ammettere che i quattro componenti del Quartetto Sincronie non difettano di coraggio e anche di una punta di sana incoscienza, visto che per il loro debutto discografico, fatto con l’etichetta Stradivarius, hanno voluto presentare tre degli otto quartetti per archi di Gian Francesco Malipiero, per l’esattezza il numero 2 Stornelli e ballate, il numero 3 Cantàri alla Madrigalesca e il numero 6 Arca di Noè, opere cameristiche che sono al contempo ancora poco conosciute, purtroppo, dal vasto pubblico e sature di mille difficoltà tecniche e stilistiche, tra le più ardue da esprimere al meglio del Novecento storico e non solo italiano. A questi tre quartetti è stata aggiunta anche la trascrizione quartettistica della Messa a quattro voci da cappella di Claudio Monteverdi, che appartiene alla raccolta postuma, pubblicata dallo stampatore veneziano Alessandro Vincenti nel 1650, intitolata Messa a quattro voci et salmi concertati e contenente, oltre la Messa, quattordici mottetti e una litania. Una scelta non certo casuale quella fatta dalla compagine cameristica in questione, sia per il fatto che Malipiero fu il primo a curare la prima edizione delle opere complete monteverdiane in sedici volumi, usciti tra il 1926 e il 1942, sia per quello di mettere giustamente in evidenza la prodigiosa e illuminante continuità data dalla pluricentenaria scuola musicale veneziana della quale Malipiero è stato fecondo e geniale appartenente.

La cover del CD Stradivarius dedicato a tre quartetti per archi di Malipiero e alla versione quartettistica della Messa a quattro voci 1650 postuma di Monteverdi.

Una scuola, quella veneziana, che non ha mai rinnegato se stessa nel corso del tempo, nel senso che i vari compositori, che si sono succeduti storicamente da Cipriano de Rore e Adrian Willaert, hanno sempre attinto dalla profonda lezione dei loro predecessori, come appunto fecero nel secolo scorso Malipiero prima, Bruno Maderna e Luigi Nono poi. Tornando ai quartetti per archi del compositore morto ad Asolo nel 1973, non appare spropositato il fatto che per la loro importanza debbano essere posti allo stesso livello, in ambito novecentesco, ai sei di Béla Bartók e ai quindici di Dmitrij Šostakovič, partendo dalla volontà del loro autore di volerne riformulare in modo originale e proficua la struttura formale, con un deciso allontanamento dai canonici quattro tempi per plasmarla invece dal modello della tipica chanson vocale cinquecentesca. Come ebbe modo di affermare lo stesso Malipiero, «il discorso della musica veramente italiana (basta pensare a Domenico Scarlatti) non s’arresta mai e segue la legge naturale dei rapporti e dei contrasti: non costruzione geometrica ma un’architettura pensile e solida, antisimmetrica e proporzionata».

In tal senso, gli otto quartetti per archi malipieriani rappresentano proprio il risultato più eclatante e convincente di tale “architettura antisimmetrica e proporzionata”, votata anche alla riscoperta di sonorità che attingono da dimensioni appartenenti ad altri modelli architettonici del passato e che si riferiscono propriamente alla metrica poetica rinascimentale, ma non con finalità puramente classiche e parallelamente accademiche (come afferma giustamente Francesco Fontanelli nelle note di accompagnamento, forse esposte in modo fin troppo tecnico e specialistico in ambito musicologico, almeno per un ascoltatore medio, in Malipiero «il retaggio classico era per lui sinonimo di accademismo; la complessità di scrittura, spia di artificio; la storia, svincolata dalla linea del progresso, diveniva al suo sguardo una ricognizione rabdomantica di modelli, che pesca nell’antico, fra gli artisti dimenticati di un mondo che non c’è più». Eppure, anche nel compositore veneziano la complessità di scrittura non manca, pur non restando relegata nel mero ambito dell’esercizio di stile, ma rapportata sempre a finalità il cui denominatore comune è dato proprio dalla ricerca inesauribile tipico della “legge naturale dei rapporti e dei contrasti”.

La "trimurti" del quartettismo del Novecento: in alto, Gian Francesco Malipiero e, sotto, da sinistra, Béla Bartók e Dmitrij Šostakovič.

Probabilmente, in ottemperanza a tali rapporti e contrasti, che non devono essere ricercati solo all’interno di un’opera di un singolo autore, ma plasmati e convertiti all’interno di un percorso in grado di coinvolgere più autori e più generi, sta anche la scelta del Quartetto Sincronie di aver alternato nella tracklist del disco i tre quartetti di Malipiero con i sei segmenti della messa monteverdiana, la quale appartiene a un’opera più generale, quella appunto data alle stampe nel 1650, che il genio cremonese non volle depositare nell’archivio della cappella di San Marco, ma più probabilmente decise di conservarli nella sua biblioteca personale, portandoli nella basilica marciana o in altre chiese solo quando era necessario. A ciò si può aggiungere un altro dato assai interessante, che accomuna la visione di Malipiero a quella di Monteverdi, quello che riguarda la pratica dell’uso e del riuso del materiale tematico. Se la raccolta monteverdiana del 1650, come accade nella Selva morale risalente a nove anni prima, mette in luce come il compositore riutilizzasse materiali musicali da una versione all’altra di uno stesso salmo, rielaborandolo, aumentandolo o accorciandolo, facendo bene attenzione a celare il riuso per mezzo di un nuove sezioni iniziali, allo stesso modo nei quartetti per archi di Malipiero assistiamo, alla luce del sole, al riutilizzo di sistemi compositivi, di visioni armoniche, di soluzioni melodiche e dissonantiche che vantano prerogative e agganci con dei punti chiave dell’universo compositivo dell’autore veneziano: l’uso delle corde vuote, il fascino del cromatismo, il richiamo ritmico che si fa sempre più presente, l’elemento della cantabilità squisitamente cinquecentesca.

Gian Francesco Malipiero nello studio della sua villa ad Asolo.

Entrando nello specifico, il Quartetto n. 2, elaborato nel 1923, durante la sua permanenza a Parma in qualità di docente nel conservatorio locale, rappresenta un processo di scompattazione di un agglomerato sonoro votato a un cromatismo capace di diluirsi in chiari elementi ritmici e che trova nell’undicesimo e ultimo episodio, un Allegro rozzo, una chiara matrice dissonantica, quasi dispersiva, sperdente nella galassia sonora generale. Per ciò che riguarda il Quartetto n. 3, composto nel buen retiro di Asolo nel 1931, vale quanto scrisse lo stesso autore in termini di breve presentazione: «La costruzione dei Cantàri alla madrigalesca è più ampia di quella dei due quartetti precedenti, pur non essendovi sviluppi tematici. Si dividono in due parti che si eseguiscono senza interruzione. I movimenti lenti e allegri si alternano, non per convenzionali effetti di contrasto, ma seguendo unicamente la linea architettonica generale. I Cantàri alla madrigalesca non sono che la sonorità degli istrumenti ad arco che cantano: cantano suonando, e il carattere madrigalesco risulta spontaneamente dalla loro espressione». Il cantare, dunque, quale applicazione di una polifonia che dalla voce umana passa a quella degli strumenti ad arco, come a dire il seme che diviene frutto. Infine, il Quartetto n. 6, scritto sempre ad Asolo nel 1947, vanta un titolo che è già fonte di emblematicità del modo di sentire vivere la propria sensibilità da parte di Malipiero; l’Arca di Noè, in fondo, rappresenta il salvaguardare se stesso, dopo gli orrori del secondo conflitto mondiale, un salvataggio nel quale sono coinvolte quelle cose che meritano di essere salvate dal naufragio dei tempi e, allo stesso tempo, attenzione, in termini musicali, nei confronti del mondo animale (il giardino della sua villa asolana rappresentò un’oasi e un rifugio per cani e gatti), un’attenzione che diviene rapporto paritario tra uomo e animale, anticipando di fatto quelle che saranno poi le elaborazioni speculative e anticonformiste, in tal senso, fatte in seguito dal filosofo francese Jacques Derrida.

Il Quartetto Sincronie, al suo debutto discografico.

L’alternarsi dei tre Quartetti per archi malipierani con i passaggi della Messa a quattro voci monteverdiana genera in fase di costrutto e, parallelamente, in quella dell’ascolto anche un altro processo estetico/cognitivo, quello che riguarda il bilanciamento del fattore voce/canto (offerto dall’intenzionalità del compositore veneziano di far “cantare” i quattro strumenti ad arco) che oscilla in quello rappresentato dal canto/voce (ossia del passaggio trascrittivo delle quattro voci della composizione sacra del genio cremonese in quelle strumentali, con il chiaro intento di rovesciare il procedimento di Malipiero, ma senza che tale artefatto, sempre che si possa considerarlo tale, generi un risultato artificioso), facendo sì che i due violini, la viola e il violoncello possano esprimere quattro linee in cui il suono delle corde strumentali attui una trasmutazione ideale di quelle vocali.

A livello di lettura, quella fatta dal Quartetto Sincronie risulta pienamente convincente, sia per quanto riguarda i tre quartetti di Malipiero, sia per ciò che concerne la trascrizione della Messa monteverdiana. Se vi è una grande difficoltà che coinvolge, a livello interpretativo, i quartetti del compositore veneziano, questa riguarda la capacità di far trasparire l’elemento di quella cantabilità di cui si è accennato a fronte di fattori tecnici e armonici che al contrario ostacolano la sua piena realizzazione espressiva. In ciò, l’aspetto che colpisce è la naturalezza con la quale i quattro elementi del Quartetto riescono ad aggirare la componente ostacolante, in modo da esaltare appieno questo cantare che è poi prerogativa comune di gran parte del catalogo compositivo di Malipiero. Una naturalezza fatta di perfetto affiatamento, capacità di padroneggiare la materia sonora, facendo intravvedere l’immagine “danzante” di cui sono intrise queste composizioni perfino nei momenti più “dissociativi” e dissonanti. Ciò significa lucidità e chiarezza nel saper trasmutare il segno in suono, sia nel senso complessivo del quartetto, sia per ognuna delle quattro “voci”. Proprio il côté “voce” è poi risultato indispensabile per poter attuare al meglio la lettura della meravigliosa pagina monteverdiana, in cui l’aspetto del canto polifonico non perde un’oncia nella dimensione trasposta del suono strumentale, il quale riesce sempre a comporre e a decomporre con disarmante capacità analitica ed espressiva l’intrecciarsi delle linee. E, sempre in chiave monteverdiana, era necessario manifestare un’altra sua peculiarità essenziale, quella che riguarda la bellezza del suono in sé, la magia di saper evocare proiezioni di una massa timbrica che tende ad ascendere, votata a un anelito verticale, cosa molto più facile da ottenersi con le corde vocali, assai meno con quelle strumentali. Eppure, anche in tale aspetto, il Quartetto Sincronie è riuscito a restituire una geometria spirituale del suono, la cui densità ieratica, riflessiva, comunica bellezza interiore e vastità di “cielo stellato” di kantiana memoria.

A questo punto, visto il risultato dei primi tre lavori, confido seriamente che il Quartetto Sincronie, in una prossima registrazione, porti a conclusione l’incisione del corpus quartettistico di Malipiero, ponendosi ai vertici della, ahimè, scarna discografia (una speranza che, come si può leggere nell'intervista fatta al Quartetto Sincronie, leggi qui, si è tramutata in certezza... ).

L'interno della chiesa di San Terenziano a Capranica, dove è stata effettuata la registrazione (© Omar Kheyraoui).

Ancora una volta Maurizio Paciariello ha saputo confezionare un ottimo lavoro per ciò che riguarda la presa del suono, che è stata effettuata nella piccola chiesa di San Terenziano a Capranica, nel cuore della Tuscia viterbese. Sfruttando le ridotte dimensioni dell’edificio sacro, Paciariello ha dato vita a una dinamica assai veloce, energica e, al contempo, ricca di naturalezza. Ne ha tratto giovamento il parametro del palcoscenico sonoro, nel quale i quattro interpreti vengono ricostruiti al centro dei diffusori a una discreta profondità, senza che venga meno la loro messa a fuoco e permettendo di ottenere un’adeguata altezza e ampiezza del suono. Anche l’equilibrio tonale non mostra pecche di sorta, con una chiara distinzione tra registro acuto e quello medio-grave nei quattro strumenti (il che, visto che parliamo di un quartetto per archi, significa saper distinguere anche a un ascolto non attento la presenza o meno della viola rispetto ai violini), così come il dettaglio, capace di trasmettere un’ottima matericità, con abbondanti dosi di nero che circondano gli strumenti, in modo da permettere un ascolto mai affaticante, anche quando la gamma acuta dei violini la fa da padrona.

Andrea Bedetti

Gian  Francesco Malipiero - Claudio Monteverdi – Quartetti 2, 3, 6 – Messa a quattro voci 1650 post.

Quartetto Sincronie (Houman Vaziri e Agnese Maria Balestracci, violini; Arianna Bloise, viola; Ester Vianello, violoncello)

CD Stradivarius STR 37281

Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4,5/5

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