Il rapporto tra musica contemporanea e organo è in un certo senso assai particolare, in quanto veicolato al ferreo principio del prendere o lasciare o, affermato tramite un richiamo filosofico, al kierkegaardiano Enten-Eller, ossia diramandosi in due distinti sentieri, il primo in nome di un’estetica/ricerca e il secondo basato sulla sfera dell’etica/tradizione. Del primo, tanto per chiarire il concetto, voglio citare solo il caso di un’opera di John Cage, composta tra l’altro originariamente per pianoforte, ossia Organ²/ASLSP risalente al 1987 (la versione pianistica la precede di due anni), la cui peculiarità consiste nel fatto che il compositore americano non diede mai indicazioni su che durata dovesse avere (l’acronimo ASLSP significa As SLow aS Possible, ossia “il più lento possibile”), al punto da permettere una sua esecuzione, discussa e organizzata nel 1997, nel corso di una conferenza filosofica-musicologica, e che ha preso avvio nel 2001 nella chiesa di Sankt-Burchardi ad Halberstadt, in Germania, destinata a durare esattamente 639 anni, per concludersi quindi nel 2640 (sia ben chiaro, ciò sta avvenendo grazie a un particolare organo, la cui esecuzione viene portata avanti non da un plotone presente e futuro di musicisti, bensì tramite un ingegnoso sistema di sacchetti di sabbia che, tramite un meccanismo preposto, azionano autonomamente i tasti).
Non è questa la sede adatta per approfondire questo particolarissimo brano, con il quale Cage volle affrontare la questione a-temporale del tempo musicale/esistenziale, ma se l’ho citato è stato solo per fornire un assaggio di come la sperimentazione, nell’alveo della musica contemporanea, può affrontare e utilizzare uno strumento come l’organo. Ciò che invece mi interessa, anche rispetto al progetto discografico che affronto in questo scritto, è l’ambito etico e, per certi versi, “tradizionale” di come la categoria non solo musicale, ma anche speculativa, possa ancora considerare ed accettare oggi l’organo quale transfert sonoro. È indubbio che non esista strumento musicale più categoriale dell’organo; ascoltare il suono organistico significa essere investiti da presupposti e da tematiche che appartengono a campi squisitamente metamusicali, poiché questo strumento, come nessun altro, vanta la proprietà di rimandare a un qualcosa d’altro. Non mi riferisco, ovviamente, a una questione legata al concetto della semplice astrazione dal suono stesso, che investe soprattutto coloro che non conoscono il linguaggio musicale e che quindi nel corso dell’ascolto inevitabilmente si abbandonano a immagini più o meno astratte, in quanto incapaci di seguire i mutamenti armonici, in quanto avvinti unicamente alla proiezione melodica. Ascoltando un organo, invece, si tende a pensare, a riflettere, a gestire un impianto in cui irrompono categorie più o meno speculative. Ecco perché la Chiesa ha giustamente (e furbescamente) considerato l’organo quale strumento da associare alla liturgia, poiché la dimensione evocativa del suo suono simboleggia acusticamente la portata teologica di ciò che trasmette (non mi sembra che sia il caso di citare Bach a tale proposito).
Dunque, la sfera estetico/sperimentale può avere una sua valenza, ma quella etico/tradizionale continua ad avere una sua precipua necessità. E questo lo sanno molto bene i compositori attuali che si rivolgono all’organo quando desiderano comunicare tramite un apparato sonoro che ha anche la funzione di rimandare a, di aprire scenari in cui il pensiero generato sia compartecipe al messaggio puramente sonoro.
Etica e tradizione, quindi, come ha fatto il compositore italiano David Fontanesi, il quale se a una parte ha studiato composizione con Azio Corghi, dall’altra si è laureato in Filosofia medievale a Padova, il che ci fa comprendere meglio come la sua predisposizione all’arte musicale sia stata disciplinata da un pensiero epocale che ha fatto della logica la sua chiave di volta (e senza dimenticare che è anche autore di un saggio, il cui titolo la dice lunga: Preludi ad una metafisica della musica contemporanea, pubblicato nel 2018 da Zecchini Editore). Per quanto riguarda la sua discografia, invece, dopo aver pubblicato dischi dedicati alla musica da camera e a quella sinfonico-concertistica, recentissimo è il suo ultimo progetto, pubblicato dalla Da Vinci Classics e dedicato a quattro Sonate per organo, composte tutte nel 2021, ed eseguite da Andrea Albertin, che ha curato anche le note di accompagnamento.
Avviso ai naviganti: ci troviamo di fronte a un’opera in cui l’organo viene trattato ed esaltato (per la registrazione è stato scelto l’organo Tamburini-Bonato che si trova nel Duomo di Abano Terme, vicino a Padova) sulla base di una rigorosa tradizione compositiva che affonda fino al sommo Kantor, il che potrebbe far storcere il naso ai nipotini darmstadtiani, come a dire “nulla di nuovo sotto il sole”, quando in realtà ci troviamo di fronte a una delle composizioni organistiche più affascinanti e coinvolgenti che abbia ascoltato negli ultimi anni. Ma andiamo per ordine.
Premetto che scrivere per organo seguendo una modalità precostituita e la cui tradizione è semplicemente plurisecolare può essere fatto solo se si padroneggiano due campi, quello della composizione e quello relativo a uno sfruttamento efficace dello strumento in questione. Non solo, ma se si vuole battere il sentiero della tradizione, non lo si deve fare mettendo soltanto i piedi sulle orme lasciate dai più grandi del passato, ma facendo in modo che le orme lasciate siano le proprie. Ora, ciò che mi ha particolarmente colpito in queste quattro Sonate è proprio questo fatto, visto che il compositore mantovano ha saputo attingere per creare ex novo; questo significa che ha fatto ampio uso di strutture, regole, linguaggi e principi compositivi, sfruttando a piene mani il contrappunto su quella solida roccia chiamata sistema tonale, con debite citazioni di Bach e con rimandi armonici che richiamano alla mente edifici sonori di stampo regeriano.
Sia ben chiaro, però, che Fontanesi non ha dato forma a queste quattro Sonate per scimmiottare i grandi del passato, ma per adempiere a una missione artistica e intellettuale, quella di restare fedele a una certa tradizione in nome di una concezione etica, attingendo al proprio patrimonio creativo, con il quale collegare pietre miliari del passato (come quando fa riecheggiare nel primo tempo della prima Sonata il thema regium presente nel Musicalisches Opfer bachiano) a momenti di beata introspezione, come nell’Andantino della prima Sonata, capace di evolversi in una radiosa apertura finale, nel quale il suono si irradia trionfalmente. La continua correlazione tra tradizione del passato e necessità etica nel presente si accomuna, come sottolinea giustamente Andrea Albertin il quale, oltre ad essere valente tastierista, è anche direttore d’orchestra, al fatto che queste Sonate più che un impianto strutturale organistico vantano un afflato sinfonico, nel senso che il trattamento dei registri avviene non seguendo simbolicamente un andamento verticale, bensì orizzontale, facendo attenzione a sviluppare un tema sfruttando anche la componente melodica (si ascolti l’Allegretto scherzoso con cui si apre la seconda Sonata) e rovesciando in tal senso quanto fece un Bruckner in sede sinfonica, ossia trattando non solo le sezioni orchestrali, ma anche il tessuto sonoro in chiave organistica, con il risultato di ottenere una proiezione verticale del timbro. Questa visione “sinfonica” presente nelle Sonate di Fontanesi diviene sempre più marcata con il susseguirsi dei tempi, al punto che giustamente Albertin consiglia di ascoltarle rispettando l’ordine dato dalla tracklist, in quanto dietro la progressione numerica si cela indubbiamente un’unitarietà di sviluppo generale della visione di Fontanesi in rapporto allo strumento utilizzato. L’aspetto numerico, fissato ulteriormente dall’entità dispari, data dai singoli tempi, che si unisce al numero pari delle Sonate. Ora, se Fontanesi non avesse fatto studi di filosofia medievale non avrei fatto la riflessione che segue, ma siccome il pensiero medievalistico è impregnato dal concetto numerologico, è bene ricordare come nella Kabbala il dodici veniva scomposto in uno e due, cifre che poi vanno sommate per dare un numero con una sola cifra, con il dodici che si trasforma quindi in tre, vale a dire la perfezione. Inoltre, il dodici indica la ricomposizione della totalità originaria, la discesa in terra di un modello cosmico di pienezza e di armonia, senza dimenticare che in ogni forma di iniziazione di stampo esoterico, indica la conclusione di un ciclo compiuto, vale a dire il poter passare da un piano ordinario ad un piano superiore, sacro (quest’ultima peculiarità si associa al fatto che spesso dodici erano le prove fisiche e mistiche che dovevano essere affrontate e superate da colui che ambiva al grado di iniziato, senza contare che in diverse culture dell’antichità i riti iniziatici iniziavano proprio all’età di dodici anni, dopo di che si entrava nell’età adulta).
Mi chiedo, dunque, se il filosofo Fontanesi abbia influito e influenzato in tal senso il musicista Fontanesi; questo perché tornando agli aspetti della tradizione ermetica ebraica, dalla quale il pensiero medievale ha instancabilmente attinto, non si può fare a meno di ricordare come le dieci Sefiroth che fanno parte dell’Albero Sefirotico sono collegate da ventidue canali, tre dei quali orizzontali, sette verticali e dodici diagonali. Tre e dodici, come risultato parziale e dodici quale risultato globale, con i quali il compositore ha voluto fissare esotericamente la sua visione organistica (l’ultimo brano, l’Allegro assai della quarta Sonata, una trascinante ed esaltante Toccata, è una formidabile trasposizione del colore rosso, che nella filosofia alchemica segna il raggiungimento nell’athanor del principio della pietra filosofale, come rossa è la luce che si irradia nella sala del castello, dopo che Parsifal, una volta battezzato da Gurnemanz, viene messo davanti al Graal, nell’atto conclusivo dell’ultimo capolavoro wagneriano).
Che Andrea Albertin, come già accennato prima, oltre ad essere organista, sia anche direttore d’orchestra, è stato un elemento fondamentale nella lettura da parte sua di queste quattro Sonate; intendo dire che la stratificazione strutturale di queste pagine organistiche, che richiama un aspetto orchestrale/sinfonico, è stata efficacemente messa in rilievo dall’interprete veneto nelle proporzioni delle arcate generali. Ma, al di là dell’aspetto unitario con il quale devono essere considerate e rese a livello di architettura sonora, queste Sonate sono state anche adeguatamente sondate e offerte all’ascolto nei molteplici passaggi motivici e nei frequenti mutamenti agogici ed espressivi. Una registrazione, questa, da consigliare ai cultori dell’organo, ma anche a quelli che, vivaddio, oltre ad ascoltare osano anche pensare la musica.
Non era facile da domare e disciplinare il perentorio suono dell’organo Tamburini-Bonato sprigionato dai tre manuali e dalla nutrita pedaliera, ma il lavoro di presa da parte di Federico Savio è stato efficace, grazie a una dinamica estremamente veloce, energica e anche naturale, capace non solo di restituire la potenza (non vi preoccupate se il pavimento della sala d’ascolto vibrerà con il sopraggiungere del registro grave, se il vostro impianto è generoso in fatto di amplificazione e con diffusori adeguati), ma anche le sfumature più tenui. La ricostruzione del palcoscenico sonoro permette di avere l’organo a debita distanza, con una messa a fuoco più che accettabile e con un riverbero tenuto sempre sotto controllo. E se l’equilibrio tonale disciplina i diversi registri, che devono essere ottimali per saper restituire i vari piani del fugato, il dettaglio è in grado di donare la giusta dose di fisicità all’evento sonoro.
Andrea Bedetti
David Fontanesi – Four Organ Sonatas
Andrea Albertin (organo)
CD Da Vinci Classics C00786