Domenico Cimarosa incarna il canto del cigno della Scuola musicale napoletana della quale fu l’ultimo grande rappresentante e artefice o quantomeno colui che la portò a dei vertici che in seguito non furono più superati, né tanto meno eguagliati. Un compositore che si riconobbe nella propria epoca e che seppe descrivere, con le sue opere buffe, come nessun altro in fatto di sottigliezze psicologiche e sociali, sorrette ed esaltate da una verve melodica tale da poter essere considerata all’altezza con quelle mozartiane, capace anche di non fissare la propria attenzione esclusivamente al repertorio teatrale, anche se fu quello che lo consegnò alla gloria, a cominciare dal suo capolavoro, Il matrimonio segreto, ma facendo spaziare la sua curiosità artistica anche in altri ambiti creativi, concedendosi quindi alla musica strumentale, su tutti il Concerto per due flauti e orchestra e quello per fortepiano e orchestra, opere di vasto respiro che seguono una sorta di “imprinting” legato agli impianti del teatro musicale, concependo gli strumenti solisti come se fossero voci da plasmare e immettere nel tessuto orchestrale.
Ma esiste anche un Cimarosa più intimista, più riservato che ha voluto ricorrere alla musica per tratteggiare pensieri più semplici, idee da fissare sul pentagramma in modo compiuto, sebbene fossero composte perfino da poche battute, e che andarono a formare nel tempo un corpus di ottantotto sonate per clavicembalo o fortepiano, la maggior parte delle quali si concentrano nel corso di un decennio, tra il 1770 e il 1780, anni cruciali per la storia europea e che per Cimarosa rappresentarono il trampolino di lancio in patria, prima di spiccare il volo verso la Russia della zarina Caterina e la Vienna di Leopoldo II.
Definire queste ottantotto opere delle sonate perfettamente conchiuse e autonome è affermare qualcosa di grosso e di azzardato; in realtà, si tratta di altrettanti movimenti a sé stanti, slegati gli uni dagli altri o, per dirla in termini più “organici”, si tratta di Sonate formate da un solo movimento e delle quali gli studi musicologici hanno preso a trattare e a indagare in modo attento solo a partire dallo scorso secolo, culminati nell’edizione critica curata da Andrea Coen, pubblicata nel 1989, e che sono state registrate integralmente negli ultimi tempi dal pianista napoletano Dario Candela, uno dei migliori allievi del sommo Aldo Ciccolini, un’integrale che si è conclusa con gli ultimi due CD, dopo i primi due, pubblicati dall’etichetta Dynamic. L’ascolto di questi pezzi promuove delle riflessioni che partono dal fatto che queste opere, se proprio si vuole fissarle in un contesto maggiormente storico nella vita e nella visione creativa di Cimarosa, assumono i contorni di un vero e proprio “zibaldone” musicale, una sorta di diario colto, raffinato, nel quale confluiscono probabilmente anche materiale didattico, impressioni fuggevoli fissate forse per essere ampliate in un secondo momento a favore di opere di ben più ampio respiro, dediche ed esercizi a favore di nobildonne e nobiluomini dell’epoca, insomma uno scartafaccio pentagrammato che però non deve lasciar pensare a una raccolta disomogenea e improvvisata, incarnazione di un concetto di “momentaneità”. Infatti, ascoltando gli ultimi due compact disc, che presentano le Sonate che vanno dalla numero 45 alla numero 88, il pensiero non può non andare ai deliziosi Péchés de vieillesse di Rossini, a quei quattordici volumi nei quali il genio pesarese concentrò immagini, riflessioni, schizzi, esperimenti sotto forma di note e di colori musicali. L’unica differenza è che Rossini diede avvio a questi “Peccati” nella seconda metà della sua vita, ossia immettendo quel proverbiale “senno del poi”, mentre il compositore campano lo fece nella prima parte, come a dire che queste Sonate sono il frutto di un artista che fissa con le note quanto intende fare o che vorrebbe fare, non dando modo a chi ascolta quanto sia ancora a uno stato larvale ciò che sta ascoltando o quanto sia già compiutamente fissato, come se si trattasse di scene o persone fissate con una Polaroid, rispetto agli acquarelli che Rossini, con ben altri strumenti armonici e melodici, dipingerà sullo spartito. E se il pesarese volle descrivere attraverso le sue “semplici senili debolezze”, come definì Péchés, la propria epoca, in nome di una raffinata visione mondana, con occhio ironico e beffardo, Cimarosa con le sue Sonate ci consegna il proprio tempo che è immerso, ma ancora per poco, in un languido e ciprioso stile galante, in cui le sue note incontrano i colori pastellati e sfumati di un Watteau e di un Fragonard.
Ecco, la difficoltà precipua di questi brani è proprio quella di saper rendere, a livello interpretativo, l’ésprit che le permea e le illumina, sulla falsariga, anche se lo spessore compositivo è totalmente differente, delle Sonate scarlattiane, le quali non rappresentano solo un monumento della musica tastieristica del Settecento, ma un preciso e dettagliato quadro di un gusto epocale, di una visione del mondo che non può essere esulata nell’approccio interpretativo. Anche le Sonate di Cimarosa sono quindi un modo per comprendere un tempo che si riverbera necessariamente, ineluttabilmente nel loro tempo musicale da saper quindi rendere in modo acconcio (si prendano, come esempio, la Sonata n. 49 in do minore, un Larghetto in cui ciò che colpisce è l’impianto melanconico, così come la Sonata n. 54 in do maggiore, al cui opposto, sembra di assistere a un colloquio civettuolo e mondano tra nobildonne trasposto in chiave canora come l’aria di un’opera lirica, o ancora la Sonata n. 75 in re minore, che vanta quasi una modalità bachiana pur nella sua squisita essenza mediterranea, un’oasi di riflessione dal sapore atemporale).
In ciò la lettura data da Dario Candela si ricollega alla similitudine usata in precedenza, ossia che se le Sonate di Cimarosa sono fondamentalmente delle fotografie fatte con una Polaroid, è anche vero che attraverso l’esecuzione del pianista napoletano queste immagini Polaroid si trasformano in squisiti acquarelli, in quadretti il cui tratto, oltre ad essere preciso, racchiude la loro essenza, le fissa per ciò che sono e per ciò che vogliono essere, pagine di una raccolta di pensieri, di emozioni, di fugaci visioni, ai quali l’artista campano dona non solo un’impronta particolare, ma sempre ricollegata a un denominatore comune, quello della testimonianza musicale da essere concepita e vagliata nel suo insieme, quindi creando un senso di continuità, di ideale linea ininterrotta da sonata a sonata, così come i vari pensieri disgiunti, le osservazioni argute e facete, tristi e drammatiche alla fine formano un unicum dato dal concetto stesso di uno zibaldone o scartafaccio che dir si voglia. In tal modo, Dario Candela ci introduce a un mondo presentandolo per quello che è, che è cosa più facile a dirsi che a farsi.
La presa del suono focalizza abbastanza bene la dinamica dello Yamaha CF3 utilizzato dal pianista campano per la registrazione, anche se lo strumento risulta riproposto in profondità nello spazio sonoro (scelta microfonica?), rendendo un pelo sfuocato il dettaglio nel registro acuto e in quello grave, senza che però questo possa pregiudicare la piacevolezza dell’ascolto stesso.
Andrea Bedetti
Domenico Cimarosa – Complete Piano Sonatas Vol. 2 Sonatas 45-88
Dario Candela (pianoforte)
2CD Dynamic – CDS7790.02
Giudizio artistico 4/5
Giudizio tecnico 3/5