Leóš Janáček è considerato giustamente uno dei più grandi operisti del Novecento (insieme con Giacomo Puccini e Richard Strauss), sebbene la sua produzione musicale, così come quella del compositore di Monaco di Baviera non sia improntata quasi esclusivamente sul repertorio operistico, come invece accade al musicista di Lucca. Ma la produzione operistica del compositore moravo rappresenta un unicum nella storia della musica lirica, per il fatto che nessun musicista ha saputo studiare la voce e la lingua come ha fatto Janáček, nessuno ha indagato le inflessioni, il ritmo, le reazioni psicologiche prodotti dalla lingua parlata, ancor prima che si trasformi in canto. Ecco perché, sebbene sia riconosciuto come una pietra miliare della musica lirica, e non solo del Novecento, le sue opere teatrali non vantano, a differenza di quelle di Puccini e Strauss, una diffusione e una fama simile, soprattutto nel nostro Paese, penalizzate anche dalla stessa lingua, il ceco, una tra le difficili nel panorama slavo, ma incredibilmente duttile e coinvolgente in quello musicale.

Ma c’è anche un altro motivo che rende unica la musica di Janáček, quello che riguarda il suo rapporto con il repertorio strumentale, da lui indagato sia in ambito cameristico, sia in quello orchestrale, anche se non amati e approfonditi come quello operistico e, soprattutto, corale (sì, perché il compositore moravo, per i motivi già accennati, è stato anche un eccelso creatore di opere corali, queste sì davvero poco conosciute, nonostante il fatto che vi si annoverino autentici capolavori). Il motivo in questione è dato da come Janáček tratta e plasma il suono strumentale, influenzato inevitabilmente dal suo modo di concepire la voce, al punto che spesso gli stessi strumenti vengono assimilati e sfruttati come se fossero appunto delle “voci”. Con ciò non si vuol dire che il musicista moravo costringe gli strumenti musicali a imitare la voce umana (semmai tale prerogativa può essere additata ad altri operisti: ascoltate, per esempio, il quartetto per archi di Giuseppe Verdi, considerate i due violini alla stregua di un soprano e di un tenore, la viola a un contralto e il violoncello a un baritono e capirete che cosa intendo dire), ma li porta a esprimere timbri, altezze, comportamenti armonici che semmai rimandano a quelli peculiari della voce, ossia cercando di applicare alle voci strumentali ciò che nel corso di decenni fece nei confronti delle voci umane (o voci tout court, come quando annotava sui taccuini il canto degli uccelli o di altri animali per capire come la natura si esprimeva attraverso le proprie “voci”). Ecco perché non è esagerato affermare che Janáček vede negli strumenti musicali un altro medium sul quale convogliare quanto studiato, analizzato, sperimentato nell’indagare la voce umana, punto di partenza e di arrivo di uno strumento da considerare perfetto in ambito musicale non solo come canto, ma come forma perennemente cangiante dell’espressività sonora.

Mi si perdoni questo preambolo, ma che considero necessario per coloro che non conoscono la musica di Leóš Janáček, soprattutto quella strumentale e, nel caso specifico, quella cameristica, alla luce di quanto viene proposto dalla registrazione discografica in questione, che presenta, in un certo senso, l’alfa e l’omega della produzione pianistica e del duo cameristico per pianoforte e violino del musicista moravo. Sì, perché questo intrigante disco rappresenta (non so quanto volontariamente) la perfetta cartina al tornasole di quanto si è appena esposto, vale a dire di come la musica strumentale di Janáček abbia dovuto fare necessariamente i conti, nel corso del tempo, con i suoi studi sulla voce umana e del suo sfruttamento (ma sarebbe più giusto definirla esaltazione) nel corpus del suo teatro musicale. I pezzi scelti infatti dal pianista Giulio Potenza e dal violinista belga Nicolas Dupont vanno dalla Dumka per violino e pianoforte e dalle Variazioni “Zdenka” per pianoforte, entrambe risalenti al 1880, passando attraverso la sonata pianistica Nella strada, 1°-X-1905 del 1905 fino a due capolavori della maturità, il ciclo pianistico Nella nebbia (1912) e la Terza (e sola conservata) sonata per violino e pianoforte (1914).

Le due composizioni risalenti al 1880 sono il frutto di quel periodo in cui Janáček era ancora studente presso i conservatori di Lipsia e Vienna. Se la Dumka è un tributo, un omaggio verso i due numi tutelari venerati dal compositore moravo in quell’epoca, ossia Smetana e Dvořák, in cui l’uso della melodia è mutuato da temi della tradizione musicale del proprio Paese (quello dello studio della musica popolare sarà un campo che Janáček non abbandonerà quasi mai nel corso della sua attività di musicista), anche se già non manca una propria impronta personale data da sottigliezze timbriche che investono in primo luogo il violino, le variazioni pianistiche dedicate alla futura moglie, la pianista Zdenka Schulzová, sono ancora inevitabilmente impregnate da una costruzione armonica in cui la lezione di Brahms è facilmente riconoscibile (quando il musicista moravo studiò a Vienna, la vita musicale della capitale dell’impero asburgico già si trovava sotto l’egida compositiva di Brahms da una parte e dalla concezione estetica del temuto critico Hanslick dall’altra, quest’ultimo fiero e acceso sostenitore dello stesso linguaggio brahmsiano).

Già la sonata pianistica Nella strada, però, vede modificare sostanzialmente la caratura compositiva, in ambito strumentale, da parte di Janáček; in quest’opera Janáček volle rievocare un tragico fatto di cronaca, avvenuto proprio il 1° ottobre 1905: la morte di František Pavlík, un giovane operaio a Brno, durante una manifestazione in favore dell’apertura di un’università ceca, sgradita alla minoranza tedesca. Janáček, d’impulso, acceso da furore nazionalistico, volle scrivere di getto questa sonata, che originariamente era suddivisa in tre tempi. Ma proprio la sera stessa della prima esecuzione il musicista moravo eliminò il terzo movimento e, dopo la seconda esecuzione, decise distruggere anche i primi due tempi gettandoli nella Moldava. Ma l’interprete, la pianista Ludmila Tučková, nel frattempo era riuscita a copiare di nascosto i primi due tempi, dei quali Janáček autorizzò alla fine la pubblicazione nel 1924. Questa composizione rude e profonda, contrariamente da quanto afferma il titolo, non presenta alcuna descrizione degli avvenimenti di quel giorno, poiché il fatto di cronaca viene completamente trasceso da Janáček a favore dell’espressione delle sue emozioni, dei suoi pensieri e delle sue idee che avviene attraverso un serrato dialogo interiore, dando vita a un conflitto psicologico senza parole e che per tradurre in musica tutte le sfumature dei suoi sentimenti e delle sue sensazioni in modo immediato sceglie quella stessa tecnica basata sull’appropriazione e sulla trasformazione delle inflessioni del linguaggio parlato da lui adoperata proprio nelle opere teatrali e nelle musica vocale da concerto (a tale riguardo, si pensi a quel capolavoro assoluto che è Il diario di uno scomparso per contralto, tenore, tre voci femminili e pianoforte che verrà poi composto tra il 1917 e il 1919). Tale processo di appropriazione e di trasformazione, per quanto riguarda la musica pianistica e in parte per quella cameristica, il musicista moravo lo perfeziona con il ciclo pianistico Nella nebbia e con la Terza sonata per violino e pianoforte. È indubbio che nel ciclo, basato essenzialmente nella tonalità prediletta di Janáček, il re bemolle, la dimensione della composizione è simbolica fin dal titolo e nulla ha a che fare con una possibile descrizione naturalistica, ma in una chiave interpretativa in cui è lo stesso autore ad essere avvolto in una “nebbia” interiore, tale da rendere indistinta la proiezione del suo Io. Non dimentichiamo che all’epoca il musicista moravo a quasi sessant’anni era ancora pressoché sconosciuto, nonostante avesse già composto quel capolavoro operistico che è Jenůfa, a cui si deve aggiungere la crudeltà del destino che gli aveva portato via entrambi i figli: alla luce di ciò, qui il pianoforte diventa uno strumento trasfigurato, in cui ancora una volta l’immagine sonora della voce lo sostituisce servendosi della tastiera, la quale esprime una complessa scrittura e una superba ricchezza timbrica stemperate sovente da un’improvvisa e indefinibile intimità sussurrata se non addirittura accennata. Si può, dunque, ben comprendere come il pianoforte debba fare ricorso alla voce umana e alle sue mille sfumature, che obbligano l’interprete ad affrontare notevoli difficoltà non solo nel suo approccio, ma soprattutto nella resa timbrica che, arrischiando due opposte similitudini, lo costringono ad essere contemporaneamente lisztiano e debussyano. E da ultimo la Terza sonata, alla quale Janáček lavora, in sede di revisione, fino al 1921. Come altre opere di quell’epoca, questa composizione è figlia della guerra e delle violente e dolorose emozioni che scatenò nel musicista moravo, tali da rendere il tessuto musicale (soprattutto nel ruolo del violino) un sentiero esistenziale flagellato da una continua alterazione nervosa, da sbalzi d’umore improvvisi e abissali, solo apparentemente stemperati da una falsa radiosità connotata da richiami della musica popolare (concentrata nel secondo tempo, la Ballada), che rimandano ancora alla dimensione vocale del canto, della lingua parlata, del dialetto vissuto e sentito come chiave di appartenenza a un territorio e alla sua natura.

Non nascondo che ogni volta che affronto l’ascolto della musica strumentale di Janáček mi metto nei panni di coloro che lo fanno a livello interpretativo, ammirando il loro coraggio e il senso di sfida che evidentemente appartiene loro. E anche in tale occasione è stato così; partiamo dal violinista Dupont la cui lettura considero semplicemente esaltante nella dimensione esecutiva, non solo nella connotazione interpretativa, ossia di come ha saputo rendere il pensiero sonoro dell’autore, ma di come ha saputo adattare splendidamente il suono del suo strumento a quella necessità di renderlo parallelo, nella dimensione esplorativa, alla connotazione della voce perennemente evocata da Janáček nella musica strumentale. Detto in soldoni, Dupont ha fatto parlare il violino, trasformandolo in una tavolozza in cui il richiamo lessicale, fonico andava di pari passo con l’espressione timbrica delle quattro corde, dimostrando di essere entrato nello spirito (nella catarsi, se preferite) del mondo sonoro dell’autore. Per ciò che riguarda la lettura di Giulio Potenza non mi sento di affermare la stessa cosa: ciò non vuol dire che abbia fallito sotto il piano pianistico, che non sia stato capace di rendere con il suo strumento ciò che lo spartito e la dimensione sensibile dell’esecuzione richiedono necessariamente per restituire la volontà del compositore. Pianisticamente, al giovane artista palermitano non può essere addebitata una mancanza o una pecca in tali termini ma, come ho cercato di delineare, Janáček e la sua musica strumentale chiedono molto di più, un’opera di trasfigurazione dello strumento, un andare oltre (ed è soprattutto qui che risiede la straordinaria modernità del suo corpus strumentale, in particolar modo quello pianistico e cameristico), permettendo al pianoforte di entrare nelle dimensioni espressive evocate ed avocate dalla voce parlata/cantata (cosa che riesce a fare, tanto per citare un classico, Rudolf Firkušný nella sua registrazione integrale delle opere pianistiche per la Deutsche Grammophon). Quindi, se Dupont, interpretando, ha “dimenticato” di avere tra le mani un violino, ma un altro strumento, Potenza non ha mai perso di vista il fatto di avere sotto le mani la tastiera del pianoforte, non andando oltre ciò che il suo strumento gli permetteva di esprimere. Ma, come risultato globale, questa registrazione rappresenta uno degli esiti più felici per ciò che riguarda il repertorio cameristico di Janáček degli ultimi anni.

La presa del suono effettuata da Marco Lincetto rappresenta un marchio di garanzia e di qualità audiofile. La dinamica (e la microdinamica!) esprime quell’energia e quella naturalezza che si rendono necessarie per restituire il timbro strumentale senza fare ricorso a nefaste enfasi coloristiche. Il palcoscenico sonoro restituisce il violino correttamente avanzato e spostato leggermente a sinistra rispetto al pianoforte, con un equilibrio tonale che rispetta ogni singolo accordo dei due strumenti. Il dettaglio, infine, non potrebbe essere più materico e fisico.

Andrea Bedetti

 

Leóš Janáček – Violin & Piano Works

Nicolas Dupont (violino) – Giulio Potenza (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00019

 

Giudizio artistico 4/5

Giudizio tecnico 5/5