Della grande tradizione nordica siamo abituati ad associare l’ascolto e il pensiero fondamentalmente a Edvard Grieg e a Jean Sibelius, dei quali abbiamo quasi esclusivamente presenti il concerto per pianoforte e le pagine orchestrali per il primo e le sinfonie e il concerto per violino per il secondo. Per il resto, poco ci manca il confrontarci con una tabula rasa dalla quale sono esclusi i nomi e il repertorio, tra gli altri, di Niels Gade, Christian Sinding e Johan Svendsen, oltre a quello del danese Carl August Nielsen, la cui musica, dopo aver attecchito a livello di fama in Germania e in Inghilterra, comincia pallidamente e blandamente ad essere eseguita anche nel nostro Paese, sempre prodigo e tempestivo nel riconoscere meriti e riconoscimenti, se non ai soliti nomi e alle solite opere (non per amor di polemica, ma ricordo che nel 1967 quando uscì la Guida all’ascolto della musica sinfonica, a cura di Giacomo Manzoni per la Feltrinelli, il noto compositore e didatta scrisse testualmente nell’avvertenza: «Si è invece escluso [da tale guida] senza esitazioni un certo numero di compositori per lo più presi in esame nella letteratura straniera: si tratti di Elgar o Nielsen, di Reger o Vaughan Williams o Delius, è certo che questi musicisti sono in ogni caso glorie “nazionali”, praticamente ignorate nei programmi dei concerti nel nostro paese (e per la verità non sempre a torto)».

Quindi, appare a dir poco benemerita la volontà della violinista Germana Porcu e della pianista Sara Costa di andare controcorrente non propinandoci l’ennesima registrazione delle Sonate per violino di Brahms o di Beethoven, ma quelle per l’appunto del compositore danese nato nel 1865 nell’isola di Fionia e morto nel 1931 a Copenaghen. Si faccia attenzione a queste date, che vanno dall’instaurarsi di un Romanticismo già prossimo ad avvolgersi su se stesso, generando il suo ultimo, affascinante periodo, fino al conclamato distacco della crosta del linguaggio tonale ad opera delle nuove istanze estetiche e comunicative della musica del primo Novecento, che culminano nella serialità di Schönberg, nel neoclassicismo di Stravinskij e nella fatidica “terza via” di Bartók, tutti autori e concezioni che si coagularono nella musica di Nielsen sulla falsariga della teoria dei liquidi di Pascal, ossia di volta in volta riempiendo, per esempio, una sinfonia influenzato dalle tematiche e dagli stimoli di uno di questi musicisti e prosciugando di conseguenza un’altra opera di questi medesimi stilemi, riempiendola invece a sua volta con altri influssi.

Ma questo non significa che la musica di Nielsen sia il frutto di un calcolato equilibrismo delle forme e dei concetti a fronte dei tempi e del suo fluire dal Romanticismo al Modernismo, quanto una spugna, già intrisa di indubbi e inevitabili richiami dati dalla musica popolare danese, la quale va ad assorbire ciò che il compositore stesso acquisisce come “battitore libero” dagli ultimi anni dell’Ottocento fino all’inizio del terzo decennio del Novecento e che coincide con la sua morte, dopo aver subito un gravissimo attacco di cuore nel 1925, causato anche dal dispiacere e dal dolore della fine del suo matrimonio con la scultrice Anne Marie Brodersen. Non a caso ho usato l’espressione “battitore libero”, in quanto questo musicista fu in fin dei conti un autodidatta, non tanto di fatto (compì, sebbene tardi, studi al Conservatorio di Copenaghen, dove divenne amico di Niels Gade), ma di nome, nel senso che il suo autodidattismo dev’essere cercato nella volontà di acquisire con interesse ed entusiasmo, come si è detto, quanto l’arte musicale poteva offrire a un compositore a cavallo tra i due secoli, ossia in una fase di passaggio e di irrequietezza supremi.

Nielsen fu bravissimo, insomma, nell’annusare l’aria, se così si può dire, avvertendo i mutamenti, le inclinazioni, il declinare e il principio di vecchi e nuovi stimoli, sebbene la Danimarca del tempo non fosse propriamente l’ombelico del mondo, nonostante la vicinanza con la Germania, e a piegarli alle proprie necessità. La cartina al tornasole è rappresentata dal corpus delle sue sei sinfonie che rappresentano un’esemplare “lettura” di una progressione vista dalla parte di un conservatore quale fu, malgré soi, Nielsen stesso. Sinfonie dove la forma viene progressivamente plasmata attingendo dal susseguirsi delle nuove istanze laddove il compositore danese riteneva necessario, ossia bilanciando espressività e attualità, con una, fonte del passato, e l’altra del presente/futuro. Ecco perché nessuno, in tal senso, è riuscito a dare vita a dei lavori sinfonici (solo la prima appartiene ancora all’Ottocento) in cui il progresso artistico è al servizio della sua conservazione in nome di una tradizione, il linguaggio tonale, che Nielsen non volle e non seppe abbandonare, evitando di tagliare di netto un cordone ombelicale che affondava le radici, immesse e plasmate nella sua musica, nel canto gregoriano e nel contrappunto fiammingo.

Questo discorso si è reso necessario per comprendere meglio l’ésprit delle due Sonate per violino (la terza, che conclude il CD, composta nel 1881, è solo l’esercizio, il compitino di un bravo studente che sogna di diventare un buon musicista, vantando di conseguenza un valore eminentemente storico), la cui creazione va dal 1896 della prima in la maggiore al 1912 della seconda in sol minore. Quindi, come spesso accade a compositori che hanno il privilegio e il cruccio di vivere a cavallo di due secoli (la storia e non solo della musica lo insegna), se la prima sonata, frutto maturo di un linguaggio che mangia pane e Brahms, è il risultato di una visione quantomeno unitaria nella sua concettualità, votata a un discorso che ha un inizio e una fine tratteggiati da una forma attinente, in cui il rapporto tra violino e pianoforte risulta omogeneo, votato a un sottile equilibrio di pesi e contrappesi, sedici anni dopo (tali a livello temporale, ma non certo a livello di progressiva acquisizione estetica, visto che in questo caso il tempo è assai più veloce e vorace), con la seconda sonata il rapporto tra i due strumenti è già sfalsato, logoro, se lo si intende basato su una lingua che non si parla più e con il pianoforte che, sedotto dal nuovo modo di intenderlo anche in chiave cameristica, pretende molto di più dal violino e da se stesso. E qui Nielsen, come già succede nelle sinfonie (la Terza risale al 1911-12), assorbe e diluisce ciò che intorno a lui si sta verificando, con il progressivo prosciugamento effettuato da uno Schönberg che ha già intrapreso la strada verso la dodecafonia, ammiccando a un Espressionismo sempre più radicale (Pierrot lunaire è proprio del 1912) e da un Bartók che nel 1911, pianisticamente, propone l’Allegro barbaro (ricordiamoci dell’uso del pianoforte, nella seconda sonata, da parte di Nielsen). Ed ecco, quindi, una frantumazione rappresa che cementa, con le debite crepe, i due strumenti, un linguaggio che si fa più ardito, che lascia sbocciare repentini mutamenti e irruzioni di temi e sviluppi (e in ciò, volenti o nolenti, vi è un involontario influsso stravinskijano nel manipolare la struttura musicale), con oasi o paludi dove di volta in volta si ristorano o si impantanano il violino o il pianoforte, perché è in questo modo che Nielsen vuole dimostrare il proprio “modernismo” che non si spingerà mai oltre a precise colonne d’Ercole (musicali).

Da quanto si evince, affrontare queste due sonate non è semplice, proprio perché si dev’essere in grado, attraverso di esse, di mostrare un Giano bifronte che, pur manifestandosi compiuto in ognuna delle due facce, deve anche necessariamente indicare le attinenze tra le due opere in questione. Espressività, lirismo non esagerato, senso della rotondità formale e capacità di dialogare senza sconfinare nella melassa per ciò che riguarda la prima sonata, capacità di avvertire e mostrare i mutamenti di ritmo e di intensità timbrica, ricerca di un dialogo che resta tale se non in blandi accenni concordi tra i due strumenti, impeto e voglia di emanciparsi da parte del pianoforte nella seconda sonata; tutti cardini che il duo Porcu-Costa riesce quasi sempre ad espletare (nel senso nobile del termine), dando vita a una lettura appassionata (prima sonata), serrata, ma non convulsa (seconda sonata), nonostante la loro beata giovinezza, che spesso porta a difettare non dell’espressività tecnica, ma di una presa di coscienza e di sentire-in-sé ciò che si cela dietro lo spartito e che si acquisisce quasi sempre solo con il trascorrere del tempo. A loro va un plauso, non solo per il coraggio e per aver voluto intraprendere un sentiero à rebours, ma anche per la caratura espressiva, per lo scavo tra le note e gli accordi, guardando oltre ed entrando a pieno titolo nel cuore di queste opere (di cui la seconda sonata resta una delle più affascinanti e avvincenti del primo Novecento).

La presa del suono, a livello tecnico, non inficia il valore dell’aspetto artistico. La dinamica restituisce velocità e una sufficiente naturalezza ai due strumenti, con il palcoscenico sonoro corretto nella riproposizione di entrambi. Il dettaglio contribuisce a far avvertire la fisicità del violino e la presenza spaziale del pianoforte e l’equilibrio tonale permette di cogliere entrambi gli strumenti senza che nei ff e nei pp uno possa prendere il sopravvento sull’altro.

Andrea Bedetti

 

Carl August Nielsen – Complete Violin Sonatas

Germana Porcu (violino) – Sara Costa (pianoforte)

CD Da Vinci Classics C00070

Giudizio artistico 4/5

Giudizio tecnico 4/5