Può un sonoro schiaffone cambiare la vita di un artista? Si sarebbe dovuto chiederlo a Felice Giardini, già affermato violinista nato a Torino nel 1716, quando nel maggio del 1747 o nel novembre del 1748, le versioni cronologiche sono ancora discordanti, fu sonoramente redarguito e addirittura schiaffeggiato da Niccolò Jommelli, poiché a detta del celebre operista aversano il musicista torinese aveva la mania di abbellire esageratamente con fioriture e cadenze le linee di violino delle sue opere. Questo aneddoto fu riportato da alcuni cronisti dell’epoca, tra cui l’inglese Charles Burney, che ne parlò nel suo celeberrimo Viaggio musicale in Italia.
Chissà, quindi, se proprio questo spiacevole e umiliante episodio spinse Giardini a lasciare non solo Napoli, dove al San Carlo ricopriva la posizione di vicemaestro di cappella, ma anche l’Italia, per dedicarsi alla carriera di violinista solista. Lo fece dando inizio a un lungo viaggio che lo portò a esibirsi presso le maggiori corti europee. Dapprima, approdò a Berlino, ottenendo un grande successo, per poi recarsi a Parigi e, infine, in Inghilterra, dove decise di fermarsi, tenuto conto che divenne fin da subito il beniamino dell’aristocrazia londinese. La sua permanenza nella terra d’Albione fu di oltre trent’anni, periodo durante il quale, oltre ad esibirsi con il suo strumento, fu anche operista, organizzatore di concerti e impresario. Nella capitale inglese sposò la cantante Maria Vestris, dalla quale ebbe tre figli, ma nel 1784, anche a causa dei nuovi gusti musicali che animavano il pubblico londinese, decise di tornare a Napoli, dove per qualche tempo fu al servizio di Sir William Hamilton, ambasciatore inglese alla corte del Re di Napoli. Nel 1790, Giardini tentò di tornare nello scenario operistico inglese, ma senza successo; così, due anni dopo lasciò l’Inghilterra e tentò di fare fortuna a San Pietroburgo, senza riuscirci. Morì a Mosca nel 1796, passando l’ultimo scorcio della vita in estrema povertà.
Come collocare Giardini come compositore all’interno della sua epoca? Ebbene, il suo contributo fu incentrato soprattutto sulla musica operistica, anche se la sua produzione in questo genere non è certamente vasta, in quanto il numero di lavori teatrali non raggiunge la decina, e su quella cameristica, per la quale può essere considerato a tutti gli effetti un tipico rappresentante del cosiddetto “stile concertante”, anticamera dello stile galante, senza dimenticare apporti provenienti dal classicismo di Johann Christian Bach, prolifico e scrisse musica per quasi tutti i generi in voga nella sua epoca. Tuttavia, i suoi principali ambiti erano quello operistico e quello della musica da camera strumentale. Quasi tutte le sue composizioni furono pubblicate quando egli era ancora in vita, ad eccezione di alcune canzonette e di sporadici lavori da camera. Come abilissimo suonatore di strumenti ad arco, egli seppe sfruttare tale famiglia di strumenti al fine di ottenere il miglior suono. La sua musica da camera combina il cosiddetto stile galante con gli elementi tipici del medio classicismo di J. C. Bach, di Karl Philipp Stamitz e della scuola di Mannheim.
Un esempio della tecnica compositiva di Felice Giardini nell’ambito della musica cameristica ci è offerto da una recentissima produzione discografica pubblicata dall’etichetta Aulicus Classics, con il flautista Massimo Gentili-Tedeschi e la clavicembalista Barbara Petrucci che hanno registrato le Sei Sonate op. 3 del compositore e violinista torinese, basate sull’edizione conservata attualmente nel Fondo Noseda del Conservatorio di Milano. Pubblicate a Londra nel 1751 dall’editore John Cox, queste Sonate indicate sia per il flauto, sia per il tanto amato violino, rappresentano un tipico esempio del nuovo gusto musicale, ossia lo “stile concertante” che all’epoca cominciava ad essere apprezzato anche in Inghilterra. Ascoltando queste pagine cameristiche, tutte suddivise in due tempi contrastanti, tranne l’ultima, la Sonata in mi maggiore, che vanta tre tempi ed è strutturalmente più complessa, ci si rende conto come l’afflato melodico derivi in buona parte dall’influenza del genere operistico, così come il nuovo stile ormai tendesse non solo a rendere maggiormente equilibrato e paritario il dialogo tra i due strumenti, ma anche come il clavicembalo fornisse anche sprazzi di predominanza solistica, svincolandosi dalle ristrettezze, ormai insostenibili per l’epoca, della funzione di basso continuo.
Se proprio devo dirla tutta, trovo molto più interessanti e strutturate le ultime tre Sonate, che vantano un’espressività maggiormente rilevante e un dialogo più felice tra il flauto e il clavicembalo, mentre le prime tre risultano essere più elementari e scontate nella loro evoluzione tematica, anche se rappresentano indubbiamente una preziosa testimonianza storico-musicale sulla musica cameristica dell’epoca.
Complessivamente buona la lettura fornita dai due interpreti, capaci di dare vita a un piacevolissimo dialogo, ricco di sfumature espressive, e soprattutto evitando di fornire un’interpretazione basata unicamente sull’elemento ritmico, il che avrebbe inesorabilmente appiattito e svilito tutto l’impianto dato dall’eloquio, soprattutto quello incarnato dal flauto.
Non ci sono informazioni relative alla presa del suono e di chi l’abbia effettuata, ad ogni modo non denuncia pecche in linea generale, con il risultato di ricostruire in modo più che sufficiente e veritiero il suono dei due strumenti a livello di dinamica e di palcoscenico sonoro. Sufficienti anche l’equilibrio tonale e il dettaglio.
Andrea Bedetti
Felice Giardini - Six Sonatas for harpsichord and flute Op. 3
Massimo Gentili-Tedeschi (flauto) - Barbara Petrucci (clavicembalo)
CD Aulicus Classics ALC 01013
Giudizio artistico 3,5/5
Giudizio tecnico 3,5/5