Credo di possedere, nella mia discoteca, circa una quarantina di registrazioni delle Goldberg Variationen, presentate con diversi tipi di organici, che vanno dal clavicembalo e pianoforte fino all’orchestra di archi, passando per le più disparate formazioni cameristiche, senza contare quelle ascoltate nel corso di concerti e scaricate via web. Ma ogni volta che affronto il loro ascolto, provo sempre una profonda emozione, un’immensa gioia che si stempera nella commozione se l’interpretazione è particolarmente efficace e coinvolgente. Ma siamo di fronte a un capolavoro assoluto, una colonna portante di tutta l’arte occidentale e non solo in chiave musicale, un’opera che dovrebbe essere ascoltata nello stesso modo in cui Machiavelli affrontava la lettura dei beneamati classici greci e latini, ossia vestendosi con ricercatezza ed eleganza, in segno del rispetto che provava per essi.
Ora, non dico di essermi vestito come se avessi dovuto andare all’opera, ma è indubbio che l’ascolto di due ennesime e recenti registrazioni del capolavoro bachiano ha attirato la mia attenzione, andando ad arricchire ulteriormente il plotone presente nella mia collezione; due versioni pubblicate dalla Da Vinci Classics e che non presentano la versione originale, ma una loro trascrizione, la prima per due pianoforti e la seconda per trio, composto da violino, viola e violoncello. La prima versione, quella per due pianoforti, è stata registrata dal duo formato da Federica Monti e Fabio Bianco, che sono tra l’altro legati anche dal vincolo matrimoniale, nella trascrizione effettuata da Joseph Rheinberger e riveduta in seguito da Max Reger, mentre la seconda versione si basa sulla trascrizione effettuata da Bruno Giuranna ed è stata registrata dal Trio Quodlibet, formato da Mariechristine Lopez al violino, Virginia Luca alla viola e Fabio Fausone al violoncello.
Cominciamo dalla versione per due pianoforti di Rheinberger & Reger; prendendo a prestito quanto scrive giustamente Chiara Bertoglio nelle note di accompagnamento al disco, le Goldberg Variationen tornarono in auge nella seconda metà dell’Ottocento sulla scia della Bach Renaissance in terra germanica, anche se la loro struttura, basata sui due manuali clavicembalistici pose fin da subito una serie di problemi se eseguita al pianoforte (per il ritorno della loro versione sullo strumento originale bisognerà attendere l’arrivo della leggendaria Wanda Landowska), in quanto ciò che il clavicembalo, con la presenza di due tastiere, riusciva a risolvere in determinati passaggi, con la sola tastiera pianistica avveniva che le dita delle due mani avrebbero dovuto premere gli stessi tasti, rendendo di fatto impossibile una resa soddisfacente da quanto indicato sulla partitura. Per risolvere questa imbarazzante situazione relativa alla corretta diteggiatura, il “guardiano della soglia” dell’opera bachiana, ossia Ferruccio Busoni, pensò bene nel 1915 di trascrivere la versione per pianoforte riscrivendo completamente i passaggi incriminati o spostando, molto più diplomaticamente, le mani un’ottava più in basso o più in alto, in modo da evitare ingorghi del traffico da sabato sera. Inoltre, siccome la versione completa del ciclo dell’aria introduttiva e delle trenta variazioni risultava assai lunga, superando di gran lunga l’ora di durata, pensò bene di offrirne una, agli ascoltatori dell’epoca, debitamente “mutilata”, riducendo a venti le variazioni e sostituendo la riproposizione finale dell’Aria introduttiva con un corale a dir poco solenne.
Prima di Busoni, però, già nel 1883 il compositore e organista tedesco Joseph Rheinberger pubblicò una trascrizione per pianoforte del capolavoro del Kantor appunto per due pianoforti, versione che fu riedita, nello stesso anno di quella del compositore e pianista empolese, da parte di Max Reger, il quale però modificò sostanzialmente diverse dinamiche e articolazioni scelte da Rheinberger. Alla base della trascrizione rheinbergeriana non vi fu un’operazione “salomonica”, ossia affidando la linea della mano sinistra a un pianista e quella destra all’altro pianista, ma operando anche delle modifiche non indifferenti sulla partitura originale, con il chiaro intento di rendere maggiormente omogeneo il risultato finale, un’omogeneità di suono, basato su cambiamenti in fatto di dinamica e di agogica, che era in piena conformità con i gusti dell’epoca (ossia seconda metà dell’Ottocento). A tale proposito, per un’analisi più specifica, con i dovuti esempi, rimando sempre alle note di Chiara Bertoglio.
Ciò che voglio precisare, invece, è che ci troviamo quindi di fronte a una trascrizione decisamente “storicizzata”, frutto di un gusto, di un senso estetico, di una resa formale, timbrica, armonica che poteva andare bene al tempo in cui le Goldberg Variationen vennero date in pasto a un pubblico che le conosceva come il sottoscritto può conoscere l’uncinetto giavanese, ammesso che esista, ossia nulla. Insomma, una trascrizione che doveva risultare “appetitosa”, perfino più “orecchiabile” rispetto alla versione originale (non dimentichiamo che Rheinberger, a differenza di Busoni, non apportò tagli, ma la restituì nella versione integrale bachiana). Un’operazione, questa, che oggi possiamo accettare solo come documento storico, nella sua dimensione di un approccio musicale che doveva fare i conti con una sensibilità del tutto diversa da quella odierna che ormai ha una dimestichezza, un’abitudine, un impatto d’ascolto del tutto mutati (un ulteriore esempio è dato dal fatto che Rheinberger nella sua trascrizione per due pianoforti decise di non ripresentare, dopo il Quodlibet, l’Aria introduttiva, cosa invece che il Duo Monti-Bianco ha voluto aggiungere, restituendo a Bach ciò che è di Bach, ossia non amputando quel concetto di ciclicità temporale e spaziale che ammanta tutta l’opera e che il pubblico e gli appassionati hanno imparato ad amare nel corso del Novecento).
Va bene, ma detto in soldoni, che cosa viene fuori da una tale trascrizione? Al di là del fatto che il suo ascolto non deve quindi prescindere dalla sua ristretta “storicità”, è indubbio che il risultato vanta debiti chiaroscuri; vediamo i primi: la presenza di un secondo pianista permette in alcuni momenti, soprattutto quelli in cui ci sono dei Canoni, di apprezzare meglio l’apporto della linea del basso, di come la struttura si sviluppa con un maggiore equilibrio a livello armonico e timbrico (prendo, a mo’ di esempio, la Variazione 3 Canone all’unisono, la Variazione 9 Canone alla terza, la Variazione 15 Canone alla quinta e la Variazione 18 Canone alla sesta), così come l’eloquio che sovrintende il Quodlibet finale (almeno nelle intenzioni di Rheinberger), tutto giocato su un rubato che se proprio non può essere accusato di eterodossia rispetto alla versione originale, non viene armonicamente e melodicamente ostentato come “passo d’addio” dell’opera stessa). I secondi, al contrario, sono dati da quelle variazioni in cui la separazione della struttura, invece di fare chiarezza, genera una dose di confusione che va a corrente alternata, nel senso che se alcuni passaggi ne guadagnano (sempre come esempi, la Variazione 4 e la Variazione 5), altri invece risultano alquanto “caotici” (Variazione 14, con annesse dissonanze e abbellimenti che di bello hanno solo il nome), oppure in cui il discorso non si articola con il dovuto equilibrio, anche per via, a dire il vero, della partitura originale (la Variazione 16) o inefficaci (Variazione 23). Inoltre, i segni del tempo sono dati dalla Variazione 29 (e qui mi trovo in disaccordo con Chiara Bertoglio, che invece la esalta), che risulta timbricamente fin troppo magniloquente, ostentata e declamatoria, in quanto avrebbe dovuto fungere da vero e proprio “finale”, poiché il successivo Quodlibet nella sua purezza melodica non poteva prestarsi allo stesso modo.
Indubbiamente, Federica Monti e Fabio Bianco hanno saputo vendere bene il loro prodotto, ossia sono stati capaci, grazie alla loro lettura, di presentare adeguatamente una Cinquecento come se fosse una Ferrari; questo significa che non hanno voluto esaltare ciò dove non c’era nulla da esaltare, così come hanno puntualmente evidenziato invece gli aspetti positivi di tale trascrizione. La principale difficoltà, e questo in linea generale, sta nel dosare sempre la densità e l’emissione timbriche per poter trovare un soddisfacente equilibrio sul quale puntare, in modo da offrire una resa esecutiva più che accettabile e “sostenibile”, cosa che il Duo ha saputo fare più che egregiamente, rendendo perfino passabili quei frangenti che sono stati precedentemente elencati, facendo sì che la loro lettura ponesse attenzione sia sul generale (il respiro d’insieme dell’opera, la sua architettura fondante, restituendone la sua fluidità, in modo da evitare una resa “a scatti”, cosa che può accadere dati gli accidenti causati dalla trascrizione) che sul particolare (scavando, a livello di sfumature timbriche e dialogo, quando possibile, tra la linea acuta e quella del basso di ogni variazione). Inoltre, non si sono fatti trascinare dal sentore retorico che traspare a volte, imputabile sempre dalla “storicità” del gusto del tempo, ma si sono mantenuti su un’espressività oggettiva, circonstanziata, affinché il susseguirsi dei pesi e dei contrappesi non fosse mai svilito o squilibrato.
Per quanto riguarda la seconda registrazione discografica, quella del Trio Quodlibet, la trascrizione per violino, viola e violoncello fatta dal grande violista e didatta Bruno Giuranna, si basa su una lettura decisamente più fedele della partitura originale. Ma soprattutto, non essendo più vincolato a un gusto puramente ottocentesco, risulta essere libera da ogni forma di sterile retorica; ciò permette alla purezza espressiva di sprigionarsi liberamente e quando la linea espressiva del genio bachiano può librarsi senza alcun vincolo, significa che la sua struttura armonica riesce a manifestarsi compiutamente, facendo in modo che la logica possa semplicemente cantare. Certo, a vantaggio di questa versione, anche se non è presente alcun strumento a tastiera, resta il fatto che i tre strumenti ad arco possono sviluppare meglio, grazie anche alla mirabile e precisa trascrizione di Giuranna, l’articolazione del dialogo e lo sviluppo delle linee contrappuntistiche, a cominciare da quella del basso, che tutto gestisce e governa. In parole povere, non solo vi è un maggiore respiro, ma soprattutto, a livello architettonico, si riesce a individuare una tridimensionalità sonora che porta tutto il costrutto a risultare miracolosamente ologrammatico.
Basterà prendere a prestito, per esempio, la Variazione 7, la Variazione 9 canone alla terza, la Variazione 10 (straordinaria nel suo espandersi spazialmente), la Variazione 12 canone alla quarta in moto contrario, la meravigliosa Variazione 13 con il suo commovente eloquio, la frustata data dalla Variazione 16 Ouverture, la trasparente delicatezza della Variazione 19 con il suo sublime pizzicato e, infine, il Quodlibet che viene espresso come una preghiera entusiasticamente laica (vivaddio!), per comprendere come Giuranna abbia fatto un lavoro di trascrizione con i dovuti attributi.
Ora, una simile trascrizione abbisognava interpreti a loro volta con i dovuti controattributi, cosa che i tre giovani componenti del Trio Quodlibet dimostrano di avere in notevole dose; non mi nascondo dietro a un dito se ammetto che ascoltandoli mi sono venute le lacrime agli occhi. Al di là del fatto che il Trio si è continuamente confrontato con Bruno Giuranna nel corso del lungo e accurato lavoro di trascrizione, avendo così modo di penetrare nella sua essenza e nelle sue molteplici articolazioni, resta, ed è ciò che più conta, il risultato di un’esecuzione che rasenta la perfezione. Questo perché la loro lettura rappresenta la più spontanea prosecuzione di ciò che si cela in questa impresa trascrittiva, una lettura che è un continuo affiorare; qui non si tratta soltanto di rendere al meglio la ricchezza del tessuto armonico che si dipana in un fluire ininterrotto di elaborazioni melodiche, ma soprattutto il lavoro di incessanti sfumature timbriche, la capacità di far ascendere l’opera, di farla immaginare veramente come una costruzione gotica che tende al verticale. Ecco, il punto è proprio questo, poiché se la trascrizione di Rheinberger non riesce mai a decollare, a innalzarsi, ma è una freccia che viene scagliata da un arco nella sua orizzontalità, quella di Giuranna è puntata solo verso il cielo. E i tre componenti del Trio non hanno fatto altro (si fa per dire) che rispettare pienamente la direzione dell’arco, scagliando una freccia che si è persa tra le nuvole senza ricadere a terra.
Gli attacchi sono sempre millimetrici, lame affilate che fendono l’aria nella loro precisione, il respiro sempre ampio, dispiegato, ma altrettanto controllato in una forma cangiante, capace di risolvere con naturalezza anche i passaggi tecnicamente più impervi (si ascolti come viene resa la Variazione 26 con un risultato d’assieme capace di trasformare i tre strumenti in un ensemble di archi grazie alla massa sonora che riescono a sprigionare), il che permette di costruire il suono, suono che resta impresso mediante una lucidità di intenti, la quale, a tratti, assume le vesti di una totale trascendentalità. Una trascendentalità che si concretizza, che si incarna attraverso un dominio timbrico da interpreti di vaglia ormai navigati e che viene reso invece da tre artisti ancora giovani, ma già proiettati nell’empireo elitario della musica cameristica. Una delle migliori trascrizioni che abbia mai ascoltato delle Goldberg Variationen, sia a livello di Bearbeitung bachiano, sia a livello interpretativo. Bravissimi!
Valida la presa del suono fatta da Carlo Gentiletti, per quanto riguarda la registrazione del Duo Monti-Bianco, in quanto catturare in modo adeguato e verosimile due pianoforti non è uno scherzo. La prima cosa da notare è che la dinamica risulta equilibrata (quindi, l’operazione di microfonatura è stata effettuata con i dovuti crismi), contrassegnata da molta energia e velocità, a tutto vantaggio dell’esplosività dei due Steinway D-274 usati, così come la corretta decadenza degli armonici e delle più tenui sfumature timbriche, segno che anche la microdinamica non scherza in fatto di efficacia. Il palcoscenico sonoro ricostruisce, al centro dei diffusori, i due pianoforti, posti spazialmente in modo alquanto ravvicinato rispetto all’ascoltatore, ma non fastidioso o, peggio, scorretto, dando adito al suono di irradiarsi in ampiezza ben oltre i diffusori stessi. Un parametro altamente critico, quando si catturano due strumenti uguali, come quello dell’equilibrio tonale, ha risposto in modo soddisfacente, poiché i registri acuti e medio-gravi dei due pianoforti sono sempre perfettamente scontornati e messi a fuoco, il che agevola in fase di ascolto la resa e il dialogo contrappuntistico. Infine, il dettaglio, capace di restituire tutta la matericità dei due Steinway e, allo stesso tempo, con una focalizzazione tattile da permettere un ascolto dal quale è bandita una possibile stanchezza uditiva, tenuto conto che ci troviamo di fronte una registrazione che sfiora gli ottanta minuti.
Anche Gabriele Zanetti, per ciò che riguarda la versione del Trio Quodlibet, ha fatto un ottimo lavoro, ciliegina sulla torta. La presa del suono è avvenuta nella Chiesa di San Lorenzo a Passerano Marmorito, nella frazione di Primeglio, in provincia di Asti e ciò che colpisce d’acchito e il palcoscenico sonoro, con i tre strumenti ad arco che risultano scolpiti a debita profondità, senza la presenza di un eccessivo e fastidioso riverbero, ma sempre nitidi, puliti, capaci di trasmettere compiutamente la tavolozza timbrica del violino (un Hopf Model Klingenthal del 1850 circa), della viola (Eva & Christo Marino del 2016) e del violoncello (Christo Marino del 2009), in grado di rendere un suono roccioso e delicato allo stesso tempo. Ciò viene esaltato da una dinamica saettante ed esplosiva (la cavernosità che il violoncello riesce ad esprimere nel registro medio-grave è a dir poco coinvolgente), ma anche suadente e ottimamente sfumata nella microdinamica. Allo stesso eccelso livello sono l’equilibrio tonale e il dettaglio: il primo è sempre assai corretto nella resa dei registri dei tre strumenti, mai invasivi o, peggio, tendenti a sovrapporsi (il già citato registro medio-grave del violoncello riesce sempre a far distinguere il registro medio-acuto della viola e del violino) e il secondo permette, a patto di avere un impianto audio all’altezza, di ospitare direttamente i tre interpreti nella sala d’ascolto, tale è la fisicità che lo corrobora.
Andrea Bedetti
Johann Sebastian Bach – Goldberg Variations BWV 988 (Version for 2 Pianos by Joseph Rheinberger & Max Reger)
Duo Monti-Bianco (pianoforti)
CD Da Vinci Classics C00361
Giudizio artistico 4/5 Johann Sebastian Bach – Goldberg Variationen BWV 988 for String Trio (Transcribed by Bruno Giuranna) Trio Quodlibet CD Da Vinci Classics C00435
Giudizio tecnico 4/5