In uno dei finali più evocativi di tutta la storia del cinema, quello di Morte a Venezia di Luchino Visconti, si vede il giovinetto polacco Tadzio sulla battigia veneziana immortalato dalla meravigliosa fotografia di Pasqualino De Santis contro il tramonto del sole, mentre Gustav von Aschenbach lo osserva per l’ultima volta, con uno sguardo colmo di dolcezza e di desiderio, pochi istanti prima di accasciarsi morto sulla sdraio. Prima di chiudere per sempre gli occhi, il musicista (modellato dal regista milanese sulla figura di Gustav Mahler) fa in tempo a contemplare Tadzio che allunga languidamente il braccio destro verso un punto indefinito all’orizzonte, come se volesse indicare con l’indice della mano qualcosa che lo schermo non riesce a inquadrare. In questa scena così potentemente estetica, possiamo così ravvisare simbolicamente un’altra immagine, quella dell’artista che cerca di fissare, di focalizzare, qualunque sia lo strumento artistico al quale si rivolge, il giusto sentiero interpretativo che gli viene indicato dal concetto della Bellezza, quella per l’appunto incarnata da Tadzio nella pellicola viscontiana.
Interpretare, qualunque sia l’ambito artistico del quale l’artista/interprete si pone in qualità di transfert, è fondamentalmente un “indicare”, un solcare che viene attraversato hic et nunc dando forma, corpo e sostanza qualunque sia la materia atta a rappresentare tale interpretazione. Idealmente, ogni artista/interprete, nel momento stesso che si scopre “indicato” dall’indicazione interpretativa del suo interpretare non è nient’altro che Gustav von Aschenbach che osserva, senza mai poterla toccare, la silhouette iridescente di Tadzio che si staglia contro il sole morente, simbolo supremo dell’esserci che si affaccia sul mistero dell’essere, poiché ogni tentativo di sfiorare la manifestazione artistica attraverso l’indice/indicazione dell’interpretazione è uno di quei pochissimi mezzi grazie ai quali l’uomo può percepire la potenza irradiante dell’essere fare irruzione tra i meandri narcotizzanti dell’esserci.
Proprio al concetto, al suo sorgere e svilupparsi, dell’interpretazione nell’ambito musicale una giovane pianista e musicologa, Laura , ha dedicato un breve, ma densissimo, testo dal titolo L’arte di interpretare pubblicato dalla PM Edizioni, nel quale pone delle stimolanti osservazioni che riassumono, allo stato attuale della ricerca e della riflessione estetico-filosofica, il rapporto tra l’opera d’arte (musicale) e la sua riproduzione, anche se le argomentazioni presentate dall’autrice si possono prestare a una valutazione più generale che esula dal solo panorama dell’arte dei suoni, in quanto, come Laura Cozzolino spiega all’inizio del volumetto, al di là delle conquiste apportate dalla filosofia heideggeriana prima e dall’indagine ermeneutica nel pensiero di Hans Georg Gadamer poi, una determinata valutazione dell’interpretazione e della sua applicazione nei vari campi dell’arte non può esulare dall’analisi “discorsiva” formulata dalle brillanti intuizioni conoscitive date da Michel Foucault (a partire da quel testo-base che è L’archeologia del sapere).
In effetti, effettuando un excursus sulla storia dell’interpretazione musicale attraverso i secoli, non si può fare a meno di constatare come proprio l’impostazione data dalla costruzione storiografica-filosofica data dal filosofo francese possa essere applicata anche alle dinamiche che coinvolgono l’atto interpretativo all’opera musicale che lo riguarda, poiché come giustamente fa presente l’autrice «è con Foucault che per la prima volta abbiamo prestato attenzione a ciò che il discorso storico nasconde e alle procedure di esclusione che legittimano l’episteme. […] Egli ha osservato che in ogni società la produzione del discorso è al tempo stesso controllata e selezionata attraverso condizionamenti e restrizioni ubbidienti non alla verità ma alla volontà di verità, in modo da poter padroneggiare il discorso scongiurando poteri e pericoli e imponendo una particolare visione del mondo». Quindi, anche la storia e la “storiografia” dell’interpretazione musicale hanno dovuto sottostare a quell’intreccio di “regole” (come le definisce Foucault) che operano sui singoli soggetti in esame, costruendo in tal senso un sistema concettuale che investe i confini stessi del pensiero attraverso l’uso della lingua, il che avviene secondo un dato “dominio” applicativo e in relazione a un correlato periodo storico.
Partendo da tale presupposto, secondo l’indagine foucaultiana, anche l’interpretazione musicale ha dovuto quindi necessariamente fare i conti con il suo “dominio” applicativo, enunciato dai (falsi) “discorsi” forniti prima dall’idealismo tedesco di metà Ottocento (Hegel su tutti) per continuare in seguito, nel campo eminentemente compositivo-musicale, con autori quali Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, Edouard Hanslick (sebbene in parte, dato il fraintendimento a cui è andata incontro la sua indagine musicologica), Heinrich Schenker, lo stesso Arnold Schönberg, fino a Theodor Wiesengrund Adorno (anche se per quest’ultimo devono valere determinate distinzioni mutuabili dalle progressive fasi articolate del suo processo speculativo), tutti, chi più chi meno, fedeli sostenitori del fatto che l’atto interpretativo non debba essere considerato come debito transfert dell’opera musicale, senza il quale quest’ultima possa definirsi completa e completata, ma convinti al contrario (e qui in ambito culturale nazionale dobbiamo aggiungere i danni estetici causati dalla filosofia crociana) che la performance dell’artista debba essere considerata alla stregua di una semplice ri-produzione del prodotto artistico stesso, il quale è il solo che possa vantare il titolo di opera d’arte tout court, come a dire che la composizione nasce e si conchiude nella sua elaborazione squisitamente notazionale e che la sua esecuzione non è altro che la sua realizzazione fisico-acustica, resa disponibile per permettere il processo di ascolto.
Ma è sempre grazie alla dimensione vettoriale dei “discorsi” delineato dalla speculazione di Foucault, come giustamente fa notare Laura Cozzolino, che la concezione notazionale quale opera d’arte assoluta comincia a perdere la predominanza estetica nel momento stesso in cui filosofi come Heidegger e Gadamer prima e, in ambito italiano, Luigi Pareyson (senza dimenticare la lezione di Emanuele Severino, aggiungo io) e un musicologo e storico della musica qual è stato Carl Dahlhaus pongono le basi per la nascita di una debita rivalutazione dell’arte interpretativa, ridimensionando l’assolutismo imposto dalla consuetudine acquisita dell’episteme in oggetto, ossia l’insieme di segni fissati sul pentagramma delle partiture. Ed è qui che sopraggiunge, nella seconda metà del Novecento, più precisamente a cavallo degli anni Ottanta, l’intervento della cosiddetta New Musicology anglo-americana, rappresentata da studiosi e critici quali Joseph Kerman (fautore di una visione “interdisciplinare” della musicologia), Edward Rothstein, Maynard Solomon (la cui biografia su Ludwig van Beethoven impostata sui meccanismi psicoanalitici dell’uomo e dell’artista ha fatto scuola), Philip Bohlman, Nicholas Cook, i quali partendo dal perfezionamento delle tecniche di riproduzione del prodotto musicale, si sono resi conto che la veicolazione delle innumerevoli interpretazioni fissate sui mezzi riproduttivi (passati nel frattempo dal vinile al compact disc) allargavano inesorabilmente un’altrettanta “produzione di significato”, spostando inevitabilmente l’attenzione concentrata fino a quel momento sull’apparato del significante, vale a dire il segno fissato sulla partitura.
Questa nuova prospettiva, che ha portato la figura del critico musicale che svolge il proprio lavoro a vedere accrescere le proprie responsabilità professionali e intellettuali, anche se l’autrice non lo fa espressamente presente, pone di conseguenza una problematica che non può essere sottovalutata, vale a dire che l’entità ermeneutica che intride ogni valutazione critica di una registrazione/interpretazione deve basarsi su una fedeltà d’intenti che devono salvaguardare il transfert estetico incarnato dalla stessa registrazione/interpretazione. Una fedeltà d’intenti rappresentata dal livello di qualità dello strumento di riproduzione con il quale si ri-crea l’interpretazione musicale, ossia l’impianto di ascolto finalizzatore del processo di transfert. Questo significa, ed è un punto che mi sta particolarmente a cuore, che il critico musicale/discografico dev’essere necessariamente anche un audiofilo, attento nello scegliere componenti del suo impianto di ascolto capaci di restituire un’immagine sonora del transfert riproduttivo di un’ottima qualità, ri-proponendo una paletta che tenda a ricostruire un tasso di fedeltà dell’interpretazione stessa, senza la quale l’analisi interpretativa ed artistica scaturita dall’opera del transfert rischia di essere inficiata a causa di carenze tecnico-riproduttive. C’è da chiedersi, infatti, come possa essere confezionata un’operazione ermeneutica, vale a dire la critica di una registrazione musicale, nel momento stesso in cui l’apparato di riproduzione non è in grado di restituire un fedele decadimento armonico del suono, una corretta riproposizione dello spazio fisico nel quale il suono si materializza, ricostruendo la sua profondità, la sua altezza e la sua ampiezza in termini spaziali, senza la possibilità di valutare, facendo un altro esempio, come il timbro possa rispettare o meno la compresenza dei vari strumenti o voci a livello di equilibrio tonale. Non solo, in quanto un impianto di ascolto audiofilo permette, con l’esperienza e la conoscenza delle varie “scuole di registrazione”, di valutare anche come si è intervenuti nel corso della cattura del suono e di come si è potuto lavorare a livello di mastering e di editing, tutti aspetti di una filiera alla fine della quale si è in grado di valutare la correttezza o meno dell’interpretazione musicale fissata attraverso la registrazione tecnica. Questo significa non cercare il pelo nell’uovo, ma al contrario essere direttamente coinvolti nel processo ermeneutico che un critico/musicologo deve portare avanti rispettando il valore/disvalore della riproduzione musicale presa in esame.
Al di là di ciò, L’arte di interpretare resta un testo che dovrebbe essere proposto nei licei musicali e nei conservatori non per il fatto che rappresenta un manuale (come lo definisce la stessa autrice), ma perché è un saggio che riesce a dire l’essenziale, un punto di partenza splendidamente attualizzato di quella che è l’arte dell’interpretazione alla luce delle ultimissime acquisizioni in campo filosofico e musicologico, un testo, insomma, che dovrebbe essere letto e pensato non solo da coloro che ascoltano la musica con le orecchie e con il cuore, ma anche (e questo è un dono più raro) con il cervello.
Andrea Bedetti
Laura Cozzolino – L’arte di interpretare
PM Edizioni, 2020, pagg. 96
Giudizio artistico 4/5