Quando penso alla plurisecolare storia musicale portoghese, inevitabilmente si associa un’immagine claustrofobica, dettata dalla particolare posizione geografica di questo Paese, oppresso ad ovest dall’immensità dell’Oceano Atlantico e ad est dalla presenza ossessiva e implacabile del vasto territorio spagnolo, con il quale quasi tutta la sua cultura e la sua arte non hanno mai stabilito un rapporto se non empatico, quantomeno di fruttuosa convivenza, se si tiene conto delle vicissitudini storiche che queste due nazioni hanno avuto tra loro nel corso dei secoli. E se è vero che la musica rinascimentale e del primo Barocco in terra lusitana ha lasciato un solco profondo, capace di resistere agli urti del tempo, è altrettanto indubbio che finita l’epoca d’oro commerciale, colonialistica e diplomatica, con il trascorrere del XIX secolo la tradizione musicale colta lusitana andò sempre più affievolendosi, fin quasi a scomparire, soprattutto a livello orchestrale e sinfonico (basterà un dato a tale proposito: a parte il compositore João Domingos Bomtempo, vissuto tra la seconda metà del XVIII secolo e la prima metà di quello successivo, autore di alcune sinfonie, dopo di lui, il solo José Vianna da Motta, tra l’altro eccelso pianista, al punto di essere stato allievo di Franz Liszt, scrisse una sinfonia, pubblicata a Rio de Janeiro nel 1899, l’unica tra la seconda metà dell’Ottocento e i primi due secoli del Novecento della storia musicale portoghese!).
Inoltre, a rimarcare il quadro desolante, bisogna ricordare che all’inizio del secolo scorso, nella capitale Lisbona, centro dell’arte musicale lusitana, non esisteva un’orchestra stabile, a parte quella della São Carlos Royal Opera, la quale però non era in grado di eseguire il repertorio sinfonico, ma solo quello operistico, quasi esclusivamente italiano, con qualche eccezione data da titoli del teatro musicale tedesco e francese.
È tra queste rovine sonore, in questa waste land artistica, che fu costretto a confrontarsi e ad operare colui che ha ebbe il merito di riportare in auge, non solo a livello compositivo, ma anche didattico, le sorti della musica colta portoghese, vale a dire Luís de Freitas Branco, nato a Lisbona nel 1890, città magica e meravigliosa nella quale visse la maggior parte del tempo fino alla sua morte, avvenuta sempre nella capitale lusitana nel 1955. Nato in una famiglia aristocratica e di tradizioni musicali, che aveva vantato legami con la famiglia reale per molti secoli, Freitas Branco ricevette un’educazione raffinata e cosmopolita, che lo spinse a lasciare, in una serie di rarissimi viaggi, Lisbona per raggiungere dapprima Berlino nel 1910, dove ebbe modo di studiare con Engelbert Humperdinck, e poi Parigi, l’anno successivo, dove frequentò le lezioni del compositore e direttore d’orchestra Gabriel Grovlez, dopo aver studiato in patria con il compositore e organista belga Désiré Pâque.
Se oggi la figura di Freitas Branco è ricordata (tanto per intenderci, il termometro enciclopedico rappresentato dal DEUMM segna una voce a lui dedicata di quasi cinquanta righe), è per l’importanza che questo compositore ebbe soprattutto a favore del corpus sinfonico-orchestrale, rigenerando di fatto questo genere, ormai asfittico e agonizzante, come si è visto, in terra lusitana all’inizio del Novecento. I principali punti di riferimento musicale del giovane Freitas Branco furono soprattutto i musicisti francesi del tardo romanticismo (Gabriel Fauré) e i cosiddetti “impressionisti” (Claude Debussy e Maurice Ravel), autori, però, che non gli furono di grande aiuto quando il compositore lusitano, desideroso di riprendere il filo delle sinfonie per grande orchestra, decise di virare verso questo genere musicale. A quel punto, il suo interesse si concentrò sullo sviluppo tematico e ciclico (si tenga a mente questo particolare per quanto si andrà a leggere nel corso del presente articolo) di chiara impronta franckiana (non per nulla, la sua prima sinfonia, risalente al 1924, rispecchia in diversi aspetti la sinfonia in re minore di César Franck, al punto che tali aspetti non riguardano solo lo stile, ma anche la forma, visto che il lavoro sinfonico di Freitas Branco, come quello del compositore belga, vanta tre tempi e non quattro, come da tradizione germanica).
Accanto alla produzione sinfonico-orchestrale, che oltre alle quattro sinfonie presenta, tra gli altri, anche un concerto per violino e orchestra e cinque poemi sinfonici, vi è anche quella dedicata alla musica cameristica, la quale se per numero di opere è nettamente inferiore alla prima, non per questo è meno importante da un punto di vista qualitativo. Lo dimostra, in tal senso, una recentissima produzione discografica, pubblicata dall’etichetta Sony Classical, con il duo Alessio Bidoli e Bruno Canino che ha registrato le due Sonate per violino e pianoforte di Freitas Branco, unitamente al Preludio per violino e violoncello e, con l’aggiunta del violoncellista Alain Meunier, anche il Trio per violino, violoncello e pianoforte, ossia quasi tutto il corpus cameristico del compositore lusitano, visto che manca all’appello praticamente solo il suo unico quartetto per archi.
Chi non conosce la musica di Freitas Branco deve sapere che il musicista portoghese si mosse sempre a livello creativo all’interno del vasto e articolato alveo di un tardoromanticismo che affondò le sue radici nel nutrimento degli studi fatti a Berlino e a Parigi; quindi, da una parte Mendelssohn e, soprattutto, Brahms, e dall’altra, e questo vale soprattutto per la produzione cameristica, Debussy e Ravel. Indifferente ai proclami e alle irruzioni delle avanguardie e dei nuovi linguaggi musicali, Freitas Branco si inserisce quindi nel filone della continuità, di una tradizione musicale all’interno della quale apporta minimi cambiamenti e altrettanti pochi apporti per quanto riguarda il concetto di una modernità vista e considerata con sospetto dall’alto del suo sguardo aristocratico e distaccato (sebbene tale visione aristocratica non sia mai coincisa con l’appoggio alla dittatura di António de Oliveira Salazar, che governò il Portogallo dal 1932 al 1968, né, tantomeno, con la repressiva e soffocante chiusura reazionaria incarnata dal potere ecclesiastico).
In un certo senso, e questo lo si evince chiaramente dall’ascolto della presente registrazione, Luís de Freitas Branco è stato musicalmente un conservatore illuminato, un compositore che ha saputo sempre coniugare il passato con il suo presente senza mai preoccuparsi di quanto sarebbe potuto accadere nel futuro (se si ascolta la sua Quarta e ultima sinfonia, che risale al 1952, ossia sette anni dopo la morte di Anton Webern e al concomitante fiorire dei corsi estivi della Scuola di Darmstadt, ci si rende conto di come il concetto di futuro non rientri nella sua visione artistica). Ma questo non significa che la sua produzione musicale sia votata, ancorata a una paralizzante staticità compositiva, con lo sguardo rivolto a un nostalgico e illusorio “mondo di ieri” dal quale non è possibile staccarsi (ogni riferimento a Rachmaninov è puramente voluto); e se, al limite, le sue opere sinfoniche e orchestrali vengono create in nome di quel “neoclassicismo” d’impronta franckiana di cui si è detto, la sua limitata produzione cameristica, al contrario, offre qualche spunto di analisi in più.
Questo a cominciare dal Trio per violino, violoncello e pianoforte che fu composto dal musicista lusitano nel 1908, quindi a soli diciotto anni (anche se non è la prima opera del suo catalogo, visto che l’anno prima scrisse l’orchestrale Scherzo Fantastique), il quale rappresenta uno dei primissimi risultati musicali sotto la spinta e lo stimolo degli studi effettuati con Désiré Pâque. Se questa pagina, che vanta una durata considerevole con i suoi oltre venti minuti (almeno per ciò che riguarda questa registrazione), non può essere definita ovviamente “sperimentale”, per i motivi che sono stati appena addotti, è anche vero però che la sua forma è racchiusa in un unico tempo suddiviso a sua volta in quattordici sezioni, con un andamento rapsodico e ciclico, in cui non vengono a mancare, come si può notare dall’incipit, anche delle cellule dissonantiche. Certo, l’eloquio, il dialogo, il confronto tra i due strumenti ad arco e il pianoforte si indirizzano poi su binari maggiormente standardizzati, frammezzati però da improvvisi e repentini glissandi, da fugaci articolazioni che mostrano un andamento armonicamente più ardito, fornendo quasi una connotazione umoristica al quadro generale della composizione, la quale, in fondo, come fa giustamente notare Franco Pulcini nelle note che accompagnano il disco, presenta una dimensione formata da diversi tasselli, da riquadri che si succedono uno dopo l’altro, formando un’immagine che richiama un patchwork, il cui succo ha un sapore che rimanda sovente a scorci brahmsiani.
Di due anni posteriore è invece il breve Preludio per violino e pianoforte, la cui impostazione costruttiva di fondo muta verso un’iridescenza che riporta alla mente l’esprit dei musicisti impressionisti francesi e rappresenta una pagina che può fare da debita e istruttiva introduzione alle due Sonate per Violino e pianoforte, cuore e centro nevralgico della risicata produzione cameristica del nostro autore. Ci sono vent’anni di distanza tra la Prima sonata (1908) e la Seconda (1928), una distanza che pone la prima quale risultato, come il Trio, degli anni di apprendistato e la seconda come espressione di una piena maturità stilistica e compositiva di Freitas Branco. L’incipit del primo tempo della Sonata n. 1, l’Andantino non troppo moderato, sembra provenire da un Maurice Ravel in vacanza a Cascais, intriso di una malinconica intimità, una cifra, questa, che sarà comune nella visione cameristica dell’autore, ma ben presto lo stile compositivo, nel medesimo primo tempo, penetra nei territori di un Brahms che però, fortunatamente, non viene mai sterilmente scimmiottato. Il secondo tempo, un Allegretto giocoso, assume ancora un connotato ironico, basato su un interessante impianto armonico che fece storcere il naso dei contemporanei, ma che denota una notevole freschezza inventiva, grazie alle brillanti soluzioni dialogiche che si presentano tra il violino e il pianoforte. L’Adagio molto che segue si rapprende, ancora una volta, in una dimensione dal sapore onirico, illanguidito dal tema proposto dallo strumento ad arco, la cui impostazione melodica risente ancora inevitabilmente di un tardoromanticismo di chiara matrice germanica. L’ultimo tempo, l’Allegro con fuoco, è indubbiamente il più interessante, oltre ad essere il più lungo della composizione; torna a fremere un impulso dialettico che investe entrambi gli strumenti, i quali danno vita a una struttura elaborata e appassionata allo stesso tempo, in cui non vengono a mancare ancora accenni dissonantici, oltre al fatto che l’apporto pianistico è più corposo e magmatico. E com’era già accaduto nel Trio, anche qui la pagina si conclude con un elemento rapsodico-ciclico che riporta l’impianto alle cellule iniziali della Sonata.
Opera della maturità, come si è detto, la Seconda sonata sembra apparentemente un retrocedere di fronte alle arditezze armoniche che talvolta la Prima sonata aveva mostrato, ma in realtà ci troviamo davanti a una composizione la cui materia musicale viene maggiormente disciplinata, oltre ad appartenere di diritto ai territori di un neoclassicismo formale, anni luce lontana, però, dalle tentazioni stravinskijane. È il regno di un’intimità dialogica esternata sapientemente dai due strumenti, di un distacco emotivo che si racchiude in se stesso, come esemplificato dal primo tempo, un Allegretto che appare circonfuso da una tenera desolazione, declamata da una timbrica in cui le sfumature si assommano le une sulle altre, tracciate da una linea melodica che non si lascia mai andare, ma che resta sempre sul chi vive. Un modo efficace, spiazzante a tratti, per enunciare un ideale musicale in cui i termini aristocratici non lasciano mai il passo, persino nel tempo che segue, un Molto vivace, nel quale il giovane Freitas Branco ha ormai lasciato spazio a quello più maturo e consapevole dei propri mezzi espressivi, che risultano essere più disciplinati, più calibrati, calati assai bene nella trasformazione rarefatta che intride il Trio centrale. Ma il movimento-capolavoro di questa pagina è sicuramente dato dal terzo tempo, un Andantino, al quale il compositore lusitano affida il proprio messaggio dentro la bottiglia, una sorta di corale diluito in una dimensione trasfigurata, contrassegnato da un incedere delicato e solenne, un lento, inesorabile progredire verso aneliti che rimangono sempre sfuggenti, impalpabili, diafani. Il violino e il pianoforte si prendono per mano e vanno avanti contando i passi di una marcia che a volte sfiora il colore nero del funebre. La materia viene stemperata e dominata, persino quando l’eloquio si trasforma in una crosta drammatica, la quale appare nella parte centrale del movimento, un annaspare angoscioso tratteggiato dal singhiozzo violinistico sotto l’incalzare timbrico e reiterato del pianoforte. Poi, il tratto torna a rasserenarsi in quel fatidico distacco, in quella discrezionalità squisitamente aristocratici, riordinato nelle fila di un neoclassicismo la cui purezza s’incarna nel riaffacciarsi della linea iniziale, un eterno ritorno che si fa ancor più dilaniante nella sua tenerezza estraniata che si allontana progressivamente, con un affievolirsi timbrico fino alle soglie del silenzio, che tutto accoglie. L’eleganza formale non abbandona nemmeno l’Allegro finale, in cui il pianoforte sembra a momenti attratto da impressioni debussyane, mentre il violino arabesca linee suadenti, tutte giocate sul filo di un timbro dalle molte sfaccettature, accese e scure, che si alternano in un gioco di specchi. Passione e disciplina, ordine e slancio, in cui il tema principale appare come i contorni di un sentiero che non dev’essere mai abbandonato. C’è molta carne al fuoco, è vero, ma Freitas Branco riesce sempre a plasmarla con efficacia, con sapienza stilistica, portando a compimento la coda con un senso di rappreso affanno in cui il violino sembra inseguire il pianoforte in una corsa che sembra non avere fine, al termine della quale il tema portante trionfa in modo definitivo, incastonandolo in una luce abbagliante.
Personalmente, considero la lettura di queste due Sonate fatta dal duo Bidoli & Canino superiore a quella fatta da Carlos Damas e Anna Tomasik nella loro incisione che risale al 2011 per la Naxos; trovo che tale superiorità si basi sulla facoltà di quella linea sottile, sottilissima, pregna di quel senso di “distacco” aristocratico che ammanta buona parte della produzione di Freitas Branco, in primis proprio quella cameristica, un “distacco” che il violinista milanese e il pianista napoletano riescono a manifestare con la dovuta delicatezza, affinché le propaggini tardoromantiche del compositore lusitano rimangano tali, senza cadere nel mellifluo di una decadenza tout court. Questo significa sapersi destreggiare nell’apporto delle sfumature psicologiche, nel saper dosare sapientemente il gioco della tavolozza timbrica, nel togliere e mettere, quando è il caso, gli elementi della passione e della placida serenità, conducendo per mano l’ascoltatore nel cuore dell’estetica del musicista portoghese. E questa capacità, questo manifestare a tutto tondo le intenzionalità dell’autore si fissa in particolar modo nella visione double face offerta da una parte dalla sonata giovanile e dall’altra da quella della maturità, con la prima che fa trasparire, attraverso le sonorità dei due interpreti, quel senso di un entusiastico Dioniso che cerca di prendere possesso di quanto lo circonda con la materia musicale che ha tra le mani, rispetto al senso di insondabile mestizia che ammanta al contrario l’architettura, le arcate generali della seconda, nella quale soprattutto Alessio Bidoli riesce a definire, ad esprimere tra le note e gli accordi quella caratteristica tipica del popolo andaluso, ossia una tristezza che è nostalgia e, allo stesso tempo, motivo di speranza e di illusione, tutti elementi emotivi, antropologici fissati magicamente nel fado.
Bruno Canino, poi, non dimentica mai di essere un accompagnatore-protagonista straordinario, eloquente, catalizzatore di suoni con i quali esprimere e indicare, partner ideale per qualsiasi artista cameristico (nel caso di Alessio Bidoli, non bisogna dimenticare che i due hanno già alle spalle alcune produzioni discografiche attraverso le quali hanno sondato opere di Poulenc, Ravel, Stravinskij, Prokof’ev, oltre a registrare le Sonate di Saint-Saëns). Da ultimo, il prezioso apporto dato da Alain Meunier, come sempre raffinatissimo violoncellista, il quale ha saputo calarsi idealmente nel rendere al meglio l’eloquio del Trio cameristico.
Renato Campajola e Mario Bertodo hanno confezionato una pregevole presa del suono, effettuata a 24 bit; la dinamica è oltremodo veloce, molto energica, ma naturale al tempo stesso, esente da spiacevoli enfasi coloristiche. Ne ha tratto vantaggio il palcoscenico sonoro, nel quale i tre strumenti sono stati ricostruiti a una discreta profondità, il che ha permesso anche di ottenere spazialmente una buona dose di ampiezza e di altezza della fisicità del luogo di registrazione. L’equilibrio tonale è corretto, con i registri dei tre strumenti che risultano essere sempre distinti e messi a fuoco, in modo da far apprezzare meglio il loro dialogo e confronto. Infine, il dettaglio conferisce credibilità alla ricostruzione tridimensionale degli artisti e degli strumenti musicali, grazie a una considerevole presenza di nero che favorisce la loro matericità.
Andrea Bedetti
Luís de Freitas Branco – Complete Violin Sonatas and Piano Trio
Alessio Bidoli (violino) - Alain Meunier (violoncello) - Bruno Canino (pianoforte)
CD Sony Classical 19439995992
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4/5