Disco del mese di Settembre 2023
Si pensa alle trascrizioni fatte sulla Nona sinfonia di Beethoven e, inevitabilmente, vengono alla mente quelle fatte da Franz Liszt, una per due pianoforti e l’altra per pianoforte e coro. E già si potrebbe credere a una duplice sfida, accettata e per alcuni versi risolta, considerati entrambi i risultati in termini di trascrizione e della resa d’ascolto. Ma non si creda che la sfida lanciata verso la Sinfonia Corale, per ciò che riguarda l’arte della trascrizione, finisca qui. Sì, perché recentemente la casa discografica Brilliant Classics ha pubblicato una registrazione, effettuata da due artisti milanesi, il violinista Mauro Loguercio e la pianista Emanuela Piemonti, i quali
hanno riscoperto una trascrizione per violino e pianoforte dell’ultima sinfonia del genio di Bonn ad opera di un musicista boemo, Hans Sitt (nato a Praga nel 1850 e morto a Lipsia nel 1922), che merita di essere presa in assoluta considerazione.
Prima di tutto, però, tenuto conto che il nome di Hans Sitt può risultare del tutto sconosciuto a molti, è bene fornire qualche informazione sulla sua vita e sulla sua opera. Figlio di un notevole violinista ungherese, Anton Sitt, Hans studiò musica al Conservatorio di Praga, per poi diventare primo violino dell’orchestra del teatro di Breslavia e poi di quella di Praga. Tanto per capire la predisposizione alla musica di Sitt, basterà questo dato: a soli vent’anni divenne direttore d’orchestra nella città natale, per poi esserlo, dal 1873 fino al 1880, a Chemnitz. Tre anni dopo, ebbe la cattedra di violino al Conservatorio di Lipsia, uno dei più prestigiosi in Germania, un incarico che conservò fino al 1921, avendo tra i suoi allievi musicisti del calibro di Fritz Stein, Franco Alfano, Pablo Sorozábal, Frederick Delius e il leggendario direttore ceco Václav Talich. Inoltre, dal 1885 al 1903, Hans Sitt guidò il Bachverein di Lipsia e dal 1883 al 1895 suonò la viola nel celebre Quartetto Brodsky, insieme con Hugo Becker, Julius Klengel e il fondatore Adolph Brodsky. Infine, e questo è un aspetto fondamentale rispetto al lavoro di trascrizione della Corale in oggetto, Sitt fu un notevole teorico musicale, autore di numerosi testi didattico-pedagogici, oltre ad aver composto un considerevole numero di pezzi per violino e orchestra, inclusi sei concerti e diverse sonate per vari strumenti, e senza dimenticare la sua orchestrazione, considerata la più riuscita, delle Danze norvegesi op.35 di Edvard Grieg, scritte originariamente nel 1881 per pianoforte a quattro mani.
La peculiarità di questa trascrizione, che il duo Loguercio & Piemonti (leggi la loro intervista) ha registrato in prima assoluta mondiale, è che al di là della capacità di trasmettere in modo brillante e geniale la monumentalità della sinfonia, è quella di dissociarsi dal tipico concetto di trascrizione che imperversò a partire dalla seconda metà dell’Ottocento a uso e consumo di musicisti dilettanti, vale a dire di liofilizzare, essenzializzare, striminzire un’opera originale, restituendone solo l’aspetto melodico, quello più immediato. Cosa che, ovviamente, non poteva essere fatto con un capolavoro come la Corale beethoveniana, la cui impalcatura armonica è a dir poco fondamentale per la resa proiettiva di tutto il costrutto (questa capacità del compositore e violinista praghese gli permise, altro dato interessante, di trascrivere tutto il resto del corpus sinfonico di Beethoven, oltre a due lavori sinfonici di Haydn, uno di Mozart, l’Incompiuta e la Nona di Schubert, due di Mendelssohn e uno di Schumann).
Trascrivere per Hans Sitt significò “equilibrare”, ma non nel senso consueto dell’epoca in cui visse e operò, vale e dire dividendo a metà la complessità di una partitura mediante l’utilizzo di un pianoforte a quattro mani, bensì mantenendo e restituendo la complessità e la ricchezza della medesima sulla base delle possibilità tecniche, armoniche e timbriche del suo strumento prediletto e immergendolo nel sofisticato e molteplice tessuto del pianoforte, creando in tal modo un rapporto strettissimo, basato reciprocamente sul dare all’uno e all’altro, affinché ogni segmento dell’elaborato dell’opera fosse un continuo alternarsi di pesi e contrappesi sonori. Ed è da qui che nasce e si sviluppa il concetto di equilibrio trascrittivo in Hans Sitt.
Sulla base di ciò, l’opera di trascrizione non tende a togliere, bensì ad aggiungere, non dà atto a un processo di nascondimento, ma al contrario, e ciò può sembrare apparentemente paradossale, permette di svelare ciò che la partitura originaria per orchestra poteva dissimulare. E ciò accade puntualmente nella trascrizione della Nona sinfonia, in cui diverse sue parti attraverso la lucidità enunciativa dei due strumenti fa affiorare aspetti sorprendenti, come nel caso dell’incalzante e perentorio Scherzo, nel quale sono messe esemplarmente a fuoco le strutture polifoniche che lo tengono in vita, così come il gioco arguto che contraddistingue il primo tempo, frutto di un continuo alternarsi e sostituirsi tra l’utilizzo delle imitazioni e lo sviluppo delle dimensioni motiviche. E non nascondo il fatto che, ancor prima di ascoltare la presente registrazione, mi sono posto degli interrogativi su come Sitt avesse potuto districarsi in quel coacervo di linee vocali, corali e orchestrali che formano l’aspetto più debole, a livello di risultato, di tutta la sinfonia, ossia l’ultimo tempo, con la presenza del retorico testo schilleriano. Eppure, la fase trascrittiva più convincente, a mio avviso, dopo aver ascoltato il disco, si focalizza proprio su questo tempo, facendoci comprendere come in fondo il Finale rappresenti la chiusura del cerchio che inizia con il primo tempo, in quanto anche nel quarto movimento, e la scrittura trascrittiva lo chiarisce ottimamente, l’alternanza di quei momenti fissati, di volta in volta, dagli elementi vocali, corali e orchestrali, viene ulteriormente chiarita dall’enunciato del violino (soprattutto in quelli in cui il pianoforte tace) e da quello della tastiera pianistica, delineando ancor di più la massa dei pesi e dei contrappesi rappresentati dal mutamento dalla danza in marcia, dai corali ai fugati, dai recitativi alle arie, in modo da far affiorare, incontrovertibilmente, la struttura di una serie di variazioni che si basano sul noto tema iniziale. Il che fa comprendere come l’uso del violino e del pianoforte, da parte del musicista praghese, sia stato brillantemente “paritario”, non ergendo lo strumento ad arco a protagonista assoluto e relegando la tastiera a mero accompagnamento o a fissarla nello scomodo e inadeguato compito di simboleggiare l’intera massa orchestrale.
Quindi, ha perfettamente ragione Mauro Loguercio quando, in un passaggio delle note di accompagnamento al disco, da lui curate insieme con il compositore Alessandro Solbiati, afferma testualmente che «la trascrizione di Sitt è un omaggio epico e drammaturgico, lontano dall’uso salottiero di tante trascrizioni dell'epoca, con una qualità estetica di assoluta eccellenza».
Quando si può affermare che una trascrizione è compositivamente e interpretativamente riuscita? Semplice, quando il suo ascolto e la sua assimilazione devono essere anteposti a quelli della versione originale dell’opera. Come, appunto, avviene nel caso della trascrizione della Corale da parte di Hans Sitt e grazie alla magistrale esecuzione da parte del duo Loguercio & Piemonti. Questo perché una trascrizione particolarmente riuscita ed eseguita in modo acconcio diviene una perfetta guida artistica dell’opera che rappresenta nella sua condensazione ed essenzialità. E qui siamo di fronte a una registrazione capace non solo di restituire, ma di completare quanto si annida nella scrittura della Sinfonia Corale; e se proprio devo dirla tutta, quella di Sitt può essere definita una sorta di propileo sonoro ideale per comprendere i meccanismi, le zone illuminate, quelle in penombra, i piani prospettici, le vetrate e i panorami che si possono ammirare attraverso di esse. Insomma, l’intero edificio sinfonico, piano per piano, locale per locale, con tutti gli arredi e la mobilia.
Inoltre, c’è anche un altro punto che dev’essere chiarito e che è possibile fare proprio grazie al lavoro del musicista praghese: una vera trascrizione, se fatta da un altro autore rispetto a quello dell’opera originale, deve vantare un afflato, un decodificarsi nel suo processo di trasmutazione da ciò che era prima e in ciò che è dopo, del tutto oggettiva e non soggettiva: vale a dire che il procedimento trascrittivo deve necessariamente restituire non solo l’essenza, le caratteristiche, gli aspetti armonici e melodici dell’opera originale, ma mantenere anche una sorta di fecondo distacco creativo, senza aggiungere e senza togliere, ossia non stratificando con qualcosa che non apparteneva a ciò che era all’origine. E in ciò la trascrizione di Hans Sitt, da ciò che ho potuto ascoltare (mi dispiace, ma l’ascolto non è stato corroborato dal controllo della partitura, in quanto non in mio possesso), rientra nel corpus di quelle che possono essere definite “oggettive”, rispetto a quelle, invece, in cui l’apporto creativo, la dimensione prorompente dell’artista che si irradia in esse, le fanno diventare inevitabilmente “soggettive”, come nel caso delle due trascrizioni lisztiane, le quali non ricalcano e riducono la materia squisitamente beethoveniana, ma rappresentano l’idea che il compositore ungherese ha di esse. Sitt, trascrivendo, si nasconde, si annulla a livello creativo, instillando solo la sua sapienza in termini di linguaggio musicale, traducendo direi alla lettera, mentre Liszt no, poiché traduce attraverso il filtro della propria genialità, quindi aggiungendo la sua buona dose di sensibilità compositiva.
Per completare il discorso, sempre sull’onda di ciò che ho potuto ascoltare, Mauro Loguercio e Emanuela Piemonti si sono dimostrati degli ideali “fiancheggiatori” della visione trascrittiva di Hans Sitt; la loro lettura rientra nel novero di quella suprema oggettività identificativa del suono, al punto che la loro aderenza, la loro conformità alla dimensione totale e particolare dell’opera fanno in modo da poter evidenziare assai bene l’esprit beethoveniano, quindi non restituendo solo l’aspetto “ingegneristico” della trascrizione, ma anche e soprattutto quello “architettonico”. Ciò significa che il loro intento non è stato quello di voler sostituire con il suono del violino e del pianoforte la massa orchestrale, ma esaltando la quintessenza di entrambi gli strumenti che affrontano una spaventosa mole di scrittura musicale. Ergo, niente voli pindarici, niente virtuosismi che non dovevano essere presenti (ci siamo capiti, vero Franz Liszt?), al di là del confezionamento dovuto e del pieno rispetto delle parti, in cui lo strumento ad arco e la tastiera esprimono insieme, oppure solisticamente, perché lo scopo era quello di mettere a nudo quanto la partitura, soprattutto quella originale, prevedeva. Sembra facile, ma non lo è, che diamine!
La caratura del suono da loro prodotto è tale che non tanto la sua volumetria, quanto la sua bellezza riesce a colmare l’idea di fisicità orchestrale che una trascrizione da una sinfonia può a volte causare; anche chi conosce a memoria la Corale, non potrà fare a meno di ascoltare questa registrazione come se fosse un’opera eminentemente cameristica, poiché la capacità espressiva e tecnica dei due interpreti è di una totale portata ri-creativa, al punto che ascoltando il violino e il pianoforte, il nostro ascolto non abbisogna di immaginare la sezione degli archi o quella dei fiati o ancora gli ottoni e le percussioni per risultare convincente e plausibile. Violino e pianoforte, in tal senso, bastano e avanzano, poiché capaci di dare luogo a un suono che è totalizzante nella sua essenza e nella sua presenza. Semmai, è proprio grazie alla loro lettura che questa trascrizione riesce a diventare una metatrascrizione, pur mantenendosi in quella chiave oggettiva della quale ho accennato sopra. Una trascrizione che, non nelle sue finalità, ma nella sua resa esecutiva, diviene qualcosa di molto più importante e prezioso: un capolavoro.
Disco del mese di settembre di MusicVoice.
Capitolo a parte, per completare l’eccellenza assoluta di questa registrazione, è la presa del suono effettuata da Corrado Ruzza alla Fazioli Concert Hall di Sacile. Premetto che Ruzza appartiene a quella razza eccelsa di ingegneri del suono poiché, oltre a possedere la debita τέχνηdella materia, è anche un valentissimo musicista e pianista, quindi abituato a mettersi nei panni di chi viene fissato nel suono che produce con il proprio strumento. Andiamo per ordine: la dinamica è un concentrato di energia, velocità e pulizia, sommate a una piacevolissima naturalezza del timbro, esente (e stiamo parlando di un compact disc) di quei colori artificiali che connotano purtroppo la maggior parte delle incisioni digitali; tutte queste qualità permettono di ricostruire un più che verosimile palcoscenico sonoro dello spazio fisico nel quale è avvenuta la registrazione. Probabilmente, a causa del tipo di microfonatura e del suo posizionamento, i due strumenti (tecnicamente ed espressivamente eccezionali, visto che parliamo di un Pietro Guarnieri del 1724 e di un Fazioli Concert Grand F278 nr. 1335 “Mago Merlino”) risultano essere abbastanza ravvicinati, senza però che ciò risulti innaturale e poco credibile (semmai, c’è da rimarcare la notevolissima messa a fuoco, che permette di percepire palpabilmente la presenza dei due artisti davanti ai nostri occhi), con una ragguardevole altezza e ampiezza del suono che va ben oltre i diffusori. Se devo essere sincero, il parametro che mi ha maggiormente impressionato è stato quello dell’equilibrio tonale; anche qui, a mio avviso, ha giocato un ruolo assai importante il posizionamento dei microfoni, poiché i registri, sia quello medio-grave, sia quello acuto, dei due strumenti sono sempre perfettamente circoscritti e riconoscibili anche nei ppp e nei fff, oltre a non presentare un’oncia di reciproca invadenza, permettendo così di apprezzare appieno la sequenza dialogica del tessuto musicale. Infine, il dettaglio è un puro concentrato di matericità, con una marcata di presenza di nero che circonda i due strumenti, il che non solo rende l’ascolto fisicamente più verosimile e per nulla faticoso, ma aiuta anche a focalizzare meglio quanto avviene nel parametro del palcoscenico sonoro. Da manuale audiofilo.
Andrea Bedetti
Hans Sitt – IX x 2-Beethoven 9th Symphony op. 125. Transcription for violin and piano
Mauro Loguercio (violino) – Emanuela Piemonti (pianoforte)
CD Brilliant Classics 96711
Giudizio artistico 5/5
Giudizio tecnico 5/5