Una delle caratteristiche più coinvolgenti e stimolanti proposte dalla musica del compositore e violoncellista italo-argentino Jorge Bosso è quella di saper plasmare il suo messaggio sonoro sulla base di impellenze e di necessità creative che derivano da idee, personaggi, fatti dai quali elaborare elementi capaci di agganciarsi a quanto viene proposto dalle sue opere. Proprio per questo motivo, più ascolto le sue composizioni, più mi rendo conto che l’immagine che può riassumere e restituire il dono della arte è quella riguardante un’instancabile e commovente stratificazione che avviene tra la manipolazione e l’aggregazione del flusso musicale e la sua attinenza originale e originaria con la quale viene avvolto. Che sia legata al mondo dei suoni o che provenga da moti culturali, artistici o esperienziali appartenenti ad altre realtà speculative, l’opera di Bosso dev’essere assimilata e metabolizzata sempre attraverso questo principio di stratificazione il cui sapore rimanda a una metafisica il cui scopo principale è quello di andare a “purificare”, a “nobilitare” quanto viene toccato ed enunciato dal fluire sonoro stesso.
L’ascolto e la conseguente riflessione di esso inerenti al suo ultimo progetto discografico, intitolato Brothers e pubblicato dalla Da Vinci Classics, non ha fatto altro che rafforzare in me tale interpretazione. D’altronde, quando si legge il programma presentato in questo CD, ed eseguito da artisti del calibro di Mario Brunello, Giovanni Sollima, Enrico Dindo, oltre alla violinista Dora Schwarzberg e allo stesso Jorge Bosso, non si può fare a meno di notare come le desinenze sonore siano componenti di aggregazioni “linguistiche” in cui la radice vede, di volta in volta, immagini che si fissano su Theo e Vincent van Gogh (nel brano Mon cher frère per trio di violoncelli e dodici violoncelli), sulla Partita n. 2 BWV 1004 in re minore di Bach, sulla quale si appoggia la tentacolare propagazione di un coro che canta Der Frühling der Minnesänger, un brano dello stesso Bosso composto da testi dei Minnesänger e del poema epico Der Nibelüngen, oltre che citazioni da Unter den Linden di Walter von der Vogelweide e rimandi stilistici alla Scuola di Notre Dame, principalmente Leoninus e Perotinus, e con la Ciaccona finale che presenta testi di Paolo Diacono (l’inno Ut queant laxis), Giordano Bruno (De Magia Mathematica), Hildegard von Bingen e dei Genesis. Gli altri tre brani presenti nella tracklist sono altrettanti esempi di un’estrapolazione soggettiva e oggettiva, nel senso che se I Dreamt My Last Breath In Your Arms per dodici violoncelli si deve intendere oggettivamente attraverso la sua realizzazione abbinata a un’installazione visiva (l’idea dell’“immagine” che torna prepotentemente e ossessivamente), Symphonia, sempre per dodici violoncelli, rappresenta soggettivamente un arrangiamento per dodici violoncelli dell’Agnus Dei e della Communio tratto dal Requiem del compositore italo-argentino, creato nel 2004 per commemorare il decimo anniversario della morte della figura materna, mentre l’ultimo pezzo, Siamo lacrime del fiume [da Eraclito], credo che non debba essere inteso solo attraverso la visione data dal filosofo di Efeso, ma anche tramite l’interpretazione presente nell’opera dello scrittore e saggista uruguaiano Eduardo Galeano (El libro de los abrazos) e anche dai riferimenti che ne fa nei suoi versi Jorge Luis Borges.
Va da sé che il brano di riferimento, quello intorno al quale girano tutti gli altri, è sicuramente la versione “stratificata” della Partita bachiana, che qui viene presentata nella registrazione dal vivo avvenuta il 23 dicembre 2009 presso la Sala Filarmonica di Krasnoyarsk, nel cuore della Siberia, e che ha visto quali interpreti la grande violinista austriaca di origine ucraina Dora Schwarzberg e il Tebje Poem Choir diretto da Kostantin Jakobson.
Mi preme, intanto, sottolineare un fatto di ineludibile importanza per comprendere appieno il modus componendi di Bosso: reputo, infatti, che questa necessità stratificante che avviene a livello stilistico nella sua musica parta da un concetto di incompletezza che affascina l’artista italo-argentino; nel senso che un’opera d’arte, una vera, assoluta opera d’arte, anche se formalmente completa, deve forzatamente comunicare un senso di “incompletezza”, di non-finitezza in sé, affinché si possa realizzare un processo di rimandi, di appoggi, di concatenazioni con quanto appartiene o meno con il suo tempo. Ecco da dove prende origine l’impellenza stratificante in Bosso, in quella sua ricerca di punti di aggancio, di specchi (sarà, ma anche qui torna Galeano con i suoi Espejos. Una historia casi universal), di allargamenti, anche se tale termine potrebbe risultare fuorviante, poiché il procedimento di aggregazione in Bosso avviene non in senso orizzontale, ma verticale, strato su strato, per l’appunto. Come avviene proprio con la Partita n. 2 di Bach, dove sull’eloquio del violino (la radice) si appoggiano le voci del coro (le desinenze). La stratificazione che avviene nell’unire la radice con le desinenze permette la declinazione di un linguaggio musicale che è, quindi, assimilabile ai dittici e ai trittici, se vogliamo continuare a prendere come riferimento l’“immagine”, delle pale pittoriche rinascimentali, le quali potevano essere osservate e ammirate nella loro completezza o anche nella loro parzialità. Non per nulla, come ricorda lo stesso Bosso, Der Frühling der Minnesänger, che assomma in sé il BWV 1004, faceva parte di un “concerto/pala/trittico” che vedeva anche la presenza/esecuzione dell’orchestrazione della Sonata per violino di Richard Strauss utilizzando la medesima strumentazione, ossia il procedimento del “rimando”, che il compositore bavarese aveva impiegato per il suo poema sinfonico Don Juan. Infine, la trasmigrazione stratificante ha un ulteriore “pannello” dato dalla versione orchestrale (ennesimo “rimando”!) del pianistico Albumblatt di Richard Wagner, originariamente arrangiato (incipitdel processo di stratificazione) per violino e pianoforte da August Wilhelmj, l’ex Konzertmeister dell’Orchestra di Bayreuth.
Appare, dunque, evidente come Jorge Bosso sia veramente ossessionato dal concetto del “concetto”, ossia di una linea-guida che permette la realizzazione concettuale/musicale delle sue composizioni, proprio perché nelle “radici”, che danno luogo alla creazione, riconosce in esse quel principio vitale, essenziale, di incompletezza che dev’essere momentaneamente/parzialmente completata da un’ulteriore opera di stratificazione, la quale, però, non è mai ultimante. Bosso, infatti, si rende perfettamente conto, per onestà e correttezza intellettuali, che il suo fare musica rappresenta solo l’unico modo possibile per fare affiorare e mostrare quel senso di perenne incompletezza che spinge alla creazione stessa. Per questo motivo, creare significa fare in modo che gli specchi, ogni volta posizionati in angolazioni perennemente diverse, possano riflettere e riflettersi in un gioco infinito e labirintico (ricordiamoci del già citato Borges), facendo sì che le radici (tradizione) possano trovare le loro desinenze (innovazione). In fondo, un capolavoro artistico è il risultato di un perfetto sincretismo tra la tradizione e l’innovazione, facendo in modo, allo stesso tempo, che tale processo di reiterazione creativa possa continuare all’infinito.
Certo, non bisogna poi dimenticare un altro tassello di notevole importanza, per ciò che riguarda Bosso, vale a dire, e questo è già intuibile rispetto a quanto spiegato finora, che il suo creare non appartiene al filone della cosiddetta arte per l’arte, ma a quello dell’arte per la vita, quindi con un chiaro coinvolgimento di una prassi etica. Ergo, arte come insegnamento e arte come monito, come afferma egli stesso in un passaggio delle note di accompagnamento al disco: «La parola monumento deriva dal verbo latino monĕre che significa evocare, ricordare, celebrare. Questo è il significato e l’etimologia di monumento. Un monumento prevede sempre un pareggio. Un monumento porta in sé un impegno. Un monumento implica una responsabilità verso il passato di una società e allo stesso tempo un obbligo verso il futuro». Queste parole fanno anche comprendere meglio le motivazioni che hanno spinto il compositore italo-argentino a far cantare dalle voci del coro Der Frühling der Minnesänger, espressione di quell’amor cortese esaltato dai trovatori tedeschi, che porta la forza del sentimento a distaccarsi dalla concezione classica dell’eros greco. Se quest’ultimo è la rappresentazione di quel coinvolgimento che porta l’uomo a inneggiare alla natura con la libera espressione di ciò che si prova, l’amor cortese, frutto del nefasto cambiamento di rotta apportato dal cristianesimo, si trasforma in un “servizio-in-funzione-di”, che si attua attraverso il Minnedienst, ossia il servizio dell’amore, come ribadisce ancora Bosso in un altro passaggio delle note di accompagnamento: «Lo scopo del Minne era l’elevazione dello spirito e la rappresentazione di questo atto spirituale era l’immagine della frouwe, la dama. Era un simbolo, un emblema, un’icona. La rappresentazione sulla terra di questa tendenza metafisica dell’essere umano verso il tempo senza fine».
Che il compositore e violoncellista italo-argentino ponga molta attenzione sul concetto generale di amore, proiettato attraverso le sue molteplici sfaccettature, lo dimostra anche il brano di apertura Mon cher frère, nel quale si manifesta quell’ideale di fratellanza che, al di là delle stesse spiegazioni fornite da Bosso, che simboleggia storicamente il “rimando” fornito dall’epistolario tra i fratelli Vincent e Theo van Gogh, può trovare un altro parallelismo in ambito letterario il quel genuino manifesto del romanticismo tedesco rappresentato da I fratelli di Serapione di Ernst Theodor Amadeus Hoffmann, nel quale si cela uno dei principi assoluti della metafisica creativa della prima metà dell’Ottocento, quella di non tradire mai il «principio serapiontico», che impone ai nemici del filisteismo di schumanniana memoria di trascendere sempre la realtà con l’aiuto dell’immaginazione. Cosa che qui avviene puntualmente attraverso la “prova di forza” fornita dal trio formato da Enrico Dindo, Mario Brunello e Giovanni Sollima, con l’accompagnamento dei dodici violoncelli, le cui altrettante tracce sono state registrate dallo stesso Bosso, in cui l’incedere progressivo della linea musicale assume a tratti un connotato dal sapore ieratico, solenne e le cui larvali dissonanze vengono sempre addolcite, arrotondate armonicamente da quel «principio serapiontico» di cui si è detto.
Consueto avviso ai naviganti: ci troviamo di fronte a un disco che può essere “per tutti o per nessuno”. Quindi, ciò vuol dire che il suo ascolto dev’essere attentamente mediato dallo spessore extramusicale del quale è investito, per il semplice fatto che la musica di Jorge Bosso può dare molto, a patto che si dia molto al compositore e violoncellista italo-argentino in termini di attenzione e di partecipazione uditiva, in quanto il suo fluire misterico e apparentemente insondabile necessita di uno scavo riflessivo che si attua durante l’assimilazione sonora stessa. Uno scavo ricettivo che si accompagna al notevolissimo scavo interpretativo offerto da tutti coloro che sono stati coinvolti in questo progetto. Ancora una volta, si presti attenzione all’aura che ha investito gli esecutori di Der Frühling der Minnesänger nel corso di quella magica serata del 23 dicembre 2009, quando Dora Schwarzberg, i componenti corali e il direttore Kostantin Jakobson si sono lasciati impregnare dalla discesa del Graal compositivo di Bosso, dando vita a una strepitosa resa dei conti in ambito “sacrale”, nella quale si vanno ad allineare i pianeti dell’espressione sonora e dell’incarnazione etica.
A livello tecnico, Gabriele Zanetti si è occupato solo in parte della presa tecnica, mentre non è specificato chi ha curato la cattura sonora nel corso del concerto live e dei brani I Dreamt My Last Breath In Your Arms e Siamo lacrime nel fiume, anche se reputo, tenuto conto della loro tipologia esecutiva, che per gli ultimi due sia stato lo stesso Bosso a farlo. Ad ogni modo, c’è qualcosa da eccepire, a cominciare dal lungo brano live, in cui la ricostruzione del palcoscenico sonoro vede il violino troppo avanzato, mentre le voci del coro, in rapporto, risultano essere relegate troppo in profondità. Inoltre, a livello di dettaglio, la sovraincisione dei violoncelli eseguiti da Bosso risulta essere un po’ sfuocata, con la presenza di leggeri aloni che non ne fanno apprezzare la linea esecutiva. Per il resto, non si denotano altre manchevolezze o difetti di sorta.
Andrea Bedetti
Jorge Bosso – Brothers
Mario Brunello, Giovanni Sollima, Enrico Dindo, Jorge Bosso (violoncello) - Dora Schwarzberg (violino) - Tebje Poem Choir - Kostantin Jakobson (direttore)
CD Da Vinci Classics C00886
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 3,5/5