In un’epoca sempre più affascinata e attratta dall’effimero, dal mordi e fuggi, dall’utilitarismo più sfrenato, avere la volontà non solo di proporre, ma anche di scrivere una Messa musicale può rappresentare non solo una sfida, ma anche un chiaro segnale di essere fuori dal proprio tempo, di essere tremendamente inattuali. E non credo di dare un dispiacere a Carlo Alessandro Landini se si afferma che la sua musica e la sua visione artistico-culturale (oltre che essere compositore, l’autore milanese è anche saggista, filosofo, poeta e, last but not least, polemista di vaglia) è doppiamente inattuale, non solo rispetto al proprio tempo, ma anche rispetto alla quasi totalità della musica contemporanea attuale. Figlio, malgré soi, della Scuola di Darmstadt (ma, visto alla generazione alla quale appartiene, chi non lo è stato?), Landini ha infatti saputo maturare negli anni, una concezione personalissima del fare musica, se si tiene conto che tra i suoi maestri ci sono stati, tra gli altri, Gérard Grisey (ecco che Darmstadt fa capolino), Iannis Xenakis, György Ligeti, Witold Lutosławski e l’amato Olivier Messiaen, dai quali di volta in volta ha appreso per poi modificare, affinare, purificare la loro lezione e arrivare, cosa che non molti fanno, ad avere una propria visione, sganciata da correnti, arcipelaghi, cisterne, con la quale confrontarsi in un discorso artisticamente e culturalmente intimo.
Sì, perché la musica di Landini, che sia cameristica, pianistica, orchestrale, è fondamentalmente intima, nel senso che dall’Io traspare sempre una sottile purezza che non si manifesta solo nella forma, la quale aborrisce sperimentalismi di sorta e la pruderie di scandalizzare chi ascolta, ma anche nei connotati di un messaggio in cui non deve mai mancare la ricerca di una bellezza che non è sinonimo di senso estetico, ma soprattutto etico. Un’etica, la sua, che prima o poi avrebbe dovuto fare i conti con un’opera appartenente al repertorio sacro, cosa che infine è puntualmente avvenuta. Questa composizione è la Missa Novem Vocum per coro a cappella (Andrea Bedetti ne ha già parlato in un saggio, pubblicato su MusicVoice, e che è confluito nel booklet del disco), pubblicato dall’etichetta discografica Tactus; certo, non si tratta in assoluto della prima composizione di musica sacra di Landini, visto che già nel 2015 aveva visto la luce Bereshit bara Elohim per coro a quattro voci, ma la portata, l’importanza e le prerogative di questa Messa, che ha richiesto otto anni di lavoro, assumono un contesto a dir poco decisivo nel panorama creativo dell’autore milanese. Tutta l’opera, che sfiora i settanta minuti di durata, è imperniata su una mirabile struttura contrappuntistica, tale da proiettare idealmente l’ascoltatore al tempo della grande lezione polifonica fiamminga; questa struttura, però, risulta essere allo stesso tempo straordinariamente flessibile, mutevole, palpabilmente variata nel corso dei nove momenti che la compongono (Introibo ad altere Dei- Gloria Patri - Kyrie Eleison - Gloria in excelsis Deo - Credo- Sanctus - Agnus Dei - Gratias agimus Tibi - Benedicamus Dominum). E questo rappresenta già un cardine che si ricollega alla “bellezza funzionale” che contraddistingue la musica di Carlo Alessandro Landini, ossia un’estetica che deve trovare sempre la sua ragione in una dimensione etica, non solo in termini di tradizione musicale (in questo caso i grandi maestri del Quattrocento), ma soprattutto in una dimensione artistica che, oltre a restare immune agli spietati dettami del tempo (solo un’opera d’arte è capace di resistere all’elemento straniante temporale), deve saper comunicare l’idea di questo bello, perpetuandone la sua presenza e la sua essenza anche dopo l’ascolto stesso.
Una dimensione che, nel caso della Missa Novem Vocum, si ricollega, almeno nelle intenzioni dell’autore, al ricordo della madre, Helga Derbolowsky Landini, scomparsa nel 2016, alla quale l’opera in questione è dedicata. Ma questa dedica e questo ricordo, in fondo, sono un punto di partenza soggettivo che inevitabilmente nell’economia dell’opera e di ciò che deve suscitare, divengono a loro volta un’irradiazione oggettiva, nella quale ogni ascoltatore può trovare la sua dedica e il suo ricordo personali. Ecco la svolta etica, il fare in modo che l’opera continui a vivere, a restare in colui che ascolta anche dopo il suo ascolto. Ritengo che proprio la struttura contrappuntistica, il continuo innalzarsi ed abbassarsi delle nove voci, in un processo di continua modulazione timbrica, grazie alla limpida e appassionata interpretazione effettuata dall’Ensemble Fleur-de-Lys, diretto da Giorgio Ubaldi, permetta, come ogni cattedrale gotica che si rispetti, di fissare strutturalmente e architettonicamente la forma entro la quale lo sviluppo emotivo e coinvolgente dell’ascolto possa ampliarsi anche nel decorso del post-ascolto.
Come si può compiere questa dimensione del post-ascolto? Se si ascolta attentamente la composizione, se ci si lascia guidare dal compositore, ci si può rendere facilmente conto che i nove momenti che compongono la Messa possono essere equamente suddivisi a metà, con il Credo centrale (con i suoi quasi venti minuti di durata, questo brano è anche il più lungo, oltre ad essere il più denso di tutta la composizione) che fa da spartiacque; la prima metà (Introibo ad altere Dei - Gloria Patri - Kyrie Eleison - Gloria in excelsis Deo) è una lenta, progressiva, a livelli impercettibili, discesa, un alto che tende inesorabilmente verso un basso, come se a guidare l’ascoltatore ci fosse un Landini travestito da Virgilio, mentre la seconda parte, superati gli scogli dissonantici, a tratti glaciali, del Credo, è un altrettanto impercettibile sollevarsi, alzarsi, una levitazione acustica che si compie nelle successive quattro tappe (Sanctus - Agnus Dei - Gratias agimus Tibi - Benedicamus Dominum), con Landini che indossa invece i panni di una Beatrice che deve far abituare l’ascoltatore alla luce sonora che s’impossessa, nota dopo nota, battuta dopo battuta, del panorama d’ascolto. Questa Messa, in fondo, è un viaggio che il compositore milanese ha fatto in prima battuta, per segnare un sentiero, per contrassegnarlo con delle pietre miliari (i nove momenti che la formano) per poi invitare, chi ha il coraggio e la volontà di farlo, di compiere lo stesso tragitto, passando da una luce tenue alle tenebre per poi tornare nuovamente a una luce più pura, meno “estetica” e più “etica”.
Il fatto è che quest’opera, oltre che essere di rara bellezza (la sua rarità si riflette anche rispetto al momento storico e non solo musicale), è anche di una difficoltà a dir poco atroce, che sottopone le voci a un fluire che a tratti sfida le leggi della fisica vocale. Al di là delle arditezze contrappuntistiche, che obbligano gli interpreti a un lavoro certosino per ciò che riguarda l’emissione, gli attacchi, la compattezza del suono che deve propagarsi all’interno del gioco polifonico, capita sovente che la partitura richieda dei rimandi vocali che s’inoltrano nel mare magnum del virtuosismo corale, un virtuosismo che non dev’essere mai rapportato a un abbellimento fine a se stesso, ma che ha la funzione di descrivere meglio a livello spaziale e temporale quel determinato punto del “sentiero” rappresentato dalla Messa. È un ulteriore inabissarsi o innalzarsi, una curvatura verso l’alto o verso il basso, fino a raggiungere la placida serenità, come se fosse una specie di “cristiano nirvana”, rappresentato dal Benedicamus Dominum, in cui la sospensione del canto raggiunge il suo culmine, non solo a livello acustico, ma anche speculativo.
Si è già accennato alla splendida esecuzione da parte dell’Ensemble Fleur-de-Lys, il quale ha dovuto a sua volta affrontare un “sentiero” interpretativo che più periglioso non si può immaginare; ma le difficoltà tecniche richieste, data la fitta ragnatela contrappuntistica che alimenta i settanta minuti di durata, sono nulla rispetto a quanto richiesto in sede espressiva; qui, infatti, l’espressività è tutto, senza la quale l’edificio tecnico-gotico è destinato inesorabilmente a crollare sotto il peso di una scrittura che ha bisogno di compartecipazione assoluta da parte di chi la esegue, di una teatralità implosiva, poiché il coro deve sostituirsi, lungo il sentiero, ai gesti, ai movimenti, alle espressioni delle voci, permettendo ai viaggiatori-ascoltatori di “visualizzare” il canto, le sue inflessioni, le sue emozioni, il suo scoramento e la sua ritrovata felicità. Tutte prerogative interpretative che l’ensemble, sotto l’attenta e appassionata direzione di Giorgio Ubaldi, riesce a rendere in modo pressoché ideale.
Buona anche la registrazione da un punto di vista tecnico, con una dinamica che risulta essere positiva sia per quanto riguarda l’energia che la naturalezza, senza che le voci trasmettano enfasi indesiderate. Anche il palcoscenico sonoro è valido, con le nove voci che si stagliano idealmente al centro dei diffusori a una congrua profondità. L’equilibrio tonale permette, con una corretta riproduzione dei registri, di seguire facilmente le varie voci, senza sbavature e il dettaglio fa cogliere assai bene la fisicità dei componenti del coro a cappella.
Marco Pegoraro
Carlo Alessandro Landini – Missa Novem Vocum
Ensemble Fleur-de-Lys - Giorgio Ubaldi (maestro del coro)
CD Tactus TC 951202
Giudizio artistico 4,5/5
Giudizio tecnico 4/5